INTRODUZIONE
«Fuori dell’ipotesi del peccato originale,
cioè fuori di una intima contraddizione
della nostra natura, la nozione dell’uomo
diventa chiara ma non è più quella
dell’uomo. L’uomo è passato attraverso la
definizione dell’uomo come un pugnetto
di sabbia passa attraverso le dita».
Georges Bernanos (Lo spirito europeo e il mondo delle macchine)
Con questo quinto volume si conclude lo straordinario ciclo fantastico dei “Belgariad”, un autentico evento letterario in tutti i paesi in cui è stato pubblicato – Italia compresa, lasciatecelo dire.
Essendo questa la quinta introduzione che dedico alla saga di Eddings, mi accorgo che gran parte delle pur molte cose che valeva la pena di dire a suo proposito han già trovato posto in testa ai romanzi precedenti. Voglio quindi approfittare di quest’ultimo spazio a disposizione per buttar là qualche considerazione d’ordine generale che pure mi sembra meritevole di riflessione.
Questo ciclo regalatoci dalla immaginazione di David Eddings occupa un posto di grande rilievo nella letteratura dell’immaginario dell’ultimo decennio: per l’accuratezza della sua componente mitografica, per l’alto livello letterario, per l’indiscusso spessore mitico, per il respiro epico, cosciente e talora financo ricercato, che aleggia in ogni sua pagina.
Il ciclo appartiene a pieno titolo all’ambito di quella che potremmo, forse con un eccesso di zelo classificatorio, definire come “fantasy cavalleresca”. Non per nulla il tradizionalissimo tema della “quest” ne costituisce, una volta di più, l’asse portante. Ma, ecco dove volevo andare a parare, possiamo noi indicare con sufficiente precisione e cognizione di causa, la radice tradizionale di questo genere di racconto immaginario? A livello superficiale, di pura omologazione, senz’altro sì: dalle chanson de geste ai romanzi della materia di Bretagna, attraverso molte altre composizioni e leggende corre un filo a tutti noi ben noto. Ma ci è chiaramente noto – ripeto la domanda per maggior chiarezza -il ceppo tradizionale, mitico/religioso, metafisico, di quello stesso materiale medioevale che abbiamo testè ricordato? Chi si interessa di cose medioevali con un minimo di scrupolo, sa bene che la risposta è no. Il mito del Graal è cristiano/eucaristico, maturato in contesto cistercense? Oppure affonda nel brumoso mondo della mitologia celtica, come gran parte degli studiosi pensa? O forse, come altri, non meno accreditati ricercatori hanno suggerito, è in ambito mazdaico che ne va cercata la scintilla originaria, l’ispirazione primeva? E qual è l’autentica essenza sacrale dell’iniziazione cavalleresca? I catari erano alchimisti, esoteristi, eretici?
Insomma, direte a questo punto voi, che vuol concludere costui? Semplicemente suggerire che, al di là della forma, dell’iconografia, della “scenografia” per usare un termine preso a prestito dal mondo dello spettacolo, in realtà la fantasy “cavalleresca” risponde sì a un intuito archetipico, propone sì codici simbologici complessi e corretti, suggerisce sì letture ierofaniche del reale, ma ciò al di fuori di qualsiasi dialettica con un apparato (o più apparati!) tradizionali definiti.
Insomma, essa resta a tutti gli effetti parte integrante dì un immaginario potentissimo ma esemplare, indispensabile proclamatore di valori ma, quanto meno, indifferente al “senso della storia”. Ciò propone la moderna “fantasy cavalleresca”, soprattutto nella sublimazione fattane da Eddings, da un lato come un fatto letterario originalissimo e sensazionale, tipico del nostro tempo e forse irripetibile. Una scardinatura della ragione d’essere stessa della forma “romanzo”, in risposta ad un anelito metafisico che è connaturato alla natura umana. D’altro lato, però, questo impeto eversivo si nebulizza nel suo impatto culturale diretto, a causa dello iato che pur sempre rimane con la dimensione per l’appunto “culturale” o quantomeno “colta” della gente. La “fantasy cavalleresca” – lo abbiamo già detto altre volte – addita linee di vetta, ma per farlo è obbligata a rompere i ponti con il contingente, con la Storia, con l’accumulato di una “cultura” che, nel bene o nel male, è quella che connota il reale. Ciò rende questa fantasy eterogenea rispetto all’epica tradizionale, ai poemi mitologici, alle saghe più antiche, che parlavano al cuore della gente perché calavano i propri simboli di una “storia sublimata” che non imponeva fratture con il presente, con la cultura, con la storia personale e collettiva dei popoli. Insomma, il Mediterraneo dell’Iliade e dell’Odissea non costituiva per i Greci un “secondo mondo” esemplare ma remoto: esso era piuttosto la sede d’un indispensabile dialettica fra il “dover essere” del mito e “l’essere” della reificazione storica di ogni individuo.
