Plusgene Fighter

L’arena dei plusgene

Vedo almeno sei paia di piedi, un paio femminili ­– le orrende scarpette cremisi non passano inosservate.

Trattengo il respiro e mi sposto a un lato della grata; il lampione sembra puntato proprio su di me e potrebbero vedermi. Bloccato in un fottuto scantinato. Che posto del cazzo per materializzarsi. Fa caldo e ho sete.

I titolari dei dodici piedi ridono e parlottano, l’argomento sono io. Io e ‘il modo bizzarro’ in cui mi hanno visto sparire dal ring. Sarà bizzarro per loro. Mi stanno dando del vigliacco: dovrei crepare per il loro sollazzo. Genepiatti di merda! Vorrei sapere come hanno fatto dei fottuti sapiens a fregarci tutti!

Mi siedo a terra, lontano dalle fessure di luce gettate sul pavimento lercio. Devo andarmene ma non ho visuale. Fottuto collare inibitore! Sono tre anni… riuscissi ad aprirlo sarei già sdraiato al sole in qualche isola tropicale, invece di star qui ad aspettare che sei stronzi muovano il culo e mi lascino vedere cosa cazzo c’è di fuori.

«Ho pagato quasi seicento carte per vedere dei veri plusgene combattere. Se l’incontro salta rivoglio indietro i soldi.»

E brava la troietta, arrabbiati, andate a chiedere il rimborso.

«Ha ragione Lucrezia, è una presa in giro. Torniamo alla cassa. Oltretutto qui fuori si soffoca!»

Cazzo se era ora! Aspetto che il ticchettio delle scarpette cremisi si allontani… afferro le sbarre di questa specie di finestra e mi sollevo. La visuale è riempita dal palazzo all’altro lato della strada. Fisso una finestra buia…

Il mio corpo perde consistenza, fluttuo nel nulla, solo un attimo… fa freddo adesso. Come sempre. Poi in meno di un battito di ciglia avvampo. Il lieve formicolio mi avvolge… ora non sono più formiche ma scorpioni e ratti, e mi stanno mordendo. Cazzo come brucia! E il cuore pompa come se dovesse scoppiare.

I morsi si acquietano e rimane solo un ronzio cupo. Sono nella stanza che avevo puntato.

È il collare elettronico a produrre le anomalie e tutto questo dolore. Prima, materializzarmi era facile e naturale come respirare. Ma sembra passato un secolo.

Ho bisogno di qualche istante… appoggio le mani sul davanzale. Non sento nulla, come se il mio corpo non mi appartenesse. Stringo il marmo, almeno credo di farlo. Ecco, ora sento il freddo della pietra e l’umidità sotto i palmi, le dita mi dolgono.

Sono tornato.

La stanza è vuota. L’appartamento anche.

Un rumore dalla tromba delle scale. Passi veloci, molti. Saltando fuori dal complesso dell’Arena si è attivato il segnalatore. Sempre questo collare bastardo! Mi affaccio alla finestra, due dei miei carcerieri sono in strada. Da qui vedo un angolo del parco cittadino. Saranno quasi cento metri: al limite della portata del collare, o forse oltre. Non tento un salto del genere da tre anni.

All’ingresso dell’appartamento un vecchio antifurto lampeggia. Sfioro il display: niente riconoscimento biometrico.

«Buona sera Carlos. Devo aprire?» dice la robocasa.

«Col cazzo! Blocca e inserisci l’antisfondamento.»

Forzeranno comunque la serratura, ma avrò almeno la soddisfazione di friggergli una mano quando ci proveranno.

Torno alla finestra e fisso un punto tra due grosse magnolie…

 *    *    *

L’intorpidimento è più lungo del solito, so di aver saltato ma non vedo nulla. Le braccia e le gambe mi fanno un male fottuto, e se non recupero in fretta sarà stato tutto vano.

Finalmente i miei occhi si abituano alla luce, mi bruciano anche, ma credo sia normale. È quello che vedo intorno a me che non è normale. Il primo contatto con la realtà è un colpo in faccia. Sento il labbro spaccarsi come una mela matura, e il sapore del sangue mi riempie subito la bocca.

«Bentornato Jaime.»

