Non c’è Grande che nel corso della propria vita non abbia sognato, e talvolta provato a realizzare, un’opera colossale, destinata a coronare una carriera già brillante e rimanere ai posteri a imperituro ricordo. C’è chi riesce nell’impresa: Manzoni, per esempio, ha tirato i remi in barca dopo avere scritto (e più volte riveduto) I Promessi Sposi. Qualcuno, invece, neanche ce la fa ad iniziare, com’è accaduto ad Alejandro Jodorowski con l’adattamento cinematografico di Dune. C’è poi chi muore senza aver visto completato il suo chef d’oeuvre, troppo mastodontico per poter essere portato a termine in tempi ragionevoli: un perfetto esempio è Antoni Gaudì, con la sua Sagrada Familia. C’è infine chi viene stroncato da circostanze avverse e deve abbandonare i suoi sogni in corso d’opera: il lettore attento ricorderà certamente quanto accaduto a Frank Hampson durante la realizzazione di Safari in Space.
Nel mondo dei fumetti, proprio in questi anni, uno dei ‘grandi’ si sta cimentando nel suo ‘capolavoro’, non senza ritardi e difficoltà. Ancora non è chiaro se e quando riuscirà a portarlo a compimento; anzi, molti lettori ormai disperano di vederne la fine, perché ogni nuovo volume del progetto introduce sviluppi e complicazioni del tutto inattesi. L’autore in questione è Alan Moore, che non ha certo bisogno di presentazioni, e l’opera è The League of Extraordinary Gentlemen, iniziata ben 15 anni fa.
I ‘gentlemen’ nascono nel 1999, sotto l’egida di America’s Best Comics (o ABC), una sussidiaria della più nota Wildstorm creata dall’artista coreano Jim Lee nel 1992. Casa editrice giovane, indipendente e innovativa, la Wildstorm può finalmente offrire ad Alan Moore quell’autonomia creativa lungamente e inutilmente cercata; ben presto, però, l’azienda viene assorbita dall’odiata (da Moore) DC Comics. L’autore cerca di ingoiare il rospo; ma alla lunga le ‘solite’ interferenze della DC, per quanto motivate da seri problemi di copyright – che Moore stesso ha provocato – passano il limite, e i gentlemen si trasferiscono alla inglese Knockabout Comics, un piccolo editore realmente indipendente e coraggioso (tra le sue pubblicazioni, alcune opere minori di Robert Crumb, il discusso autore di Fritz il Gatto). La tranquillità editoriale, almeno per il momento, non sembra più in discussione.
Ma chi sono gli ‘Extraordinary Gentlemen’? Semplicemente, un gruppo di celebri individui presi in prestito dalla narrativa avventurosa dell’epoca vittoriana, personaggi del calibro dell’Uomo Invisibile, del dr. Jekyll, del capitano Nemo e così via. Il progetto di Moore è quello di costruire un mondo nel quale tutti costoro esistano contemporaneamente, e immaginare cosa possa scaturire dal loro incontro: quali avventure, quali scontri, quali amori. L’idea, assolutamente geniale, finisce per espandersi, lentamente ma inesorabilmente, estendendo le storie ad altre epoche storiche e finendo per coinvolgere eroi del cinema, della televisione, e addirittura ‘controfigure’ di persone reali, in un calderone senza fondo che ad ogni nuovo volume scade sempre di più nell’autoreferenzialità.