Tolkien tentò di sanare questa distanza dell’immaginario moderno dal presente, creando intorno al suo Mondo Fantastico una immensa trattatistica, che meticolosamente lo riallacciava, filo dopo filo, al corpo vivente di una tradizione reale, concretatasi nella storia quotidiana e religiosa d’Europa. Fu un lavoro titanico che appare – comunque – quantomeno irripetibile.
Ciò significa che dobbiamo rinunciare ad una fantasy capace di porre in rapporto dialettico archetipi e tradizione reificata, simbologia e cultura religiosa o filosofica? (Il tutto, naturalmente, senza per questo perdere alcunché della propria potenza narrativa ed evocativa!).
Fino a poco tempo fa sarei stato tentato di rispondere sì: questo prima del mio incontro coi romanzi di Harry Turtledove e con la loro incredibile capacità di fondere immaginario e tradizione.
Harry Turtledove, chi era costui? Lo scoprirete presto, molto presto… e sarà, inevitabilmente, amore a prima vista.
Alex Voglino
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PROLOGO
Essendo una narrazione di come iniziò…. e di come finì.
Estratti dal Libro di Torak
Prestatemi orecchio, voi Angarak, perché io sono Torak, Signore di tutti i Signori e Re dei Re. Inchinatevi davanti al mio Nome e adoratemi con preghiere e con sacrifici, poiché io sono il vostro Dio e il mio dominio si stende su tutti i regni degli Angarak, e grande sarà la mia ira se mi contrarierete.
Io ero prima che il mondo fosse creato. Io sarò, dopo che le montagne si ridurranno in sabbia e i mari diverranno polle stagnanti e il mondo si rattrappirà fino a cessare di esistere. Perché io ero prima del tempo e sarò dopo di esso.
Dalle distese senza tempo dell’Infinito, io ho rimirato il futuro. E vi ho scorto due Destini, che si dovranno precipitare uno contro l’altro negli interminabili corridoi dell’Eternità. Ciascun Destino era Assoluto, e in quell’incontro finale tutto ciò che era diviso sarebbe divenuto uno. In un istante, tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che ancora deve accadere si sarebbero riuniti in un unico Scopo.
E a causa della mia visione, indussi i miei sei fratelli a unire le loro mani e a creare tutto ciò che esiste. Così, avviammo la luna e il sole sulla loro rotta celeste, e demmo la vita a questo mondo; lo coprimmo di foreste e di prati, e creammo animali, volatili e pesci per riempire le terre, i cieli e le acque da noi creati.
Ma nostro Padre non trasse nessuna gioia da questa creazione che io avevo fatto realizzare; distolse il volto dalle nostre fatiche per contemplare l’Assoluto. Mi recai da solo sulle alte vette di Korim, che ora non sono più, e gli gridai di accettare il mio operato. Ma lui respinse l’opera nata per mio suggerimento e mi volse le spalle. E allora io indurii il mio cuore contro di lui, e scesi da quel luogo elevato, per sempre privo di padre.
Ancora una volta, mi consigliai con i miei fratelli, e unimmo le mani e creammo l’uomo, perché fosse lo strumento della nostra volontà. Creammo l’uomo diviso in parecchi popoli, ed a ciascun popolo offrimmo la possibilità di scegliere fra noi il suo dio. E i popoli scelsero, ma nessuno chiese Aldur come suo dio, Aldur che era sempre irritato e scontento perché non gli concedevamo il dominio su di noi. Allora Aldur si staccò da noi, e cercò di rubarci i nostri servitori con i suoi incantesimi, ma furono pochi coloro che lo accettarono.
I popoli che appartenevano a me si facevano chiamare Angarak, ed io ero compiaciuto di loro, e li guidai verso gli alti luoghi di Korim, che non esistono più, e rivelai loro la natura dello Scopo per cui li avevo creati.