Come posso essere di nuovo qui? Come cazzo hanno fatto a riportarmi in questa prigione di merda?

«Davvero pensavi che non lo avremmo previsto? Andiamo Jaime, sei un teleporta! Sei stato abile a trovare quella falla nel perimetro di contenimento, ma appena salti da qualsiasi posto esterno al complesso il collare inibitore ti riaggancia al faro della tua cella. C’è una ragione se nessuno è mai evaso da qui.»

Il figlio di puttana mi fissa da dietro la spalla del suo picchiatore. Non sono solo affari. Non è solo per soldi che ci obbliga a combattere quasi ogni sera. Lui ci gode a farci massacrare tra noi.

Mentre provo a concentrarmi la sua risata mi anticipa. «Non pensarci neanche Jaime, non puoi più saltare. Abbiamo riprogrammato il tuo collare. Fidati, non sarebbe piacevole.»

A questo punto non ho molto da perdere, tanto non può andare peggio di così…

 *    *    *

Oh sì che può!

Non credevo di poter provare tanto dolore in un colpo solo! Come se un branco di lupi stesse banchettando con le mie carni. Riesco a sentire la pelle che si lacera e i tendini strapparsi uno a uno, ma quando smetto di gridare sono sempre nella mia cella e la pelle è ancora tutta al suo posto.

Sorride il bastardo, quanto vorrei spaccargli quei denti perfetti.

«Sei diventato più fastidioso che remunerativo. Gli scommettitori si sono parecchio indispettiti per il tuo numero di prima. Se non ti batti dovrò risarcire le scommesse. E perderò dei soldi. Parecchi. Quindi ti batterai.»

Un cenno a quella specie di mastino e lui mi colpisce. Ancora e ancora. Cado a terra, ma lui non smette di pestare. I colpi quasi non mi fanno respirare. Stringo gli occhi, il sudore e il sangue me li fanno bruciare e quando li riapro vedo solo il ghigno del mio padrone.

«Bisogna morire molte volte per imparare a vivere» dice – la sua solita frase, citata da non so che cazzo di tizio italiano, forse uno che aveva il dono di risorgere. Poi si rivolge al bastardo che m’ha pestato: «Fallo lavare e rimandalo sul ring.»

Se non posso saltare, sono morto.

  *    *    *

Il picchiatore mi trascina nelle docce, è un plusgene anche lui, un cane da guardia bene ammaestrato, e pagato con l’esenzione dal ring.

«Spogliati.»

Dolorante, fatico a sfilarmi la tuta, la lascio cadere a terra e mi avvicino alla parete. Appoggio i palmi sulle piastrelle e aspetto.

L’acqua è gelata. Meglio.

«Andiamo, sei pulito, infilati una tuta nuova e seguimi. Non fare scherzi o crepi prima ancora di arrivarci nel quadrato.»

  *    *    *

Le luci dell’Arena mi disorientano e il boato della folla m’investe come un’onda.

Non ho scelta, quindi afferro una delle corde e salgo sul ring. Manolo mi aspetta all’angolo opposto. Hanno voluto il mio migliore amico per farmi la pelle.

Il gong sta ancora suonando e lui già mi è addosso. Schivo il primo fendente per miracolo, ma il secondo va a segno. Volo alcuni metri più là e la montagna di muscoli e placche ossee mi è di nuovo sopra. Mi arpiona il collare e mi solleva da terra. Coglione: saltando ti avrei tranciato via le dita di netto! Invece mi ritrovo sbattuto contro le corde elastiche. Non posso fare granché contro uno che ha il corpo corazzato, ma Manolo è il mio migliore amico, si fermerà prima di ammazzarmi.

Mi sollevo a fatica e lui fa due passi indietro. Lo vedo roteare su se stesso, è una mossa che abbiamo provato un sacco di volte. Lui che tenta di falciarmi con la coda, io che salto e mi materializzo alle sue spalle: questo era il vecchio copione.

Il colpo è talmente forte da fare rumore. Nel boato della folla che lo accompagna, riesco a sentire qualcosa incrinarsi all’interno del torace. Grido, ma il fiato mi muore in gola.

Manolo è disorientato, gira su se stesso, finge di reclamare i suoi applausi ma sta aspettando che io mi riprenda; intanto l’arbitro inizia a contare.

