La Fiaccola dell’Onore
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Prologo
I finlandesi sapevano che la loro battaglia contro i Guardiani era ormai perduta. La superficie del pianeta era già in mano al nemico e la resa del grande satellite Vapaus sarebbe diventata effettiva di lì a poche ore. Erano stati i Guardiani stessi a provocare il ritardo, insistendo perché la resa venisse negoziata rigorosamente in inglese. I finlandesi, nel disperato tentativo di guadagnare quanto più tempo possibile, avevano sostenuto che ci sarebbero volute ore per trovare un ufficiale che parlasse inglese, quando in realtà avrebbero potuto combinare la cosa nel giro di qualche secondo.
Il tempo guadagnato fu sfruttato al massimo. L’ultima, l’unica speranza, per quanto tenue, stava nella Lega. Bisognava mandare un messaggio.
Sei siluri, dei pochissimi rimasti, vennero modificati opportunamente. Gli fu rimosso l’armamento e furono installati generatori di velocità-luce al quadrato e radiofari. A bordo furono sistemate le vitali informazioni sul sistema missilistico anti-nave e tutto quanto d’altro i finlandesi sapevano dei Guardiani, cioè molto poco.
Bisognava far giungere la notizia.
I Guardiani non avevano ancora chiuso ogni varco nella forza che teneva sotto assedio Vapaus. Dal complesso di moli anteriore vennero lanciati tre “maiali”, minuscole navi con solo il pilota, ognuna che recava, assicurati con mezzi di fortuna, due siluri a mezza nave. Furono lanciate a sei g, perché la velocità gli consentisse di passare attraverso la flotta dei Guardiani. Il nemico disponeva di radar troppo sofisticati per lasciarsi ingannare da manovre diversive: la velocità era l’unica chance.
Ma non lo fu per tutti. La prima delle navi venne distrutta nel giro di qualche secondo dal laser di uno dei trasporti truppe nemici. L’ultimo atto del pilota finlandese fu di far saltare i motori a fusione: il risultato fu un’esplosione di plasma che rese inutilizzabili radar e radio nel giro di un migliaio di chilometri. Questo consentì alle due navi superstiti di passare come fulmini attraverso e poi oltre la flotta nemica.
Si gettarono verso un’orbita più bassa, per mettere la massa del pianeta fra sé e i radar del nemico prima che l’effetto dell’esplosione potesse svanire.
Caddero, guadagnando velocità per sfruttare l’effetto-fionda del pozzo gravitazionale del pianeta. Quando furono giunti dalla parte opposta del pianeta rispetto a Vapaus manovrarono violentemente, una delle due virando verso un’orbita sopra il polo nord, l’altra compiendo la stessa manovra ma dirigendosi a sud.
Non appena ebbero raggiunto la nuova rotta, le due navi fermarono per un momento i motori e lanciarono un siluro. Poi, sia le navi che i siluri si gettarono in avanti, i siluri mantenendo la rotta, le navi virando di nuovo.
La nave proveniente dal polo sud fu scoperta e distrutta da un caccia Nova che si era alzato in tutta fretta dalla superficie. Quella settentrionale rilasciò l’ultimo siluro e di nuovo virò, per fornire un bersaglio e distrarre l’attenzione dai siluri.
In breve, brevissimo tempo, una seconda esplosione illuminò il cielo. Un missile dei Guardiani aveva raggiunto l’ultima nave.
Ma il nemico riuscì a scoprire, e distruggere, solo l’ultimo siluro che era stato lanciato.
Dei sei siluri originali due erano sopravvissuti, ancora ignoti ai Guardiani. I motori ancora accesi, la loro rotta si incurvò sopra il pianeta e si scambiarono di posto: uno verso il polo nord, l’altro verso il polo sud.
Giunti sopra i poli, spensero i motori, esattamente nel momento in cui raggiungevano la velocità di fuga.
Ora ciascuno dei due era in viaggio su una rotta parallela e rettilinea, che partiva da un punto sopra i poli.
A macchine ferme, si inoltrarono nello spazio, fidando che il freddo e il buio del vuoto li avrebbero nascosti.