Alan Moore sta lavorando alla sua idea già nel luglio del 1996, come viene a sapere il collega Andy Diggle in una famosa intervista; i gentlemen sono ancora ‘gentlefolk’, ma il loro nucleo originale è già delineato. Tre anni più tardi inizia la pubblicazione del primo volume della serie, diviso in 6 capitoli apparsi tra il marzo del 1999 e il settembre del 2000, nei quali questo nucleo prende forma ufficialmente diventando una sorta di JLA di fine ’800 (la storia è ambientata nel 1898). Il supergruppo (o ‘league’, lega) viene ‘assemblato’ dai servizi segreti britannici, già allora diretti da un misterioso ‘M’, e l’unica donna a farne parte ne viene anche messa a capo: si tratta di Mina Murray (la Mina rapita da Dracula nel romanzo di Bram Stoker), che in questa visione alternativa del mondo ‘letterario’ ha divorziato dal marito Jonathan Harker, per ragioni mai chiarite ma sicuramente legate alle sue (dis)avventure col vampiro più famoso di tutti i tempi. Vale la pena notare, infatti, che Moore, pur servendosi a piene mani dei personaggi della letteratura vittoriana, ne dà una sua personale interpretazione; talvolta molto personale, come nel caso di James Bond trasformato in cattivo, o di Harry Potter… ma ne parleremo più avanti.
Con l’aiuto di tale Campion Bond, braccio destro di M (e nonno di James Bond), Mina recluta, uno dopo l’altro, il capitano Nemo (il cui Nautilus ha assunto un aspetto ancora più avveniristico di quello immaginato da Verne), Allan Quatermain, invecchiato e ormai tossicomane, il dottor Jekyll (che, con l’aspetto di Hyde, dopo aver finto di morire al termine del ‘suo’ romanzo, si nasconde a Parigi, ivi ritrovato da un vecchio ma sempre efficiente Auguste Dupin) e infine Hawley Griffin, l’uomo invisibile di H.G. Wells, pure lui sopravvissuto al proprio romanzo. La Lega entra presto in azione: l’incarico di M è quello di impedire che il dottor Fu Manchu (nientedimeno!) possa bombardare Londra servendosi della ‘cavorite’ (da I Primi Uomini sulla Luna di Wells) da lui rubata tempo addietro allo scopo di fornire energia alla sua flotta aerea. I gentlemen, superando reciproche diffidenze e incomprensioni, riescono nell’impresa, salvo poi scoprire che M non è, come avevano pensato, Mycroft, il fratello di Sherlock Holmes, bensì l’arcinemico di quest’ultimo, il professor Moriarty (sopravvissuto alle cascate di Reichenbach). Moriarty vuole realizzare per conto proprio il piano di Fu Manchu dopo essersi sbarazzato del rivale e impossessato della cavorite: servirà un nuovo intervento dei gentlemen per porre fine, una volte per tutte, al pericolo che incombe su Londra, e far diventare Mycroft Holmes il nuovo M, stavolta sul serio.
La storia, nell’insieme, si fa apprezzare. Ma le citazioni sono tali e tante da diventare spesso fini a sé stesse, se non d’intralcio a una trama altrimenti splendidamente costruita. Oltre ai cinque gentlemen e ai loro illustri avversari, infatti, una miriade di personaggi minori, tratti dalle più svariate opere vittoriane e spesso del tutto sconosciuti al lettore, occupa ogni pagina del volume, rendendo arduo seguire la storia senza attingere al famoso commento del superesperto Jess Nevins. Fra i comprimari più importanti vale la pena citare, dopo Auguste Dupin e il professor Cavor, il famoso Ismaele, protagonista di Moby Dick e adesso marinaio sul Nautilus.
Il successo di questa prima storia, a dispetto dei problemi sopracitati, è enorme; Hollywood ne trae un omonimo film nel 2003, noto più per essere stato l’ultima fatica cinematografica di Sean Connery (nel ruolo di Quatermain) che per la fedeltà alla trama. L’ira di Moore, che ha sempre odiato gli adattamenti cinematografici delle sue opere, è senza limiti: il film, come se non bastasse, è anche di livello discutibile.
Prima che la pellicola esca nelle sale, tuttavia, Moore porta a compimento il secondo volume della sua opera: diviso anch’esso in sei parti, appare tra il settembre del 2002 e il novembre del 2003.
