INTRODUZIONE
Ci eravamo quasi disabituati a vedere scrittori o scrittrici di fantasy far ricorso allo spazio – nella migliore tradizione della fantascienza di tipo tecnologico o avventuroso – per ambientare e giustificare l’esistenza del loro secondary world, cioè del luogo dell’immaginario che fa da teatro all’azione narrativa, ma che, nel medesimo tempo, per la propria intrinseca veridicità, frutto dell’intima coerenza che lo contraddistingue, eleva l’avventura fantastica alla dignità di un’autentica creazione.
Ci eravamo quasi disabituati, ma solo perché siamo in debito verso la nostra memoria. Basta infatti fermarsi un attimo a gettare uno sguardo alle nostre spalle per renderci conto che l’uso del cosmo come contenitore quasi naturale di qualsiasi universo fantastico autoconsistente è parte integrante della storia della letteratura fantastica, fantasy compresa.
Nessuna letteratura neoepica o neomitica degli anni ‘80 e ‘90, nessun romanzo fantasy come siamo abituati a leggerli oggi, avrebbe potuto vedere la luce senza il precedente costituito da quella grande contaminazione che fu l’avventura spaziale. Incrocio caleidoscopico e visionario di secoli di letteratura di “genere”, punto d’innesto indolore di codici e meccanismi narrativi che venivano di qua e di là dall’oceano e che non avevano ancora avuto il tempo o il modo di dichiararsi i reciproci legami di sangue, crogiuolo di una rivisitazione vitalistica e delirante del western e del romanzo di cappa e spada, del racconto gotico e del feuilleton, l’avventura spaziale degli anni ‘30, ‘40, ‘50 celebra finalmente senza inibizioni e senza falsi pudori e, soprattutto, senza esitazioni intellettuali l’atteso rendezvous fra Buffalo Bill, Fantomas e D’Artagnan!
È lui a cominciare, lo sappiamo tutti. Senza l’impertinenza visionaria e l’inventiva sfrenata di Edgar Rice Burroughs (l’autore che ha inventato Tarzan delle Scimmie), senza gli scoppiettanti, variopinti romanzi di John Carter di Marte e di Carson di Venere – cocktail impudicamente, genialmente kitsch, di sommari fumetti alla Flash Gordon, di peplum di serie B e di vecchie pellicole di Douglas Fairbanks – tutto il filone della sword & sorcery e della heroic fantasy avrebbe preso altre strade. Forse perfino migliori, ma altre. Senza Edgar Rice Burroughs non ci sarebbe stata Leigh Brackett e forse neppure Jack Vance.
Onore dunque all’avventura spaziale e nessuna meraviglia che ancora per lungo tempo lo spazio esterno – lontane galassie e pianeti remoti – abbia fatto da arena e da sfondo alla fantasy più consapevole, da Catherine L. Moore al Clark Ashton Smith di Zothique.
Eppure col tempo ci eravamo disabituati a veder usare lo spazio come secondary world. La lezione di consapevolezza sul senso della subcreazione, sulla natura e struttura degli universi immaginari, così eloquentemente elargita da J.R.R. Tolkien in Albero e Foglia, così ben appresa da intere generazioni di scrittori e scrittrici di fantasy, sull’onda del successo su scala planetaria de Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit, introdusse un cambiamento sottile, ma radicale, nell’atteggiamento degli autori, che si fecero tutti «subcreatori di universi». Dimenticando lo spazio, e dimenticando anche (lo dico per amore della precisione) che Tolkien in qualche modo sul cosmo alzò lo sguardo: almeno quel tanto da accantonare la teoria eliocentrica dimostrata dagli scienziati e ripristinare almeno per la durata della sua saga, la teoria tolemaica – o geocentrica – che ha il difetto di essere sbagliata, ma che simbolicamente vale assai di più. Come dire che anche Tolkien manipolò lo spazio, sia pure a modo suo, cioè in maniera tanto sottile che gli esperti hanno dovuto studiarci trent’anni per accorgersene!
