Premessa dell’autore
Sarebbe difficile, e anche sciocco, scrivere una storia dell’arte del Ventesimo secolo senza nominare Picasso. Allo stesso modo ho trovato personalmente impossibile disegnare questo scenario contemporaneo senza menzionare alcuni di quelli che io considero i pilastri della nostra società, da Jack Solomons al Maresciallo Capo dell’Aeronautica Dowding. Mi sono spinto persino ad attribuire ad alcune di queste figure pubbliche opinioni ben precise sulle questioni puramente ipotetiche contenute nel mio romanzo. In particolare, una delle vittime è stato Aldous Huxley, che molto gentilmente mi ha consentito di prendere tale libertà. Supplico umilmente gli altri interessati di dimostrarmi la stessa indulgenza, ricordando loro che è questo il prezzo della notorietà. Del resto, non recita un antico proverbio latino, semel insanivimus omnes?
Naturalmente mi rendo conto che le loro opinioni reali ben difficilmente concorderebbero con quelle che ho loro attribuito. Ma anche solo il nome, pur costituendo una presenza involontaria, mi ha offerto grande sostegno morale in acque tempestose.
La medesima ricerca di agganci con la vita reale ha fatto sì che nelle mie pagine comparissero un certo numero di prodotti di marca. Di conseguenza vorrei ringraziare la ditta produttrice dei tappeti Kosset, la Odoro-no, la marmellata di Cooper e parecchie case automobilistiche per il senso di sicurezza che i loro prodotti mi hanno ispirato.
Altrettanto dicasi per le istituzioni. Le Harlequin, il Governo Britannico e la Lega Libraria Internazionale sono entità reali e personalmente me ne compiaccio. Ma i rappresentanti del Governo Britannico che appaiono in queste pagine “non sono” reali. Per esempio, il “mio” ministro della Sanità non ha alcuna correlazione con nessun corrispondente ministro passato, presente o futuro. E anche di questo mi compiaccio.
Una volta accettate tali riserve, tutti i personaggi del libro sono frutto di immaginazione e di sicuro non intendono rappresentare nessun altro, vivo o morto che sia. Le correlazioni sono pura finzione, le azioni e le opinioni attribuite a questo o quel personaggio sono immaginarie, e persino il tempo è troppo clemente per essere quello vero. Tuttavia, i lettori dovranno tenere bene in mente i versi di George Santayana:
Pur sognando un sogno siffatto, so bene che il mio passo trascorre come incantesimo di mezzanotte. Ma non so se il mio sognare si incunea nelle profondità del cielo e dell’inferno. So solo quel che sempre ho saputo: La verità è un sogno, a meno che il mio sogno si avveri.
B.W.A
Anteprima testo
PARTE PRIMA
Una presunta utopia
Bruciamo (titolo del poema della dottoressa Marie Stopes)
1. Una volpe con la coda
Era una di quelle calde serate di luglio londinesi in cui la mente umana riesce solo a pensare al palmo umido, alla fronte madida e all’ascella sudaticcia.
Sudando in modo contenuto, James Solent emerse nella calura immota di Charlton Square. Con il giornale ripiegato all’altezza della fronte, come per ripararsi, scese i tre gradini della roulotte, mise piede sull’erba ed esitò. La porta del numero 17, dove abitava, si apriva proprio lì di fronte, amichevole e invitante, ma in lui il desiderio di andare a nascondersi era superato da quello di tendere l’orecchio per sentire ciò che si dicevano tre uomini poco lontano.
— Solo un elettorato indifferente alla politica poteva accettare un’imposizione così brutale — asserì uno.
Il secondo, incapace di trovare le parole per esprimere quel che pensava in proposito, rise sgangheratamente.
— Sciocchezze! — esclamò il terzo. — Avete sentito che cosa ha detto l’altro giorno il ministro della Sanità: è esattamente quel che ci voleva per restituire alla Gran Bretagna il suo vecchio ruolo guida.
Toccò al primo scoppiare in una risata sarcastica. Poi scorsero Jimmy fermo lì vicino e tutti e tre si volsero incuriositi a fissargli la fronte.
— Che sensazione dà, capo? — chiese uno di loro.
— Nessuna in particolare — rispose Jimmy e attraversò spedito la piazza con il giornale ancora sollevato. Scivolò all’interno del numero 17. Dall’ingresso sentì la padrona di casa, signora Pidney, che si dava sonnacchiosamente da fare in cucina come una trottola nell’acqua. Il resto era silenzio. Rassicurato, Jimmy mise da parte il giornale esponendo così il disco che aveva sulla fronte, e raggiunse l’appartamento che divideva con suo fratello. Per fortuna, Aubrey Solent era fuori, impegnato fino a tardi a lavorare alla LIB, il che risparmiò senza dubbio a Jimmy una scenata imbarazzante. Nelle ultime settimane Aubrey sembrava particolarmente suscettibile.