Sollevo lo sguardo sul tabellone, il mio nome è scritto a chiare lettere anche per l’incontro successivo.

Mi trascino al mio angolo cercando di prendere fiato; Manolo continua a temporeggiare, ma la folla ha mangiato la foglia e inizia a fischiare e a tirare oggetti nel quadrato.

Il mio amico mi lancia un’occhiata.

Il tappeto si copre di bicchieri di plastica e cartacce, e lo strepitare è sempre più forte. Mi sollevo, aggrappato alle corde, guardo il mio compagno. So quello che accadrà e lo sa anche lui. Tra pochi istanti una scossa elettrica arriverà al suo collare, un avvertimento, e lui dovrà decidere se salvarsi la pelle o crepare con me.

Ma non voglio che sia lui a farmi fuori.

Uno dei guardiani passa accanto alle corde, la sua attenzione è tutta per la folla che esige un corpo morto. Mi sporgo e afferro il suo bastone elettrico. Il gesto è quasi automatico, sfilarlo al bastardo e puntarlo all’unico punto scoperto della pelle di Manolo è un solo movimento.

La scarica lo coglie alla gola, dove avevo mirato.

Un rumore forte e acuto esplode, insieme alle urla della folla che adesso grida il mio nome. Bastardi! Solo un branco di bastardi figli di puttana!

Mi aspettavo di vedere il mio amico intontito, almeno un po’, invece è una furia e sta correndo verso di me. Mi alzo, voglio offrirgli la possibilità di farlo in fretta. Poi vedo un rivolo di fumo levarsi dal suo collare.

È andato in corto! «Manolo! Il collare del cazzo è disattivato!»

Si arresta a un soffio da me, sento il suo fiato sulla faccia. Mi crede, per fortuna mi crede e inizia a mutare! E per davvero, altro che quel surrogato di mutazione concessa dal collare! Cresce sotto i miei occhi, le placche ossee si fondono tra loro e il suo collare salta via con uno schiocco. Le guardie hanno capito, sono salite sul ring, i bastoni elettrici accesi. Guardo quello che ora sembra solo un’informe ammasso di roccia e alzo il mento, esponendo il collo. «Dai cazzo, muoviti!»

Stringe il mio collare tra dita giganti e lo frantuma.

La prima scarica mi arriva alle spalle, un’altra alla gamba. Chiudo gli occhi e sento Manolo gridare, stanno colpendo anche lui.

Mi volto verso il nostro padrone, che indietreggia di un passo portandosi dietro alla linea gialla che adesso non può più delimitare il raggio dei nostri movimenti. Mi prendo anche il lusso di sorridergli, prima di saltare. Quando si rende conto dell’inutilità del suo gesto, la sua testolina di cazzo è stretta tra le mie dita. Bisogna morire molte volte? Scommettiamo che a te ne basterà una sola!

Sento solo il rumore, come di spugna strappata, e, quando compaio di nuovo accanto al mio amico, la testa del nostro aguzzino è ancora tra le mie mani, mentre il suo corpo si affloscia, dieci metri più in là.

Almeno tre bastoni elettrici sono schiacciati contro la pelle di Manolo dura come il marmo.

«Gira!» lo incoraggio.

Ripete la mossa che lo ha reso famoso, e ruota quella coda che adesso è una sorta di colonna, spazzando via metà delle guardie.

Distinguo l’ordine di spararci, mi lancio su di lui e lo abbraccio.

Ora, se i nostri aggressori sono intelligenti e veloci, si sbrigheranno a toglierci le mani di dosso. O me le porterò dietro.

 *    *    *

Ho pensato a un posto caldo, assolato. Un’isoletta dove andavo sempre, prima che mi catturassero. Un bellissimo angolo di Paradiso in mezzo al Pacifico.

Manolo barcolla e io cado a sedere nella sabbia. Gli sorrido, poi scoppio a ridere, ma mi fermo quasi subito perché la costola incrinata fa un male cane.

Manolo si massaggia la testa, di nuovo della misura normale. «Come facciamo con gli altri?» mi chiede.

«Dammi un momento… e poi ce li andiamo a riprendere. Uno per uno.»

Ora è di nuovo facile.