Volendo utilizzare una metafora sportiva, l’asticella si alza! Appaiono il famoso John Carter di Marte (proprio quello tornato alla ribalta recentemente in un ottimo film prodotto dalla Walt Disney e dalla stessa affossato a causa di lotte intestine) e il meno celebre Gullivar Jones (precursore di Carter in avventure romantico-fantastiche di inizio ’900); dopodiché Moore reinventa, letteralmente, La Guerra dei Mondi di Wells, narrandola da un altro punto di vista e chiudendola con una variante ingegnosa: non è il raffreddore a uccidere i marziani, ma una terribile arma batteriologica ideata dal dottor Moreau (altro pezzo grosso della letteratura fantastica). La storia del raffreddore diventa una copertura per nascondere l’uso di un’arma di distruzione di massa, cosa che lascia disgustati i gentlemen. Il capitano Nemo (disegnato con una lunga barba nera che lo rende simile, forse non casualmente, allo stesso Moore) non riesce a trattenere la sua ira nei confronti dell’impero britannico, verso il quale già nutriva scarsa simpatia, e abbandona per sempre il gruppo. Poiché nel corso della storia muoiono Griffin, che dopo aver tradito i gentlemen viene ucciso da Hyde, e lo stesso Hyde, che si sacrifica combattendo contro i marziani, la Lega finisce per sciogliersi e i destini dei superstiti, in pratica i soli Mina e Quatermain (nel frattempo diventati amanti), restano incerti.
Alzare l’asticella, comunque, non significa superarla. I difetti del primo volume si accentuano: più personaggi, più riferimenti, più citazioni. E, quel che è peggio, Moore usa tutti i personaggi in modo sempre più ‘disinvolto’ e meno fedele all’originale: passi per il dr. Moreau, che in fin dei conti è sempre stato l’archetipo del mad scientist; passi per Mina, che da giovane devota al marito diventa una femminista acida, spesso antipatica (in fondo il suo personaggio non è tra quelli più curati, in Dracula): passi anche per Griffin, già malvagio ne L’Uomo Invisibile (anche se non sino al punto immaginato da Moore)… Ma che dire del capitano Nemo, che da raffinato e compassato gentiluomo si trasforma in un sikh collerico e intollerante? E di Allan Quatermain, il cui rapporto con Mina tocca punte di sorprendente volgarità (sono pur sempre personaggi vittoriani!)? E infine di Jekyll/Hyde, trasformato in Banner/Hulk e utilizzato in modo analogo, con Jekyll ormai scomparso e Hyde più buono che cattivo, persino un po’ innamorato di Mina?
Se l’idea di far interagire insieme tutti questi personaggi è indubbiamente geniale, Moore, ormai travolto dalle sue stesse sterminate conoscenze letterarie, dimentica che il lettore preferisce sempre gli originali: un Hyde totalmente devoto al male (lui, e non Griffin, dovrebbe tradire), un Nemo malinconico e posato, un Quatermain eroico (lui, e non Hyde, dovrebbe sacrificarsi), una Mina gentile, magari compassionevole.
Il dubbio che il genio di Northampton si stia facendo prendere la mano si concretizza; ma il peggio deve ancora venire.
Dal momento che, come spesso avviene nelle sue opere, Moore ha riempito i primi due volumi di testi scritti e di illustrazioni che fanno riferimento a eventi collaterali, i lettori sono consapevoli dell’esistenza di altre due ‘leghe’ di eroi, che precedono quella agli ordini di Mina Murray: la prima, attiva agli inizi del ’600, è guidata dal duca Prospero (da La Tempesta di Shakespeare) e annovera Don Chisciotte e Orlando (da Orlando di Virginia Woolf) tra i suoi componenti; la seconda, creata a metà ’700, è comandata da Lemuel Gulliver e comprende la Primula Rossa e nuovamente Orlando (immortale nel romanzo della Woolf). Molti ritengono quindi che il terzo volume della serie, una volta sciolta la Lega di Mina, dovrà occuparsi di una delle altre due; lo stesso Moore non nega una simile eventualità.