L’appartamento era dotato di normali comfort: una cucina, un soggiorno con angolo pranzo, una camera da letto grande per Aubrey e una più piccola per Jimmy. Tutto era così lindo che l’ellepì dalla copertina lucida dimenticato nel bel mezzo del tappeto sembrava quasi messo lì ad arte. Jimmy lo scansò, raggiunse in fretta la propria camera e chiuse la porta.
Tamburellò per un attimo con la punta delle dita sullo stipite, poi raggiunse lo specchio e si osservò con cura. Il vestito preso da Harrods a gennaio, prima di iniziare il nuovo lavoro, gli stava ogni giorno meglio, come se si adattasse progressivamente alla sua persona. Quanto al resto, aveva venticinque anni, i capelli castani non troppo ricci, la faccia rotonda ma non repellente e il mento néaggressivo né sfuggente.
Nel complesso, si disse con un sospiro, era spaventosamente normale. — Oh, creatura mediocre in tutto — recitò, rivolto a se stesso e improvvisando, come faceva spesso, un’orazione in rima. — Creatura di media altezza, superata in statura dai più alti e in bassezza dai più piccoli… un destino mediocre si può ben definire uno scherzo.
Solo in un particolare non era, in nessun caso e fino a quel momento, “normale”: il minuscolo disco argentato, tre centimetri e mezzo di diametro, fissato in modo permanente nel bel mezzo della fronte. Lo avevano realizzato in una lega che assomigliava all’acciaio inossidabile, con la superficie leggermente convessa, sicché riproduceva un’immagine vaga e distorta del mondo antistante.
L’oggetto non era per nulla sgradevole. Sembrava, piuttosto, qualcosa di nobile, come la stella sulla fronte di un cavallo purosangue. Conferiva un tocco di distinzione a una faccia altrimenti anonima.
Jimmy Solent sostò per qualche minuto davanti allo specchio dell’armadio, studiando se stesso e, attraverso se stesso, il futuro. Era un momento di grande incertezza e speranza: aveva accettato il rischio in un momento in cui il dubbio più tormentoso era proprio rischiare o non rischiare. Lui era uno dei primi e ora portava su di sé il marchio della propria impulsività. L’ansia che l’opprimeva venne gradualmente smorzata dal latrato dell’altoparlante fuori nella piazza. Dopo essersi tolto la giacca, Jimmy andò alla finestra. La vista da quel punto era di solito meno interessante, per quanto più rispettabile, di quella di cui si godeva dalla camera da letto di suo fratello Aubrey. Queste finestre si affacciavano sul retro di altre case, dove la gente era meno abbottonata e molto più se stessa, mentre quelle di Jimmy, sulla facciata, fissavano in modo perpetuo altre facciate dove anche la gente indossava una piccola facciata pubblica e chiusa.
Ora, però, la piazza era animata. Una roulotte grigia, grossa e rassicurante come le Unità Radiologiche Capillari, si era stabilita in settimana sullo spiazzo erboso sotto i platani. Davanti alla roulotte, una fila di uomini e donne, la maggior parte in maniche corte e abiti estivi, sostava pazientemente in attesa del proprio turno per entrare. Dopo una breve permanenza all’interno, quelle stesse persone emergevano singolarmente all’estremità opposta, a intervalli di cinque minuti l’una dall’altra; di solito tenevano un giornale, un fazzoletto o un cappello davanti alla fronte e si eclissavano senza guardare né a destra né a sinistra. Qualche curioso sostava oziosamente a guardare la fila. All’inizio della settimana erano venute anche le telecamere. Dalla finestra della camera da letto, “in salvo!”, a Jimmy sembrava tutto piuttosto comico, al tempo stesso irreale e tipicamente inglese. Non riusciva quasi a rendersi conto che anche lui, solo venti minuti prima, si era trovato nel bel mezzo di quella stessa procedura; la fronte non gli faceva assolutamente male, proprio come avevano assicurato gli esponenti del governo. Provò a schiacciare, con cautela, ma il disco non si mosse né gli causò alcun dolore. Le meraviglie della scienza moderna erano davvero straordinarie.
L’addetto all’altoparlante, tormentato dal caldo e dalla noia, non usava il microfono correttamente. Solo poche frasi risultavano intelligibili. “…Siamo liberi di stare qui come un tempo…” suonò…
Tit. originale: The Primal Urge
Anno: 1961
Autore: Brian W. Aldiss
Edizione: Mondadori (anno 1997) collana “Classici Urania” #244
Traduzione: Maura Arduini
Dalla copertina:
James Solent, riservato e pacifico cittadino, è tra i primi a sperimentare la nuova scandalosa invenzione: un segnalatore del desiderio applicato alla fronte. Ma i dispositivi ER, registratori emotivi, si rivelano un’arma a doppio taglio e una continua fonte di micidiali, imbarazzanti avventure. Il romanzo che fa sembrare la società permissiva un collegio per educande!