La malinconia di Haruhi Suzumiya
Nel corso di una visita in Estremo Oriente, l’amico con il quale viaggiavo mi raccontò di un suo collega di lavoro che aveva sposato una ragazza giapponese. Il matrimonio, a quanto pareva, andava a gonfie vele; ma l’aspetto forse più curioso era la qualità che più di ogni altra lei apprezzava in lui: il fatto di non venire picchiata.
Questo piccolo aneddoto la dice lunga su quella che, ancora oggi, è la condizione della donna in Giappone, Paese moderno e all’avanguardia sotto ogni altro punto di vista; anche nel 2010 il Global Gender Gap Report conferma tristemente quanto la società nipponica sia indietro sul piano dell’uguaglianza uomo-donna: 94esima su 134 stati, preceduta da tutti i Paesi occidentali (compresa la maschilista Italia, a sua volta messa non troppo bene) e seguito, sostanzialmente, solo da quelli di religione islamica e da pochi altri appartenenti al cosiddetto ‘terzo mondo’ (con la sola, notevole eccezione della Corea).
Senza questa premessa, sarebbe abbastanza difficile comprendere la ragione dell’incredibile successo ottenuto in Giappone dall’anime La malinconia di Haruhi Suzumiya, titolo enigmatico che poco lascia trapelare sul contenuto. Chi può essere infatti, agli occhi di noi occidentali, Haruhi Suzumiya, la protagonista di questa serie, sedicenne studentessa delle scuole superiori? Una ragazza molto vivace e piena di iniziative, prepotente spesso al limite della prevaricazione, carina, intelligente, disinibita, concreta, poco o per nulla formale, insofferente a ogni autorità e ogni costrizione; ‘un bel caratterino’, insomma. Ma è un personaggio unico e straordinario? Questo no. Non ci siamo stupiti più di tanto di fronte alla Kara Thrace di Battlestar Galactica, non sarà Haruhi Suzumiya a cambiare il nostro modo di vedere il mondo.
Ma in Giappone, quel Giappone tristemente 94esimo nel Gender Gap Report, Haruhi è invece un personaggio pienamente rivoluzionario, un personaggio tramite il quale è possibile dire con coraggio ciò che troppe donne, ancora, pensano: “innamorarsi è un momento di debolezza che alla lunga diventa un fardello insopportabile”. Si obbietterà: non è questo il primo anime con un protagonista femminile così forte e innovativo; che dire, per esempio, del recente e bellissimo Dennou Coil, dove sono le donne – giovani, mature, persino anziane – a spadroneggiare, relegando in secondo piano i pochi, deboli, personaggi maschili? Ma non è certo un caso che questi anime siano accomunati da un’ambientazione fantastica o fantascientifica, mentre Haruhi Suzumiya, pur rientrando nel genere fantastco, ci mostra un Giappone reale, una scuola come tante altre e dei ragazzi che non pilotano astronavi o robot alla salvezza del mondo ma pensano allo sport, ai voti, alle amicizie. Non è un caso neppure che, in questo contesto così reale Haruhi, nel modo di porsi con i compagni troppo lontana dalla classica – almeno in Giappone – figura di ragazza silenziosa e quasi succube, sia praticamente un’emarginata, una ‘freak’. E questo a dispetto della sua bellezza, della sua intelligenza e della sua abilità in tutto: rendimento scolastico, attività sportive, musica. Quanto del suo isolamento è dovuto a una sua stessa scelta, e quanto alla diffidenza altrui?
Ma è meglio andare con ordine: l’anime in questione non è tratto, come avviene quasi sempre, da un manga di successo, ma da una serie di romanzi o ‘light novel’ (storie illustrate pensate per un pubblico di adolescenti) scritti tra il 2003 e il 2007 da Nagaru Tanigawa. Fedelissimo a questi testi, il cartone animato trasforma in immagini le vicende di Haruhi e di alcuni suoi compagni di scuola, da lei coinvolti nella costituzione di un club scolastico il cui scopo sarebbe occuparsi di vicende strane e misteriose, possibilmente con impicazione di alieni, viaggiatori nel tempo e così via; quello che Haruhi non sa (ma sanno i suoi amici, come pure gli spettatori) è di possedere poteri immensi e sconosciuti, che in teoria le consentirebbero di fare qualsiasi cosa, compreso distruggere e ricostruire l’intero universo.
È per questo motivo che tre dei membri del suo club sono in realtà ‘inviati’ di entità a loro volta misteriose ma molto preoccupate di mantenere la situazione sotto controllo: Yuki Nagato, una ragazza taciturna, avida lettrice, in realtà un androide in grado di manipolare la realtà (ma non ai livelli di Haruhi), “emanazione” di una “entità senziente di dati integrati” (una A.I. molto asimoviana); Mikuru Asahina, una ragazza timida e impacciata, alias una viaggiatrice nel tempo proveniente da un futuro non si sa quanto lontano, e agli ordini di superiori enigmatici e inafferrabili (tra cui una versione adulta di sé stessa); e infine Itzuki Koizumi, un giovane gentile e sempre sorridente, ma dotato di poteri extrasensoriali, che fa parte di un’organizzazione di suoi simili assai potente e con agganci un po’ dappertutto. Il loro compito è quello di ‘osservare’, interferendo il meno possibile, ma cercando di rimediare – o meglio, prevenire – ai problemi causati dai poteri di Haruhi. Problemi che potrebbero rivelarsi catastrofici, come il tentativo di ricreare l’universo o di bloccarlo in un loop temporale senza fine, o più banali, come la realizzazione di un film amatoriale di fantascienza i cui effetti speciali diventano reali, o una messa in scena per simulare un omicidio da risolvere e accontentare le ambizioni da “ultra-detective” della problematica ragazza.