Oh, naturalmente ci sono le eccezioni, a cominciare dal ciclo di Darkover con cui Marion Zimmer Bradley è rimasta solidamente sulla scena, impervia ai cambiamenti, e al quale – non a caso – s’ispira direttamente la trilogia di Paul Edwin Zimmer, che non per nulla è anche suo fratello. C’è da dire che il giovane Zimmer dimostra ampiamente di avere appreso la lezione di Tolkien e dei suoi successori, non solo per le evidenti suggestioni e parentele stilistiche dei suoi romanzi (e di questo in particolare), che echeggiano in maniera non casuale nomi, razze e strutture narrative de Il Signore degli Anelli, ma anche per il piglio epico-fantastico del narrare che – senza mai perdere di vista il gradimento e, perché no, il divertimento del lettore – si dimostra a ogni passo consapevole del valore simbolico delle vicende narrate e delle fonti cui esse si rifanno in maniera evidente.
Che nel cielo, sopra la testa di Istvan Di Vega, prediletto dagli Hastur, e sopra la testa dei suoi audaci compagni, brillino strane lune e le stelle di una galassia ignota, non fa differenza. Voi siete là, con lui, ovunque sia questo luogo. La penna di Zimmer accende la vostra “credenza secondaria”, rende vere e tangibili la Foresta dei Demoni e Carcosa, vi fa partecipi del suo mondo secondario secondo i dettami della fantasy più pura e più riuscita, come avrebbe voluto Tolkien. Questa è l’unica cosa che conta.
Alex Voglino
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CAPITOLO PRIMO: LA CHIAMATA
Il vento profumato di foresta racchiudeva in sé un accenno di magia nel soffiare sopra le acque della baia; sopra la propria testa, Istvan DiVega poteva sentire il secco sbattere delle vele e le grida dei marinai che si arrampicavano sul sartiame, ma il suo sguardo era concentrato sulla famosa riva che aveva dinnanzi e sui ricordi delle storie che gli erano state narrate in gioventù.
Alle sue spalle, l’oceano ininterrotto raggiungeva l’orizzonte dove i due soli gemelli si stavano apprestando a tramontare in direzione della sua patria lontana metà del globo, e la loro luce dorava la grande baia che gli si allargava davanti, splendendo sulle torri di cristallo che si levavano dal fitto verde boschivo e tingendo le piccole case di mille sfumature mistiche. Erano trascorsi oltre quindici anni dall’ultima volta che lui aveva percorso le strade dell’antica Elthar o aveva parlato con i più anziani di tutti gli Immortali che vivevano laggiù. Nel profondo del suo animo desiderava essere a casa nella lontana Carcosa, e tuttavia anche dopo quei lunghi mesi di combattimenti sulle remote coste orientali del continente insulare di Y’gora, si trovò a rimpiangere di non potersi fermare laggiù più a lungo…
Alle sue spalle si udì il sussurro sommesso di uno spostamento d’aria e i suoi riflessi da spadaccino lo indussero a voltarsi di scatto, portando la mano all’elsa della spada. Sentì poi il sussulto degli uomini che si trovavano sul ponte, e al tempo stesso allontanò le dita dalla spada nel vedere la tunica azzurra indossata dall’uomo dai capelli rossi che era appena apparso dal nulla dietro di lui, riconoscendo il volto ampio e gli occhi azzurri di Aldamir Hastur.
Istvan DiVega era nato e cresciuto a Carcosa, quindi il suo inchino fu formale ma privo di qualsiasi accenno della deferenza che un altro uomo avrebbe potuto dimostrare nei confronti di uno dei Custodi del Mondo, perché per gli orgogliosi nobili di Seynyor la Casa di Hastur era soltanto una delle grandi famiglie della Terra dei Signori.
— Lord Aldamir — mormorò, sorridendo per il sussulto dei Nydoreani quando l’Hastur imitò il suo inchino… il saluto di un nobile seynyoreano ad un altro.
— Lord Istvan — rispose Aldamir. — Mi è stato dato di capire che la tua compagnia ha concluso il suo periodo di servizio presso l’Impero Airariano, giusto? È dunque possibile assoldare i tuoi servigi?
— Un Hastur non deve mai parlare di assoldare un DiVega — ribatté in tono rigido Istvan, con voce piena di rimprovero. — Dove dobbiamo andare? Quando? Avremo bisogno di… — Fece una pausa, pensando e analizzando con la mente l’equipaggiamento ammucchiato nella stiva. — Diciamo che ci serviranno tre ore e poi saremo pronti e ai tuoi ordini.
