L’Ora dell’Orda (Hour of the Horde, 1970), di Gordon R. Dickson

L’Ora dell’Orda

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L’Ora dell’Orda (Hour of the Horde, 1970), di Gordon R. Dickson

PRESENTAZIONE

Tra gli autori più noti di quella generazione che ha iniziato la sua attività intorno agli anni cinquanta Gordon Dickson è forse quello arrivato più tardi al successo. È però anche quello che ha saputo affinare maggiormente le sue qualità, ottenendo una maturazione graduale e magari un tantino tardiva fino a raggiungere proprio in questi ultimi tempi vertici notevolissimi di maestria letteraria nei generi più disparati. Gli inizi della sua carriera risalgono infatti al 1950, anno in cui venne pubblicato su «Fantastic Story Quarterly» il suo primo racconto, «Trespass», composto in collaborazione con Poul Anderson, l’amico fraterno degli anni dell’Università. Nonostante il livello qualitativo delle sue opere fosse sempre più che discreto e certo superiore alla media, il vero successo gli arrise soltanto dopo nove anni, nel 1959, quando «Astounding» pubblicò a puntate il suo romanzo «Dorsai!» (Il generale genetico; Cosmo Argento n. 34), che sarebbe poi diventato il cardine di tutto il ciclo dei Childe.

Già dalle prime storie e dai primi romanzi di Dickson si possono tuttavia intravvedere quegli schemi narrativi e quelle idee che diventeranno poi la base di tutta la sua tematica successiva: soprattutto il suo amore per l’avventura galattica intesa come espansione dell’uomo nel cosmo e sviluppo delle sue facoltà, il suo interesse per l’evoluzione della razza umana e per il necessario e cosciente controllo da parte dell’uomo di tale evoluzione, la sua passione per la descrizione di società aliene e del loro incontro con la cultura umana, il suo vitale attaccamento per gli ambienti seminaturali, a volte addirittura pastorali, popolati da gente solida e ancorata alle vecchie tradizioni, i cui principii, quando sono espressi apertamente, vanno a violare le comuni, semplicistiche polarità conservativo-liberali. È interessante, tuttavia, notare a questo proposito che Dickson, come Poul Anderson e Clifford Simak, suoi carissimi amici e con cui condivide questa spiccata ideologia «agreste» o naturale, è stato spesso tacciato — a nostro avviso ingiustamente — di conservatorismo acuto e di appartenere alla destra parlamentare americana.

Abbiamo accennato brevemente agli spunti tematici alla base dell’opus dicksoniano. Due, in particolare, sono vivacemente presenti in questo «The Hour of the Horde», pubblicato nel 1970, un momento cioè in cui Dickson cominciava a mostrare la tendenza a un certo raffinamento tecnico: raffinamento che l’avrebbe poi condotto a intraprendere iniziative sempre più impegnative, tra cui la continuazione e l’espansione del ciclo dei Dorsai e la composizione di quel vero e proprio «tour de force» che è «Time Storm» (Le nebbie del tempo; Cosmo Argento n. 89/90), un romanzo che riprende e rivitalizza il classico tema delle catastrofi naturali e che rappresenta, assieme al recente «The Far Call» (un romanzo di stampo fantapolitico sul primo viaggio verso Marte) e all’ormai celeberrimo ciclo dei Dorsai, il vertice della carriera fantascientifica di questo autore.

Il primo spunto, quello che ci sembra di maggiore importanza, è il discorso sull’evoluzione dell’uomo. «The Hour of the Horde», pur essendo un romanzo sostanzialmente d’avventura spaziale, un’avvincente storia di invasori galattici e di epici conflitti stellari, possiede un sottofondo filosofico che è comune a tutte le opere fondamentali del Nostro. Nel ciclo dei Dorsai e in «Time Storm» Dickson considera la razza umana come un singolo organismo (e ciò risulta evidente anche in «The Hour of the Horde», dove il gruppo alieno dei «difensori» presceglie un unico individuo per ogni specie intelligente di ogni pianeta) in cui la condizione di ogni cellula individuale ha effetto sulla salute del complesso vitale. Le tendenze progressiste e conservatrici di tale organismo umano devono essere riconciliate in modo da permettere una crescita continua e ininterrotta. Queste tendenze vengono identificate da Dickson in tre categorie basilari di esseri umani, in tre «funzionari»: gli Uomini della Fede, gli Uomini della Filosofia, e gli Uomini della Guerra.

Il destino dell’uomo, afferma Dickson, è di essere libero, responsabile e creativo. Non a caso egli stesso è un individuo pieno di ardore che ama l’addestramento del fisico, l’uso delle arti marziali (soprattutto quelle orientali, più adatte alla ricerca di un controllo effettivo sugli stati di esaltazione psicofisica), e le arti più creative, in primo luogo la pittura. È ben noto ormai il suo enorme interesse per questo argomento: che cosa si cela sotto la forza dell’individuo in uno stato di esaltazione isterica, sotto i momenti di sbalorditivo intuito, sotto la virtù e l’eroismo? La sua risposta fondamentale a queste domande, anzi a questa domanda, è «la creatività». Quando gli esseri umani, afferma Dickson, operano ai livelli massimi permessi dai loro fisici, dalle loro menti, dai loro spiriti, essi entrano in una fase di trascendenza che l’autore definisce «creative overdrive» (energia creativa trascendente). In questa condizione, essi sono in grado di dirigere i loro poteri consci e inconsci verso mete altrimenti irraggiungibili.