Invece, dopo quattro anni di silenzio, Moore sforna una graphic novel interlocutoria (secondo alcuni, creata al solo scopo di non lasciare disoccupato troppo tempo Kevin O’Neill, disegnatore della serie), intitolata Black Dossier. Siamo nel novembre del 2007, e la storia – se così si può definire – lascia abbastanza interdetti i lettori. Più che di un fumetto, si tratta di un concentrato di dossier, per l’appunto, che narrano eventi collegati direttamente o indirettamente con la storia delle diverse leghe; messi insieme, questi fascicoli formano una sorta di manuale dalla copertina nera onnicomprensivo sui gentlemen, il ‘black dossier’ del titolo, che Mina (immortale in quanto vampirizzata da Dracula) e Quatermain (ringiovanito tra un volume e l’altro dopo essere passato nel fuoco dell’eterna giovinezza, da La Donna Eterna di Haggard) devono sottrarre ai servizi segreti inglesi. La storia vera e propria, che in un bizzarro gioco di specchi si alterna alle pagine dello stesso dossier, è ambientata nel 1958, diversi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (combattuta non contro Hitler, ma contro Hynkel, da Il Grande Dittatore di Chaplin).
La Lega, a quanto pare rimessa in piedi dopo gli eventi narrati nel secondo volume, ha rotto i rapporti con M, in seguito all’instaurazione in Gran Bretagna di un regime totalitario (quello descritto da Orwell in 1984, che Moore ha trasferito nel 1948, giocando con l’originale inversione delle ultime due cifre); nel 1958 la democrazia sembra ristabilita, ma Mina e Quatermain continuano a non fidarsi troppo dei servizi segreti inglesi, dove ancora si annidano elementi del vecchio regime: questo è il motivo che li spinge a recuperare il fascicolo che riguarda i gentlemen e a portarlo al sicuro, naturalmente dopo varie peripezie e colpi di scena.
È con Black Dossier che Moore si lancia ‘verso l’infinito e oltre’. Ai personaggi già conosciuti in precedenza se ne aggiungono decine d’altri, sia coinvolti direttamente nella storia principale che citati più o meno di sfuggita: c’è chi proviene dal teatro shakespeariano (il duca Prospero), chi dalla narrativa moderna (Jeeves) o da storie per bambini (il Golliwogg, della scrittrice inglese Florence Upton), e chi arriva persino dal cinema (Hynkel e James Bond, quest’ultimo schierato decisamente coi cattivi, sadico, misogino, traditore e assassino), dalla televisione (mrs. Peel da Agente Speciale), e da altri fumetti (Dan Dare).
L’immenso calderone, lungi dall’intrigare il lettore, trasforma una storia non così banale in un miscuglio di citazioni incrociate, appesantite da problemi di copyright (per esempio, Bond e mrs. Peel non vengono mai nominati in modo esplicito) e spesso incomprensibili. A dare il colpo di grazia arrivano una serie di tavole in 3D (da ‘apprezzare’ con i classici occhialini bicolori, inclusi nel volume) che sembrano uscite da un incubo all’LSD e che spostano le avventure in una dimensione onirico-psichedelica (chiamata ‘Blazing World’) dove può avvenire tutto, e il contrario di tutto, e dove il duca Prospero, a quanto pare diventato il nuovo capo della Lega, regna sovrano. Dulcis in fundo, Black Dossier finisce anche per causare la definitiva rottura fra Moore e la DC Comics, come già si era accennato, proprio a causa dei troppi problemi di copyright.
In ogni caso, tra le pieghe di questo sterminato dossier emergono tanti di quei dettagli da fornire materiale per chissà quanti volumi. Per esempio, vi si trovano accenni a una Lega francofona (con Fantomas, Robur e perfino Arsenio Lupin) e un’altra germanofona (con il dr. Caligari, il dr. Mabuse e il dr. Rotwang, tutti presi dal cinema fantastico di scuola tedesca).