— Non abbiamo bisogno dei servizi della tua compagnia, ma dei tuoi — precisò l’Immortale.
Istvan sbatté le palpebre per la sorpresa e si passò una mano fra i capelli brizzolati.
— È del tuo braccio che abbiamo bisogno e non di un esercito — precisò Aldamir, con un sorriso, e l’orgoglio ebbe la meglio sulla confusione di Istvan, che sentì nel cuore uno squillo di tromba mentre l’Hastur aggiungeva: — Nessun esercito si potrebbe aprire combattendo un varco fin dove ti chiediamo di andare: la strada che dovrai percorrere sarà un sentiero per pochi. Hai mai sentito parlare di Rath Tintallain? — chiese quindi, riducendo la voce ad un sussurro.
Istvan scosse il capo: Y’gora era piena di nomi del genere.
— È una fortezza elfica costruita sopra una città di nani, e laggiù tanto gli elfi quanto i nani sono a guardia per conto degli Hastur di un segreto del quale non intendo parlare. Adesso però su tutti i sentieri del futuro possiamo vedere un attacco, ed anche grande pericolo e distruzione nel caso che Rath Tintallain dovesse cadere. Andrai laggiù?
Lanciandosi una rapida occhiata intorno, Istvan notò che i marinai nydoreani lo stavano fissando apertamente, mentre i suoi connazionali fingevano con divertita tolleranza che l’apparizione di un Immortale sulla loro nave fosse un evento di ordinaria amministrazione, indegno di curiosità o di attenzione.
— Io… certo che vi andrò — rispose quindi, — ma non capisco in che modo la mia singola spada vi possa essere d’aiuto. Perché poi una città protetta dagli elfi… e dai nani… dovrebbe aver bisogno dell’aiuto di un qualsiasi mortale?
— Neppure gli Hastur possono vedere il vero futuro — replicò Aldamir, — o sapere quale delle numerose diramazioni che oggi scorgiamo si concretizzerà. Il nostro incontro di oggi è una cosa che ho visto in molti futuri e sempre gli eventi sono stati più pieni di speranza sulle strade che si diramavano da esso. Inoltre non sarai solo. Ricorda però che la spada che porti è stata forgiata da Earnur Hastur e che secondo alcuni il braccio che la brandisce è uno dei più abili del mondo.
— Aha! — esclamò Istvan. — Lo sapevo! Mi hai confuso con mio cugino Raquel!
— Per nulla! — rise Aldamir. — Raquel si trova in Heyleu, dove sta contando il denaro guadagnato nella sua ultima campagna e sta prendendo in considerazione un invito del suo vecchio amico Birthran, maestro di spada della Casa di Ore, di recarsi in visita alla Corte di Kadar. No, mio signore, non c’è stato nessun errore.
«Un gruppo di guerrieri scelti si radunerà stanotte e se deciderai di unirti a loro dovrai recarti prima di mezzanotte alla Locanda dell’Ascia d’Argento, al crocevia vicino a Nockarv.
— Non dovrei prendere Alar D’Ascoli con me? — chiese Istvan. — È stato addestrato tanto come mago che come guerriero, mentre la mia unica abilità è con la spada.
— Non ci sarà mancanza di maghi, Lord DiVega — garantì Aldamir. — Il tempo però comincia a scarseggiare e la strada è lunga fino alla collina di Nockarv. Puoi andarvi o restare qui, ma dovrai decidere presto, se vuoi arrivare per mezzanotte. Addio.
L’Immortale svanì improvvisamente com’era giunto e Istvan si trovò davanti l’aria vuota che tremolava come se fosse stata esposta al calore del fuoco, sentendosi al tempo stesso consapevole degli sguardi curiosi dei Nydoreani e delle occhiate furtive dei suoi stessi uomini. Intanto i soli gemelli avevano raggiunto il mare e stavano tramontando in tutto il loro splendore di luce multicolore. Alar D’Ascoli gli si avvicinò lentamente con gli occhi scuri pieni di curiosità.
— Assumi il comando — gli disse Istvan, — e una volta a casa bada che ciascuno degli uomini sia pagato giustamente. Pare che io mi debba fermare ad Y’gora per qualche tempo ancora.
— Cosa succede? — domandò D’Ascoli, inarcando le sopracciglia.