Qualche ora dopo il lancio, quando si trovarono a qualche centinaio di migliaia di chilometri oltre l’orbita della luna Kuu, i sistemi di navigazione dei due siluri esaminarono il cielo stellato. I propulsori di manovra si accesero e corressero la rotta, finché i due piccoli scafi non si trovarono puntati con precisione verso il sistema di Epsilon Eridani, dove gli inglesi avevano stabilito la loro colonia, Britannica. Erano ancora troppo vicini al sole di Nuova Finlandia per andare a velocità-luce-quadrata. Sarebbero rimasti sulla loro rotta ancora per delle settimane, mentre alle loro spalle i Guardiani compivano le loro atrocità sui finlandesi.
In uno dei due il sistema di alimentazione cedette, e il siluro divenne solo un relitto, inutile e ignorato, perso nello spazio profondo.
Ma l’ultimo siluro si teneva ancora aggrappato alla vita. Quando giunse il momento giusto, il generatore di velocità-luce assorbì la potenza cocciutamente conservata e afferrò il tessuto dello spazio.
L’ultimo siluro balzò attraverso il vuoto che separa le stelle.
Poco dopo, con batterie quasi esauste, il radiofaro ormai quasi impercettibile, il siluro entrò zoppicando nello spazio di Epsilon Eridani.
C’era mancato poco, ma l’ultimo dei sei siluri ce l’aveva fatta.
PARTE PRIMA
Una tomba vuota, un mondo cavo
1
Gennaio 2115
Una pioggia sottile e fredda tambureggiava sul casco della mia tuta a pressione mentre il cappellano intonava, lamentoso, il servizio funebre sull’orlo di un’unica tomba vuota.
Il braccetto del tergicristallo del mio casco, gomma e metallo, faceva avanti e indietro monotono davanti ai miei occhi, spazzando via la pioggia. Probabilmente questo era l’unico, fra i mondi che l’umanità si era data la pena di colonizzare, dove una tuta a pressione avesse bisogno di un tergicristallo. Tutti ne avevamo uno, e messi così in fila, con i braccetti neri che andavano su e giù, sembravamo mosche giganti intente a pulirsi le zampine.
Oggi li seppellivamo: sessanta dei nostri compagni di corso, perduti, spariti, scomparsi nelle profondità dello spazio. Morti. Di ritorno dall’ultimo viaggio di addestramento, la loro nave era semplicemente svanita. All’inizio del corso eravamo stati esattamente cento. Cerano state altre perdite, incidenti e candidati che erano stati bocciati, certo… ma non così. In quella desolata pianura, sotto la pioggia, restavano solo trentaquattro di noi.
— Vanità delle vanità, dice il profeta — intonò il cappellano. — Non portiamo nulla in questo mondo, e nulla portiamo quando lo lasciamo. — Le parole avrebbero anche potuto essere registrate. La voce del cappellano era stantia e triste come pane raffermo. — Che cosa è mai l’uomo, che tu te ne prenda cura? — chiese, la voce che per un attimo si sollevava per poi tornare a spegnersi in un borbottio indistinto.
Sul pannello interno del mio casco si era accesa una lucetta. Spostai la mia radio su un canale privato.
— Mac, quest’uomo è una piaga. Non possiamo almeno farlo stare zitto, in modo da poterci raccogliere in pace sulla tomba dei nostri amici? — chiese Joslyn. Tre mesi prima era stato quello stesso cappellano a sposarci. Aveva impiegato due minuti a sbrigare la formalità delle nostre promesse reciproche e poi aveva intonato un sermone di tre quarti d’ora che aveva fatto addormentare metà degli invitati.
— Puoi spegnere la radio — le suggerii.
— Però questo non mi impedirebbe di vederlo aprire e chiudere la ciabatta. Adesso ci sta lanciando un’occhiataccia. Oh, Mac, si meritavano un congedo migliore di questo.
— Signore Onnipotente, affidiamo alla tua misericordia le anime immortali di questi defunti. Ti prego, accogli l’anima del tenente di vascello Daniel Ackerman, del tenente di vascello Dwight Amoto, del tenente di vascello Lucille Calder, del capitano di corvetta Joseph Danvers…
Che tocco raffinato, pensai. Li ha memorizzati in ordine alfabetico.
La fossa vuota era di misura regolamentare: larga un metro, lunga e profonda due.
