La Paura del Saggio

La Paura del Saggio

Una pausa lunga una notte. E poi, con il primo sole, il locandiere Kote, affabile e premuroso, ricomincia a narrare una storia affascinante, coinvolgente e, per larga parte, incredibile. Eppure il narratore giura che tutto quello che sta rievocando è la pura e semplice verità, per giunta sfoltita degli orpelli e delle esagerazioni che le voci negli anni le hanno intessuto attorno. Del resto, chi altri potrebbe sapere meglio di lui quello che effettivamente è accaduto? Chi meglio del suo stesso protagonista? Sì: perché è lui il ragazzo prodigio dell’Accademia Arcana, il potente mago che ha annientato pressoché da solo un’intera banda di briganti, il primo straniero capace di imparare l’arte della spada dagli invincibili Adem, l’eroe di tante leggende, quel Kvothe che tutti ricordano… e che il locandiere sembra invece per molti versi aver dimenticato di essere.

E mentre i ricordi volano verso giorni che sembrano lontanissimi, la gloria passata rende ancor più mesto e carico di rimpianto il presente.

La Paura del Saggio (The Wise Man’s Fear, 2011) è il secondo, lunghissimo capitolo – ben 1140 pagine! – della straordinaria storia di Kvothe, raccontata ancora, nella finzione narrativa, in prima persona dal suo stesso protagonista, ora celatosi dietro le mentite spoglie di un mite locandiere.

Patrick Rothfuss ripropone dunque, come ci si attendeva, la stessa struttura del suo ammaliante Il Nome del Vento (The Name of the Wind, 2007), primo libro de Le Cronache dell’Assassino del Re (The Kingkiller Chronicle), quella che si sta rivelando come delle più promettenti saghe fantasy degli ultimi anni. Una descrizione breve di un luogo raccolto, avvolto nel silenzio, una solitaria locanda lontana apparentemente da tutto; l’ingresso dei principali personaggi; il tuffo nel passato per il tramite di una narrazione in prima persona dettagliatissima e avvolgente; brevi pause, nel ritorno al presente, caratterizzate da una successione di eventi incalzante; e poi ancora, nel silenzio dell’umbratile sera, la conclusione che appaga e al contempo lascia ancor bramosi di nuove rivelazioni, in trepidante attesa del nuovo seguito che, date le premesse, s’immagina di ancor più ampio respiro.

Purtroppo ripercorrere, nella struttura, passi già compiuti inevitabilmente ripropone i medesimi difetti e limiti che il lettore aveva già colto ne Il Nome del Vento e che, venuta meno l’assoluta novità, si avvertono ora accentuati e con maggior disturbo: la ripetitività di alcune scene e situazioni, la costruzione della frase a volte approssimativa, l’eccessiva verbosità e la mancanza di un’adeguata sintesi nel narrare gli episodi non significativi. Nemmeno la traduzione aiuta a limare questo stile, anzi a tratti pare zoppicante, e forse è responsabile dell’inserimento di espressioni e nomi non armonizzati con il contesto; del resto, già stride con l’atmosfera “medievaleggiante” della storia il sorprendere i personaggi a consumare cibi e bevande “moderni” (Kvothe, nei locali pubblici di una delle più fiorenti città del regno, beve cioccolata e caffè).

Eppure, nonostante queste carenze, superate le prime cento pagine piuttosto piatte e prive del mordente, accade che, come già nel primo libro, il lettore si ritrovi totalmente immerso nel mondo creato da Rothfuss, e ne riemerga poi con rimpianto, dopo un lunghissimo viaggio che pare inspiegabilmente troppo breve.

Un tale appagante risultato è la conseguenza di una scelta narrativa quanto mai coraggiosa: la storia del giovane Kvothe non è raccontata per il tramite degli eventi più salienti, ma quasi giorno per giorno, a volte ora per ora, descrivendo nei particolari luoghi, situazioni e personaggi, ma anche ballate e canzoni, filosofie di lotta e combattimento, riti di iniziazione e complicate procedure per la realizzazione di oggetti arcani. Attraverso gli occhi del protagonista si assiste così alle improbabili e sconcertanti lezioni di onomanzia del Magister Elodin, si lavora alla progettazione di formidabili strumenti magici sotto la guida di Magister Kilvin, si fruga con disperata ossessione negli Archivi, si “fugge” di notte sui tetti a cercare Auri, la misteriosa fanciulla che di giorno rimane nascosta nei sotterranei dell’Accademia, si insegue l’incomprensibile Denna per trovarla infine in città lontane e nelle circostanze più strane.