— Se lo sapessi, forse avrei il buon senso di andare a casa e di dimenticarmi di tutto! — sbuffò Istvan.
Allorché la barca lo posò a riva era ormai del tutto buio e subito provvide a procurarsi un cavallo; un volo di piccole lune stava solcando il cielo sopra di lui quando finalmente imboccò la strada e incitò il cavallo ad un trotto costante lungo le vie di Elthar.
A mezzanotte, aveva detto Aldamir. A mano a mano che si lasciò alle spalle i moli, le case divennero più distanziate e nascoste fra macchie di alberi, una vista che destò in lui la nostalgia di Carcosa; nel terreno si aprivano qua e là arcate luminose che davano accesso alla sotterranea città dei nani e sui due lati le torri di guardia splendevano sulla sommità delle grandi colline scure in mezzo alle quali si annidava la città.
La vegetazione si fece più folta quando Istvan si lasciò alle spalle la zona abitata dai mortali; gli alberi stessi erano cittadini di Elthar, dotati di diritti protetti dagli elfi, e nel buio le loro foglie stormivano al vento mentre una tenue musica e qualche risata echeggiavano in mezzo ai tronchi e qualche volto delicato scoccava fugaci occhiate dai rami sovrastanti la strada. Luci elfiche tremolavano qua e là fra il fogliame.
All’improvviso il terreno si erse in un muro davanti a lui e la strada si addentrò in una galleria ben illuminata in fondo alla quale i battenti di una porta di ferro erano spalancati e sorvegliati da due soldati nani avvolti in una lucente cotta di maglia, che sostavano accanto ad essa appoggiati a grandi asce. I due scrutarono rapidamente il viandante e non appena notarono la lama degli Hastur che portava al fianco annuirono, lasciandolo proseguire. Istvan uscì quindi da Elthar e proseguì verso est sull’ampia strada che portava verso la regione montagnosa di Tumbalia, al limitare della Foresta dei Demoni.
Adesso le piccole lune fluttuavano rapide fra le stelle, provocando tutt’intorno ombre incerte e mutevoli che rendevano nervosa la sua cavalcatura e destavano anche in lui un senso di tensione, sebbene sapesse che capitava di rado che qualche Creatura della Notte osasse avvicinarsi tanto ad Elthar… quello era territorio elfico, tenuto sotto stretta sorveglianza.
Mentre cavalcava rifletté sulle parole di Aldamir: forse era vero che lui possedeva un certo talento per uscire vivo da ogni battaglia, e in effetti portava al fianco una lama degli Hastur, però tutta quella faccenda non aveva senso.
Istvan era cresciuto ai piedi dei Monti delle Nubi, dove la fortezza hastur di Carcosa si levava in mezzo alle nevi eterne e conosceva bene il potere dei suoi immortali abitanti… il pensiero che adesso gli Hastur stessero chiedendo l’aiuto di qualcuno non era quindi particolarmente confortante.
La luna più grande, Domri, si levò sull’orizzonte come un’enorme montagna bianca, e alla sua tenue luce lui poté scorgere i pendii della collina di Nockarv tinti di un…
Tit. originale: A Gathering of Heroes
Anno: 1987
Autore: Paul Edwin Zimmer
Ciclo: Dark Border #3
Edizione: Editrice Nord (anno 1993), collana “Fantacollana” #120
Traduttore: Annarita Guarnieri
Pagine: 414
ISBN: 8842907219
ISBN-13: 9788842907213
Dalla copertina | Il confine fra le terre degli uomini e il regno dell’Ombra è fragile; e la minaccia che viene dall’oscurità non è affatto sopita, anzi un esercito di immonde creature è pronto ad attaccare Rath Tintallain e l’inestimabile tesoro in essa custodita. La fiera dinastia degli Hastur che aveva protetto le terre degli uomini non ha dubbi: la caduta di Rath Tintallain potrebbe segnare l’inizio della fine e per scongiurare questo destino chiama a sé tutti i più grandi eroi, magiche creature e comuni mortali, a difesa dell’ ultimo baluardo. E con loro vi è anche Istvan Di Vega, spadaccino e condottiero la cui fama è nota ovunque, pronto a combattere gomito a gomito con una schiera di eroi già entrati nella leggenda. Infatti solo unendo i loro sforzi potranno opporre una valida resistenza all’ultima offensiva dell’Ombra.