Essi mi adorarono con preghiere e bruciarono offerte sugli altari; io li benedissi ed essi prosperarono e divennero numerosi. Nella loro gratitudine, mi eressero un altare e mi sacrificarono le loro fanciulle più belle e una parte dei loro giovani più coraggiosi. E ancora io mi compiacqui di loro e li benedissi, ed essi prosperarono più di tutti gli altri uomini della terra e si moltiplicarono numerosissimi.
Ora, il cuore di Aldur era pieno di invidia per l’adorazione di cui io ero oggetto, e lui era tormentato dall’avversione che provava nei miei confronti. Si mise allora a cospirare contro di me nei segreti recessi della sua anima, prese una pietra e vi alitò dentro la vita, in modo che intervenisse a deviare lo Scopo dal suo cammino. E con quella pietra cercò di ottenere il predominio su di me. E fu così che creò Chtrag Yaska, e nel cuore di Chtrag Yaska era sigillato un odio eterno nei miei confronti. E Aldur si tenne in disparte con quelli che chiamava i suoi discepoli e cominciò a studiare in che modo quella pietra potesse dargli il dominio che desiderava.
Io vidi che quella pietra maledetta aveva separato Aldur da me e dagli altri suoi fratelli, e mi recai da Aldur e protestai con lui, pregandolo di togliere il malvagio incantesimo dalla pietra e di riprendere dentro di sé la vita che vi aveva alitato. Feci questo affinché Aldur non fosse più diviso dai suoi fratelli. Sì, giunsi perfino a piangere e ad umiliarmi di fronte a lui.
Ma già la pietra malvagia aveva preso possesso del cuore di Aldur, che s’indurì contro di me. E io vidi che la pietra creata da Aldur avrebbe tenuto per sempre mio fratello sotto il suo incantesimo, che lo indusse a parlarmi con disprezzo e a scacciarmi dalla sua presenza.
Allora, per l’amore che gli portavo e per salvarlo dalla malvagia sequenza di eventi che la mia Visione rivelava, colpii mio fratello Aldur e gli tolsi quella maledetta pietra. E portai via Chtrag Yaska, per usare la mia volontà su di essa e per placare la malizia racchiusa nel suo interno, e per porre fine alla malvagità per cui era stata creata. E fu così che mi assunsi il fardello della cosa che Aldur aveva creato.
Aldur si adirò contro di me, e andò dai nostri fratelli, pronunciando menzogne sul mio conto. E ciascuno di loro venne da me, e mi parlò con disprezzo, ordinandomi di restituire ad Aldur quell’oggetto che gli aveva contorto l’anima e io che gli avevo tolto per liberarlo dall’incantesimo in cui era caduto. Ma io resistetti.
Allora si prepararono alla guerra. Il cielo fu oscurato dal fumo delle fucine, mentre i popoli da essi dominati forgiavano le armi destinate a versare il sangue dei miei Angarak. Con il giungere dell’estate, gli eserciti si misero in marcia e si addentrarono nelle terre degli Angarak. E i miei fratelli incombevano, alti, davanti alle loro schiere.
Ora, io provavo una grande riluttanza a levare la mano contro di loro. E tuttavia, non potevo permettere che violassero le terre del mio popolo o versassero il sangue di quanti mi avevano adorato. Sapevo inoltre che da una simile guerra fra i miei fratelli e me potevano derivare soltanto conseguenze malvagie. In quella lotta, i Destini che io avevo visto avrebbero potuto essere messi a confronto prima del tempo, e l’universo sarebbe stato frantumato dall’impatto.
E così, scelsi ciò che temevo, ma che era meno malvagio del pericolo da me previsto. Presi la maledetta Cthrag Yaska e la levai contro la terra stessa. In me giaceva lo Scopo di un Destino, mentre lo Scopo dell’altro era racchiuso nella pietra che Aldur aveva creato. Il peso di tutto ciò che è stato o che sarà gravava su di noi, e la terra non poté sopportare quella pressione. E allora il suo manto si lacerò davanti a me e il mare si precipitò ad invadere le terre asciutte, e così i popoli vennero separati gli uni dagli altri, in modo che non si combattessero e che non ci fossero spargimenti di sangue.