Nonostante ciò, nel 2009, cambiata casa editrice, Moore torna a occuparsi della Lega di Mina, opportunamente ristrutturata dopo quanto accaduto nel volume 2. L’asticella s’alza ancora: il nuovo volume è in realtà una trilogia, con la prima parte ambientata nel 1910, la seconda nel 1969 e l’ultima nel 2009 stesso. Alla storia viene dato il titolo, quanto mai appropriato, di Century. In quanto all’avversario da sconfiggere, Moore deve ritenere ormai troppo banali personaggi come Moriarty, i marziani e persino il regime di 1984, e con un definitivo salto di qualità (o no?) porta in gioco addirittura l’Anticristo. Non stupisce, quindi, che le deboli forze del gruppo di gentlemen, per quanto ricco di immortali, non bastino più e serva anzi l’intervento di Dio in persona per porre fine alla vicenda, che inevitabilmente sconfina nel ridicolo, spesso e volentieri.
Ma andiamo con ordine: il primo episodio, ‘1910: What Keeps Mankind Alive?’, esce nell’aprile del 2009 e ci mostra una nuova Lega, sempre guidata da Mina, composta dal solito Quatermain (ringiovanito), dal già menzionato Orlando, da Thomas Carnacki (un detective di inizio ’900 creato dall’inglese William Hodgson) e da A.J. Raffles (il famoso ladro gentiluomo, precursore di Arsenio Lupin). Orlando è adesso il vero centro del gruppo, e i suoi periodici cambiamenti di sesso (idea della Woolf, non di Moore, che tuttavia ‘fonde’ il personaggio col più classico Orlando della narrativa epica) lo rendono ancora più strano dei suoi compagni d’avventura; col tempo, costruirà con Mina e Allan il più classico dei ménage à trois. Avversario della Lega è l’occultista Oliver Haddo (da The Magician di Somerset Maugham), a sua volta modellato su un personaggio reale del secolo scorso: Aleister Crawley. Haddo, che si scoprirà essere immortale grazie alla sua capacità di trasferirsi da un corpo all’altro, sta pianificando l’arrivo dell’Anticristo. I tentativi della Lega di contrastare i suoi piani si alternano con altre vicende, collegate con l’arrivo a Londra della figlia del capitano Nemo – nel frattempo morto nella sua Lincoln Island (l’isola ‘misteriosa’ di Verne) – e con la riapparizione di Jack lo Squartatore dopo più di vent’anni di ‘inattività’.
La resa dei conti con l’occultista viene rinviata al secondo episodio, ‘1969: Paint It Black’, uscito nel luglio del 2011. Il lettore scopre che Haddo si sta preparando a occupare il corpo di… Mick Jagger (qui chiamato Terner), leader dei Purple Orchestra (i Rolling Stones, ovviamente). Durante un concerto tenutosi ad Hyde Park, Mina, sotto gli effetti dell’LSD, salva Jagger/Terner dopo aver lottato sul ‘piano astrale’ contro Haddo; ma non può impedire che quest’ultimo finisca per impossessarsi del corpo di un giovane, bizzarro spettatore, che sembra più interessato a portarsi Mina a letto che a seguire il concerto. Il giovane è – incredibile ma vero – Voldemort (della saga di Harry Potter!), e, una volta posseduto da Haddo, si affretta in direzione di Hogwarts (lo si vede sparire nel famoso binario 9 e ¾ di King’s Cross) lasciando Mina in preda a terribili allucinazioni indotte dall’acido che ha assunto e dal volo di centinaia di pipistrelli su Hyde Park, liberati nel corso del concerto (in realtà gli Stones liberarono migliaia di farfalle, non pipistrelli, in memoria di Brian Jones, morto due giorni prima). Ricoverata in manicomio, scomparirà per ben 40 anni, finché Orlando (Quatermain, ricaduto vittima delle droghe, si è ormai tirato fuori dalla mischia) non riuscirà a ritrovarla nel 2009.