L’ultimo componente del club è Kyon (un soprannome; il suo vero nome è sconosciuto), un ragazzo che non dispone di alcun potere ma di cui Haruhi è innamorata: questo è il motivo del suo inserimento nel club, e dell’importanza di cui gode agli occhi degli altri, che lo considerano – giustamente – l’unico in grado di influenzare le scelte della ragazza ed evitare quindi che combini qualcosa di veramente grave e incontrollabile.
Kyon, che narra le vicende del gruppo in prima persona, è un personaggio di straordinaria complessità: se Haruhi, da un lato, rappresenta il Giappone più moderno che, pur senza rinunciare alle proprie tradizioni, cerca di liberarsi degli ultimi retaggi medievali – tra cui appunto la condizione femminile – Kyon è invece l’esponente di un mondo ancora legato ai formalismi, al rispetto delle convenzioni, incline a conservare più che a progredire… o almeno questa è la sua facciata. Dentro di sé, Kyon vorrebbe essere come Haruhi ma, come lui stesso ci spiega all’inizio della serie, da tempo ha smesso di credere a Babbo Natale: un segnale che sta diventando adulto, pronto quindi a uniformarsi, a vivere la vita di tutti, prima lo studio, poi il lavoro e poco altro.
Pur non avendo il coraggio di comportarsi come Haruhi, Kyon ne è nondimeno attratto al di là di quanto lui stesso non voglia ammettere (né con gli altri né con sé stesso). Lo spettatore più attento, infatti, non si farà ingannare – così come Yuki e Itsuki – dall’interesse troppo ostentato che Kyon nutre per Mikuru, la quale, al contrario di Haruhi, è una ragazza di stampo ‘classico’, timida, gentile e succube dell’universo maschile: quando si tratterà di scegliere sul serio, quest’ultima non verrà neanche presa in considerazione.
Kyon è dunque il vero protagonista della serie, e la sua ambivalenza, o persino trivalenza – a parole dice una cosa, un’altra ne pensa, e una terza la tiene ben nascosta nel suo subconscio – è probabilmente il tema portante degli episodi, del resto più centrati sui momenti di crescita dei suoi personaggi che sul contenuto più o meno fantastico delle loro avventure. Un tema, questo della crescita, molto caro all’animazione giapponese, ma che in questo cartone richiama fatalmente la ben più famosa saga di Harry Potter: anche i personaggi di J.K. Rowling, le cui avventure prendono analogamente spunto dai poteri di cui dispongono, maturano infatti gradualmente durante il periodo trascorso a frequentare le scuole superiori (sette anni nel mondo anglosassone, tre in Giappone); e, pur considerando che Tanigawa non è la Rowling, il successo ottenuto sino a oggi dai suoi romanzi è paragonabile a quello riscosso dalla scrittrice inglese a un punto analogo delle rispettive opere (per Harry Potter dopo il terzo romanzo, Il prigioniero di Azkaban, per Haruhi dopo il nono, La dissociazione di Haruhi Suzumiya). Quattro milioni e rotti di copie: tanto hanno venduto i romanzi di Tanigawa; certo pare difficile che in futuro le vendite possano centuplicarsi, così come accaduto ai libri della Rowling dopo ‘Azkaban’; ma intanto le similitudini non sono poche, compreso, forse non casualmente, il classico ‘blocco’ dello scrittore, sopraggiunto in entrambi i casi dopo il raggiungimento di un successo superiore a ogni aspettativa (quarto romanzo per la Rowling, nono per Tanigawa).
In quanto alla serie televisiva, non è facile darne una valutazione obiettiva, al momento attuale. Non solo la serie di romanzi non è conclusa, né è chiaro come e quando debba concludersi (proseguendo nel parallelo con Harry Potter, bisogna tener presente che i protagonisti di ‘Haruhi Suzumiya’ hanno da poco cominciato il secondo anno – su tre – delle scuole superiori), ma quanto si è visto finora in TV – e al cinema – copre all’incirca soltanto la metà dell’attuale produzione di Tanigawa. Anche i piani futuri della Kyoto Animation, che ha realizzato il cartone, sono avvolti nel mistero, al punto che l’uscita del film animato tratto dal quarto romanzo (La scomparsa di Haruhi Suzumiya) ha sorpreso non poco i fan, i quali si aspettavano invece una nuova serie televisiva.