La prima parte del libro trova ambientazione in luoghi già noti al lettore de Il Nome del Vento; poi, improvvisamente, ci si ritrova catapultati a centinaia di miglia di distanza, vittime di un naufragio, e si inizia una nuova e ancor più sorprendente avventura, quella che trasformerà un giovane ramingo, divenuto orfano a seguito di una terribile strage, nel talentuoso bardo, impareggiabile arcanista, invincibile spadaccino, abile ladro, spietato assassino, nonché ineguagliabile amante che le leggende cantano.

La fine del viaggio e il rientro all’Accademia sono davvero paragonabili al ritorno a casa. E la conclusione del libro è un traumatico risveglio per il lettore. Quasi quanto il termine del racconto lo è per lo stesso Kvothe adulto, che ora si fa chiamare con un altro nome e che sembra nulla più che l’ombra sbiadita di quello che fu in gioventù. Di fronte a quella che sembra davvero la fine più ingloriosa, il lettore, disorientato, si interroga: com’è successo che una luce tanto intensa sia ora così fioca? E inutilmente si arrovella tra le tante pagine avidamente divorate per scoprire traccia dell’inizio del declino, qualche segno rivelatore che spieghi la caduta.

Ma Rothfuss è avaro di indizi su questo punto. Come lo è Kvothe nel disvelare gli agghiaccianti segreti dei Chandrian (i responsabili della morte di tutta la sua famiglia) dei quali, negli anni, a costo di grandi sacrifici e privazioni, è giunto a conoscenza.

Dopo un viaggio durato tanto, il lettore si accorgerà così di sapere ancora davvero ben poco dei tanti misteri che avvolgono la storia di Kvothe. Si chiederà cosa stia accadendo nel mondo “presente”, perché i Chandrian calpestino ancora la terra dei mortali, se vi sia o meno la possibilità di stabilire un’alleanza con gli unici eroi che potrebbero tener loro testa, sempreché questi eroi esistano ancora, o siano mai esistiti.

Il suo bagaglio – si badi – non sarà però vuoto: si sarà arricchito delle trame e dei costumi di una ricca corte, e dei segreti di un popolo orgoglioso e formidabile; i suoi occhi avranno conosciuto un mondo interdetto agli uomini, dominato da eventi sovrannaturali e creature immortali che sfuggono a ogni possibilità di comprensione; le sue orecchie si saranno riempite di ballate e poesia; le sue mani avranno brandito spade antiche e accarezzato liuti preziosi.

Mentre Steven Erikson, nella sua formidabile saga La Caduta di Malazan (infelice traduzione de “Il libro Malazan dei Caduti”, rectius: “del Caduto”) moltiplica all’infinito personaggi e città, coinvolgendo il lettore in guerre epiche e lotte titaniche in mondi dominati dalle più annichilenti magie; mentre Terry Goodkind, nel ciclo de La Spada della Verità, fonde ammaestramento politico e pura avventura, mischiando originalità e abusati stereotipi; Rothfuss crea un mondo per molti versi più ordinario e disciplinato, dove la magia degli uomini è pressoché limitata al vincolo alchemico e le creature magiche sono poche e relegate nella leggenda, ponendo a perno della narrazione un solo protagonista.

È attorno a Kvothe che gli altri personaggi degni di nota, pur tutti dotati di una personalità squisitamente tratteggiata, ruotano mesmericamente attratti. È attraverso la sua vita che il lettore conosce il mondo. E questo forte legame che Rothfuss crea con maestria consente un’immedesimazione spontanea, totale e fluida.

Tanto che il lettore non potrà che agognare ardentemente la pubblicazione del prossimo libro.

Per gettarsi di nuovo a capofitto in una lettura appassionante e ammaliante, per vivere ancora, attraverso il racconto straordinario di un eroe tanto umano quanto sorprendente, una delle più complete e appaganti avventure che il Fantasy contemporaneo abbia saputo creare.