E siamo così al terzo e ultimo episodio, ‘2009: Let It Come Down’, che esce nel giugno del 2012. Qui Moore supera stesso, ovviamente in peggio. Mina e Orlando scoprono che il treno per Hogwarts e lo stesso castello che ospita la scuola di magia sono stati distrutti pochi anni prima. La verità, un po’ per volta, emerge, sconvolgente: l’Anticristo è nientemeno che… Harry Potter! Tutti gli eventi narrati dalla Rowling sarebbero stati sapientemente orchestrati da Haddo/Voldemort allo scopo di ‘risvegliare’ le tendenze sataniche del giovane apprendista mago. Lo scontro finale, davanti al numero 12 di Grimmauld Place (la casa ereditata dal protagonista negli ultimi libri della saga), è inevitabile, e Potter/Satana, dopo aver ucciso il ritrovato Quatermain, sembra sul punto di prevalere su ciò che resta dei gentlemen, nonostante Orlando sia in possesso di Excalibur, la prodigiosa spada appartenuta a suo tempo a re Artù. Sul più bello (o brutto?), dal Blazing World arriva Dio in persona, sotto le spoglie di Mary Poppins, la quale, essendo notoriamente un’esperta di ragazzini problematici, trasforma senza difficoltà il cattivissimo Harry in un disegno a gesso sul marciapiede (come sua abitudine). La pioggia pone fine alla sua esistenza, anche se la testa di Haddo/Voldemort, che Potter/Satana aveva conservato gelosamente, continua a predire sventure…
Non ci vuole molto a rendersi conto che gli eccessi riscontrati nei primi due volumi della serie sembrano poca cosa, se confrontati con quanto avviene in Century. Anche i problemi di copyright, non più contenuti dalle interferenze della DC Comics, si moltiplicano senza ritegno, e le acrobazie a cui ricorre Moore per aggirarli finiscono per aumentare il senso di irritazione: era davvero necessario allontanarsi dalla falsariga dei primi due volumi, ambientati in un’epoca molto più tranquilla da questo punto di vista? La solita massa di citazioni, oltretutto prive di ogni rapporto con la storia, arriva a un punto tale da rendere preferibile tirare dritto senza servirsi dei commenti di Nevins, a meno di non voler restare impantanati in ogni vignetta.
Il miscuglio di personaggi tratti da ogni possibile media e da realtà più o meno alternative, per di più mescolati senza criterio e poco o per nulla approfonditi, tollerabile forse in un volume a sé stante come Black Dossier, qui diventa insopportabile. Come detto, ai componenti della Lega si affiancano la figlia di Nemo, Jack lo Squartatore, i Rolling Stones, il duca Prospero, nuovamente mrs. Peel e James Bond (e gli attori che lo hanno interpretato al cinema, diventati le sue ‘controfigure’ ufficiali), Mary Poppins, Andrew Norton (viaggiatore del tempo creato da Iain Sinclair solo pochi anni prima), i personaggi della Rowling e decine di altri minori, spesso appena accennati. È come se Moore abbia perso del tutto il controllo sulla sua opera, tanto più che ogni protagonista sembra ormai una caricatura di sé stesso. Dopo avere stravolto James Bond, il colmo viene raggiunto con Harry Potter trasformato nell’Anticristo, e la scena in cui questo personaggio, amato e apprezzato in tutto il mondo, usa i suoi ‘attributi virili’ come fossero la bacchetta magica suscita più disgusto che altro. Talmente grottesco è il trattamento che Moore riserva al maghetto della Rowling da far pensare che gli stia segretamente – e sommamente – antipatico; ma quello che Moore non ha capito è che Harry Potter è troppo al di là delle sue capacità per poter essere ridicolizzato in questo modo. E quindi è Moore, non il maghetto, a coprirsi di ridicolo: il genio di Northampton, pur capace di descrivere in modo splendido personaggi moralmente ambigui (si pensi al Rorschach di Watchmen) o sull’orlo della pazzia (il Joker in Batman: The Killing Joke, o il dr. Gull in From Hell), non ha mai brillato quando ha dovuto confrontarsi con eroi di stampo classico (vedasi il suo appena discreto Superman, realizzato negli anni ’80, e lo stesso Batman). Poco importa che il suo intento sia quello di rivisitarli, di stravolgerli o di farne una parodia: il risultato resta poco convincente.