L’anime, come se non bastasse, presenta dei problemi tutti suoi, il più grave dei quali è senza dubbio l’ordine di presentazione degli episodi che, senza ragione apparente, NON segue quello corretto delle storie. Nonostante l’uscita dei DVD abbia finalmente rimediato a questa strana situazione, non manca chi, tra i fan troppo esaltati, ritiene ancora preferibile l’ordine semi-casuale, per via della ‘suspense che aumenta’, delle ‘scoperte improvvise’ e via discorrendo. La realtà è che l’unico risultato di una visione ‘sparpagliata’ è quello di perdersi molti dettagli della trama e molte finezze nella lenta evoluzione dei personaggi.
Anche Rai 4, disgraziatamente, manderà in onda gli episodi nell’ordine sbagliato.
Altra bizzarria della Kyoto Animation è stata quella di ricavare ben 8 episodi – tutti uguali – dal racconto lungo Endless Eight, che avrebbe dovuto occuparne invece soltanto uno; una trasposizione pazzesca che ha fatto infuriare gli appassionati.
Una volta che si sia riusciti a metabolizzare questi (non trascurabili) problemi, la serie risulta senza dubbio godibile. Non eccezionale (in attesa del film, che si colloca su un livello ben più alto), ma ricca di spunti d’interesse, di momenti brillanti e soprattutto di dettagli non facili da cogliere ma che ben rispecchiano la sensibilità dell’autore: uomo di notevole cultura, sia umanistica che scientifica, Tanigawa è particolarmente attento ai dettagli tecnici, alla coerenza delle sue trame e alla credibilità degli spunti fantascientifici.
La storia si sviluppa inizialmente presentando i personaggi con i loro poteri e i loro problemi, prosegue con la soluzione di una crisi particolarmente grave (causata dalla gelosia di Haruhi nei confronti di Mikuru), passa attraverso l’importante ‘Rapsodia della foglia di bambù’, episodio che tratta il tema del viaggio nel tempo e suoi paradossi, e giunge al bizzarro ‘Sindrome dell’isola sperduta’, in cui Haruhi e i suoi amici devono occuparsi di un omicidio (o presunto tale). Dopodiché comincia la tremenda serie degli ‘Endless Eight’, dove vengono ripercorse per ben 8 volte le attività – per giunta del tutto ordinarie – svolte dal gruppo alla fine delle vacanze estive. Seguono poi cinque episodi dedicati al secondo romanzo della serie (Il sospiro di Haruhi Suzumiya) centrati sulla realizzazione di un film amatoriale da presentare all’annuale festival scolastico: sono tra le puntate più divertenti, in virtù del contrasto tra le ambizioni di Haruhi (che parla di continuo di Golden Globe e Palma d’Oro) e il pietoso risultato dei suoi sforzi, che tra l’altro è anche causa dell’unico serio litigio fra lei e Kyon. La serie televisiva si chiude con tre episodi ‘Live Alive’, ‘Il giorno del Sagittario’ e ‘Someday in the rain’, che ci mostrano una Haruhi più matura dopo la lite con Kyon, meno egocentrica e finalmente più attenta e generosa con chi le sta intorno. Non di molto, sia chiaro, ma quanto basta perché lo spettatore attento se ne accorga.
E la fantascienza? Beh, non ce n’è poi tanta. Concentrata negli episodi iniziali, in cui, come già accennato, vengono illustrati i poteri di tutti i personaggi, si ritrova nel già citato ‘Rapsodia della foglia di bambù’, nell’episodio isolato ‘Mystérique Sign’ e (ma solo indirettamente), negli ‘Endless Eight’. Nel film, dove la musica – in tutti i sensi – cambierà per sempre, e nei futuri adattamenti della serie, gli elementi fantascientifici dovrebbe avere un ruolo maggiore.
Per quanto concerne l’animazione, è di buon livello, curata soprattutto nelle espressioni, che sono importanti nel rendere le sottili sfumature dei personaggi e dei loro stati d’animo. La colonna sonora, forse perché troppo invadente, si è conquistata una fama tutta sua. La sceneggiatura è attentissima ai dettagli della trama e ai complicati rapporti tra i personaggi, specie riguardo la classica situazione di ‘amore ammesso tacitamente o forse no’ tra i due protagonisti, che, per quanto molto frequente nelle serie televisive, è qui esplorata con una profondità insolita (accade per esempio nelle molte scene di gelosia da parte di Haruhi, alcune veramente sottili ma non per questo meno significative); o anche nell’enigmatico rapporto tra Yuki e Kyon, fatto di sguardi e monosillabi, eppure di un’importanza sempre crescente; o nella caratterizzazione del più defilato tra i vari personaggi, Itsuki, i cui rari momenti di serietà sottolineano alcuni passaggi cruciali della narrazione. Né manca una ricca galleria di comprimari, specialmente compagni di scuola dei protagonisti: tutti sapranno ritagliarsi il loro spazio, per quanto piccolo, e uscire dall’ombra in cui di solito vengono relegati i personaggi secondari.
Insomma, vedere per credere. Senza rinunciare a un po’ di sana pazienza per esser certi di cogliere (anche guardando più volte) tutti i dettagli. Il tutto in attesa di quel film che metterà a tacere anche gli ultimi scettici.