Ma la malizia che Aldur aveva intessuto nella pietra era tale che essa mi percosse con il fuoco mentre la tenevo alzata per dividere il mondo ed impedire che si versasse del sangue. Mentre le impartivo i miei ordini, essa s’infiammò di un fuoco terribile e mi colpì. La mano con cui la tenevo ne fu consumata, e l’occhio con cui la contemplavo ne fu accecato. Una metà del mio viso fu devastata dal suo fuoco ed io, che ero stato il più bello fra i miei fratelli, divenni orribile a vedersi, e dovetti coprirmi il volto con una viva maschera d’acciaio, per evitare che tutti mi schivassero.
Ero pieno di agonia per il male che mi era stato fatto, e dentro di me viveva una sofferenza che non avrebbe mai potuto trovare requie finché quell’immonda pietra non fosse stata privata della sua malvagità e non si fosse pentita della sua malizia.
Ma il mare oscuro si stendeva fra il mio popolo e quanti lo avrebbero voluto aggredire, e i miei nemici erano fuggiti in preda al terrore dinanzi a ciò che avevo fatto. Sì, perfino i miei fratelli erano fuggiti dal mondo che noi avevamo creato, perché non osavano più misurarsi con me, anche se continuarono a cospirare con i loro seguaci sotto forma di spiriti.
Allora condussi lontano gli Angarak, nelle desolate lande di Mallorea, e feci costruire una possente città in un luogo riparato. Essi la chiamarono Cthol Mishrak, in ricordo delle sofferenze che io avevo patito per loro. E io nascosi la città in una nube che sarebbe sempre rimasta intorno ad essa.
Feci quindi forgiare un cofanetto di ferro, e in esso racchiusi Cthrag Yaska, in modo che quella malvagia pietra non potesse essere libera mai più di scatenare il suo terribile potere di ustionare la carne. Per mille anni e poi per mille ancora mi impegnai in una faticosa lotta con quella pietra, cercando di liberarla dalla malizia che Aldur vi aveva infuso. Grandi erano gli incantesimi e le parole di potere che scagliai contro quella cocciuta pietra, ma quando mi accostavo ad essa, il fuoco malvagio continuava a bruciare, ed io sentivo la sua maledizione che avvolgeva il mondo.
Poi Belar, il più giovane e impetuoso dei miei fratelli, cospirò contro di me con Aldur, la cui anima nutriva ancora sentimenti di odio e di gelosia nei miei confronti. E Belar parlò in spirito al suo grossolano popolo, gli Alorns, e li mise contro di me. Lo spirito di Aldur inviò Belgarath, il discepolo in cui lui aveva maggiormente instillato il disprezzo che nutriva per me, perché si unisse a loro. E gli immondi consigli di Belgarath prevalsero su Cherek, il capo degli Alorns, e sui suoi tre figli.
Mediante malvagia stregoneria, essi oltrepassarono la barriera del mare che io avevo creato, e giunsero di notte, come ladri, nella città di Cthol Mishrak. Furtivi e astuti, strisciarono nella mia torre di ferro e raggiunsero il cofanetto che conteneva la malvagia pietra.
Il figlio più giovane di Cherek, che gli uomini chiamavano Riva Morsa-di-Ferro, era stato sottoposto ad un tal…
Tit. originale: Enchanters’ End Game
Anno: 1984
Autore: David Eddings
Ciclo: Belgariad (The Belgariad series) #5
Edizione: Editrice Nord (anno 1988), collana “Fantacollana” #82
Traduttore: Annarita Guarnieri
Pagine: 356
Dalla copertina | La grande cerca sembrava conclusa. L’orb era tornata nella reggia dei re di Riva e Garion sedeva sul trono che era legittimamente suo, a fianco della sua deliziosa regina, Ce-‘Nedra. Ma ad oriente il maligno dio Torak, tuttaltro che sconfitto, stava anzi per risvegliarsi a preparare la sua rivincita. Garion non poteva sfuggire alla Profezia: un ultimo, estremo confronto lo attendeva, in cui uccidere o essere ucciso. La guerra fiammeggiava nuovamente lungo i confini dei regni occidentali e un viaggio pericolosissimo attendeva Garion. In una cornice di epica grandezza si conclude la straordinaria saga dei Belgariad, il ciclo di fantasy più venduto e più acclamato dell’ultimo decennio.