Questo, a ben vedere, è il vero limite dei gentlemen, che da solo ne spiega il sostanziale fallimento. Non è un caso che il capolavoro di Moore sia Watchmen, cioè un fumetto originale e privo di veri ‘eroi’, nonostante la sua bibliografia sia ricca di opere dedicate a personaggi già noti, come Swamp Thing e i già citati Batman e Superman. Moore, il cui ego è un po’ eccessivo (per non dire smisurato), ha sempre avuto difficoltà nel riconoscere i propri limiti, e questa dei gentlemen non è neanche un’occasione perduta: è semplicemente uno spreco del suo immenso talento.
Pure, Moore non è ancora pago. Cosa ci riserva il futuro della saga? In più di una intervista si è parlato di una storia che dovrebbe svolgersi nel passato, nel 1964, e di un’altra ambientata subito dopo Century, probabilmente nel 2011 o nel 2012; ma, in quanto ai contenuti, nulla è trapelato. D’altronde, dopo che nel calderone sono stati gettati Dio e l’Anticristo, che altro rimane? E così, tanto per riordinare le idee e guadagnare un po’ di tempo, ecco giungere uno spin-off, come si usa in quella Hollywood tanto disprezzata dallo stesso Moore. Si tratta di una storia, intitolata Nemo e divisa in tre parti come Century, dedicata a Jenny, la figlia del comandante del Nautilus, la quale dopo la sua comparsa nel 1910 sembrava in effetti pronta per nuove, mirabolanti avventure degne del padre. La storia è ancora in via di sviluppo (il secondo volume è da poco uscito), e forse vale la pena attenderne la fine prima di trarre qualche conclusione. Se non altro il primo volume sembra promettente, ricco di riferimenti ai leggendari Le Montagne della Follia di Lovecraft e Le Avventure di Gordon Pym di Poe (senza dimenticare La Sfinge dei Ghiacci di Verne).
Rimane però da esaminare l’altro (l’ennesimo) punto dolente della sterminata saga: il disegno di Kevin O’Neill. Disegno che, anche a volerlo giudicare con tutta la benevolenza possibile, raggiunge a stento la sufficienza. Perché mai Alan Moore, che pure in passato ha lavorato con disegnatori eccezionali come Brian Bolland (Batman: The Killing Joke) o comunque superiori alla media come Dave Gibbons (Watchmen, Superman e altro) e David Lloyd (V for Vendetta), ne ha scelto uno così mediocre per il suo chef d’oeuvre? La risposta, purtroppo, si indovina facilmente: come lui stesso ha recentemente ammesso, ha scelto l’unico col quale sia in buoni rapporti, vale a dire O’Neill, il solo ad averlo sempre appoggiato nelle sue infinite liti con tutte le case editrici, DC Comics in primis.
Fatto sta che non è facile trovare un qualche disegno di O’Neill dove siano rispettate le semplici proporzioni fra i personaggi, o dove questi personaggi, quantomeno, non cambino aspetto tra una vignetta e la successiva, problema ulteriormente complicato dai cambiamenti nella moda tra un’epoca e l’altra, da personaggi che ringiovaniscono, invecchiano, cambiano sesso… Consapevole del difetto, O’Neill finisce per accentuarlo volutamente, nella speranza di aggiungere un tocco stravagante e surreale ad avventure già bizzarre per conto loro. Ma, anche volendo approvare questa scelta, non si può far finta di nulla di fronte a disegni così statici da risultare quasi fastidiosi: tant’è vero che le scene d’azione sono state ridotte al minimo indispensabile, e ciononostante quelle poche rimaste andrebbero saltate a piè pari. Il punto cruciale sta nel fatto che O’Neill, più che un disegnatore di fumetti, è un ottimo illustratore, abile nella composizione delle scene, accurato, pignolo quasi, nei dettagli e nella scelta delle inquadrature. Non a caso le copertine dei volumi della serie sono tutte eccellenti, in grado di evocare avventure misteriose e fantastiche. Ed è anche buona, tutto sommato, la capacità espressiva dei suoi disegni, che in parte compensa gli altri difetti.