Alzai gli occhi per contemplare, oltre il cielo nuvoloso e basso, un globo bianco e azzurro che si intravedeva a fatica. Era su quel pianeta, Kennedy, che aveva avuto origine questa tradizione della fossa vuota. Durante la Peste Veloce raramente ci si poteva permettere di seppellire il corpo di una vittima: i cadaveri erano terribilmente infettivi. L’unico modo sicuro di sterilizzarli era distruggerli nella fiamma dello scarico del motore a fusione di un’astronave. Così erano finiti i corpi dei miei genitori… ricordavo ancora le sagome indistinte nella fiamma purificatrice. Lassù, su Kennedy, c’era una fossa vuota come questa, un metro per un metro per due metri, coperta da una lastra di granito, su cui erano incisi tutti i loro nomi.
Finalmente, la lapide con i sessanta nomi fu calata con cura sopra il guscio di cemento grigio nel quale si apriva la fossa. Sul fondo erano rimasti intrappolati un paio di centimetri di acqua sporca.
Marciammo tutti di nuovo verso le nostre stanze pressurizzate e la sala istruzioni.
Era previsto un raduno… una veglia, anche se nessuno la chiamava con questo nome.
Joslyn e io riuscimmo a rimanere indietro, indugiando per qualche momento sulla superficie di Columbia, la luna di Kennedy.
Quando l’umanità aveva raggiunto questo sistema, Columbia aveva un’inconsistente atmosfera di metano e due calotte polari che imprigionavano una discreta quantità d’acqua. Ora una dozzina di progetti diversi stavano cercando di renderla un posto più gradevole. Quando i tecnici avessero finito, questo sarebbe diventato un mondo vivo: la pressione atmosferica era già un terzo di quella della Terra. Ma per ora era ancora un luogo squallido e triste, freddo e misero, dall’atmosfera velenosa. E pioveva sempre.
Una volta arrivati nelle nostre stanze, ci volle un po’ per liberarci dalle tute e indossare le uniformi da parata, complete di lugubre fascia nera al braccio.
A me toccava l’uniforme nera, con il colletto alto e il taglio piuttosto severo della Marina della Repubblica di Kennedy. Joslyn, che era nata nel Commonwealth planetario di Britannica ed era quindi una leale suddita del Re-Imperatore della Gran Bretagna, indossava un’uniforme di un gradevole blu, con il colletto più basso, molti meno bottoni e un taglio decisamente migliore. Entrambi portavamo le insegne del Servizio Astrografico della Lega dei Pianeti, un campo stellato sovrapposto a una griglia. Entrambi eravamo tenenti di vascello, assegnati al corso d’addestramento speciale del Centro Addestramento Reclute del Servizio Astrografico su Columbia.
Joslyn controllò che tutto fosse a posto nello specchio. Secondo lei, io ero alto sei piedi e quattro pollici e lei cinque piedi e sette pollici. Secondo “me” io ero alto 193 centimetri e lei 170. Era snella, ma forte, con un volto ovale, labbra piene e parecchie graziose fossette che emergevano quando sorrideva. I suoi capelli erano di una tinta a metà fra il castano e il biondo, e li portava in una treccia che le raggiungeva il fondo della schiena. In quel momento, però, la treccia era raccolta sulla nuca, come da regolamento.
Soddisfatta del proprio aspetto, si voltò verso di me. Mi tirò la giacca fino a eliminare ogni piccola grinza e spazzò un po’ di polvere dalle maniche. — Non male — sentenziò — ma se decidono di imbottire le spalline dell’uniforme, finirai per non riuscire a passare dalle porte. — All’improvviso, mi gettò le braccia al collo, mi tirò in basso e mi diede un bacio molto poco marziale. — Mac — sospirò, guardandomi negli occhi. — Ti amo da morire.
— Sei sicura che sia tutto a posto? — chiesi, in ansia.
— Oh, sei passabile, sì. Sempre che a uno piacciano gli dei greci, naturalmente.
Mi guardai nello specchio e scrollai le spalle. Mi sono sempre sentito come un personaggio fuggito da un fumetto. Uno di quelli sui supereroi. Spalle larghe, un tantino troppo muscolose, vita stretta, faccia lunga con una mascella affilata e…