Si sente, però, anche la mancanza di un grande colorista, in grado di far emergere dall’ombra quei dettagli che sono la specialità di O’Neill. Viceversa, una colorazione piatta, smorta e poco varia – nulla a che vedere con le tonalità brillanti di Watchmen o di Batman: The Killing Joke – nasconde tutto sotto una patina opaca che rende ancora più difficoltosa la lettura, già appesantita dalla massa di citazioni superflue e dai troppi dialoghi, spesso inutili, noiosi e poco comprensibili. Il merito (si fa per dire) di questa colorazione ricade sulle spalle dello sconosciuto americano di origini filippine Ben(edict) Dimagmaliw, che gli appassionati non dimenticheranno facilmente.
Può lasciare un po’ stupiti che The League of Extraordinary Gentlemen venga valutato così severamente. In fin dei conti si tratta di un’opera davvero monumentale, che mostra quanto siano sterminate e profonde le conoscenze letterarie, cinematografiche e televisive di Moore. È raro trovare qualcosa del genere, anche abbandonando fumetti e narrativa avventurosa e rivolgendosi alla cosiddetta letteratura mainstream.
Ed è fuori discussione che buona parte del successo dell’opera si debba proprio a questa esondazione di conoscenze che riempie ogni pagina e ogni vignetta. Ma il problema è Moore, appunto. Un autore talmente geniale da poter essere paragonato a Re Mida, data la sua capacità di ridare nuova vita a personaggi banali (come Superman) o quasi dimenticati (come Swamp Thing) e, in generale, di realizzare solo capolavori, senza fermarsi mai. Se i gentlemen fossero stati partoriti da qualsiasi altro autore, fosse pure un altro genio come Frank Miller – il cui genere è comunque ben diverso –, le valutazioni non potrebbero che essere positive: l’idea?, straordinaria come i gentlemen stessi; la rivisitazione dei personaggi?, un modo originale per non narrare da capo le loro storie; il disegno?, rozzo ma efficace ed espressivo.
Due pesi e due misure, insomma? Purtroppo è inevitabile. Da chi ha creato Watchmen, ci si aspetta ormai solo un capolavoro dopo l’altro. Già un’opera eccellente e visionaria come From Hell appare non completamente riuscita, marcando forse l’inizio del declino creativo di Moore; i gentlemen confermano in pieno questa tendenza. Farseli piacere, per chi conosce a fondo Watchmen, The Killing Joke e V for Vendetta, è troppo.
Probabilmente, Moore avrebbe dovuto chiudere le avventure della Lega alla fine del secondo volume, approfittando del suo scioglimento conseguente alla battaglia finale contro i marziani di Wells. L’insieme dei primi due volumi, strettamente collegati e omogenei nell’ambientazione e nella struttura narrativa, ne avrebbe fatto un’opera certamente minore ma ancora pregevole, priva degli eccessi delle storie successive. Il primo dei due volumi, in particolare, riesce ancora a proporre, dei personaggi vittoriani, una versione fedele e nello stesso tempo rivisitata al punto giusto: un Hyde ambiguo ma certamente non buono, una Mina ancora incerta sul proprio ruolo, un Nemo più controllato, e così via. Il disegno di O’Neill, per quanto rozzo, sarebbe stato in effetti considerato ‘innovativo’, adeguato alla bizzarria della storia illustrata. L’impatto dell’idea di fondo, soprattutto, non sarebbe stato annacquato dall’uscita dei volumi successivi.
Ma così non è stato. Quando si parla di un Grande, di uno come Alan Moore, il senso critico dei lettori svanisce progressivamente. Ogni opera viene incensata. Ogni nuova creazione mette in ombra quelle precedenti. È solo in retrospettiva, quando il rischio di dispiacere all’autore si attenua, che emergono finalmente giudizi più obiettivi. Ma non sarebbe meglio trovare, da subito, il coraggio di dire che il Re è nudo? I gentlemen, ormai, sono quelli che sono. Ma Moore, se fosse costretto a un bagno di umiltà, potrebbe ancora ritrovare la genialità dei suoi giorni migliori.
Proviamoci, allora.