Non è un caso dunque che i protagonisti dei romanzi di Dickson siano spesso artisti, o guerrieri passati attraverso fasi artistiche. In «The Final Encyclopedia» (il prossimo romanzo del ciclo dei Dorsai) Hal Mayne è un poeta che ha avuto precedenti incarnazioni come soldato e come mistico. Michael Sandoval di «Lost Dorsai» (altro capitolo del ciclo che presto presenteremo ai nostri lettori) è un musicista e Cletus Grahame di «Tattica dell’errore» è un militare che ha tentato anche la via della pittura. Cosi non deve stupire che Miles Vander, l’eroe di questo «The Hour of the Horde», l’uomo che viene prescelto come rappresentante della Terra e da cui dipenderà poi l’esito di una sfida epica che ha in palio l’intera galassia come posta, sia un invalido, un poliomelitico che sfoga la sua straripante energia interiore nella creazione di esuberanti paesaggi pittorici. Dickson affida ai suoi eroi i talenti che lui stima di più e ne fa esempi di ciò che l’intera razza umana potrebbe raggiungere se solo riuscisse a utilizzare in maniera più completa ed efficace le sue energie creative.

Dickson stesso è una chiara dimostrazione pratica delle teorie che propugna. I suoi errori di memoria sono leggendari: spesso dimentica e confonde i titoli dei libri, le locazioni dei pianeti, le parole delle canzoni da lui stesso composte. Ciò nonostante, la sua mente diventa straordinariamente agile ed efficiente quando si trova in uno stato di esaltazione che sia posto al servizio della espressione della sua arte, della narrazione.

La creatività, l’espressione irrazionale e intuitiva dell’animo umano, è dunque la chiave per l’evoluzione della nostra razza, abbinata però a un controllo cosciente di questa evoluzione. Soltanto quando tutto ciò si avvererà, sarà raggiunta una vera maturità.

L’altro spunto che questo romanzo ha in comune con molte altre opere prodotte da Dickson nel corso della sua lunga carriera, è l’interesse per lo studio e la descrizione plausibile di alieni che entrino in contatto con l’uomo. In genere, e qui se ne può vedere un buon esempio, gli alieni di Dickson sono simpatici e affascinanti e rassomigliano in maniera singolare agli animali terrestri prediletti dall’autore. Non per niente Dickson è anche un appassionato della psicologia animale, come dimostra la frase seguente: «Io immagino che il comportamento dell’uomo sia illuminante per gli animali e viceversa, e immagino anche che il comportamento dell’uomo e degli animali sarà illuminante per gli alieni e viceversa». Ecco dunque che le bestie preferite dall’autore compaiono nelle pagine delle sue opere nelle loro vesti abituali o camuffate sotto le spoglie degli alieni: orsi (in «Spacial Delivery» e in Esche nello spazio), lupi (in «Sleepwalker’s World»): mammiferi marini (in «Home from the Shore» e «The Space Swimmers»), gatti (in «Time Storm» e «Masters of Everon»), lontre (in «Alien Art»). In questo «The Hour of the Horde» ne troviamo di numerose specie, ma le figure di maggior spicco sono il tigresco Chak’ha e l’orsino Eff: dunque, felini e ursinoidi ancora una volta.

In conclusione, questo romanzo si inserisce di diritto in quella categoria di opere che, pur dichiarando una chiara intenzione avventurosa, riflette un concetto basilare nella filosofia dell’autore: solo l’indomabile spirito dell’uomo può opporsi con qualche speranza di riuscita ad alieni anche tecnologicamente superiori. La maestria di Dickson sta proprio in questo: offrire un ottimo romanzo d’avventura, pieno di spunti avvincenti e narrato con grande tecnica, e al contempo inserire qualche concetto coerente con una filosofia sviluppata nell’arco di un’intera carriera.

Sandro Pergameno

Anteprima testo

CAPITOLO PRIMO

Era successo di nuovo. Quella forza primordiale e invincibile che era dentro di lui, e che lui a quanto pareva non riusciva a respingere, si era manifestata di nuovo e con furia lungo i muscoli del braccio e della mano sani per impadronirsi del suo quadro.

Esausto, Miles Vander lanciò il pennello del numero quattro che teneva in mano (ora macchiato — come da sangue — da rosso di alizarina) nel barattolo da frutta pieno di trementina torbida in cui si trovavano gli altri pennelli dalla lunga impugnatura gialla. L’invase una sensazione di spossatezza e di frustrazione, come una pesante coperta più volte ripiegata.

Di colpo fu di nuovo consapevole del proprio corpo dall’aspetto deperito, delle spalle curve, del braccio sinistro che la polio aveva storpiato sei anni prima e che pendeva inutile. In quel momento la mano paralizzata era infilata nella tasca sinistra dei pantaloni, fuori vista, e la larga manica della bianca camicia, ondeggiando intorno al braccio paralitico alle ultime luci del sole di quel caldo pomeriggio primaverile, ne nascondeva per il momento l’innaturale magrezza. Ma all’improvviso Miles ne fu di nuovo e dolorosamente consapevole.

Per alcune ore, assorto nella pittura, aveva dimenticato sia la sua menomazione sia l’ostinata ricerca artistica che non aveva abbandonato in quegli ultimi cinque anni. Adesso, svuotato e sfinito, col sapore postumo di un altro insuccesso, se ne stava a fissare la tela mentre la brezza del pomeriggio inoltrato, via via più fresca, faceva ondeggiare la bianca camicia modellandola intorno al corpo che si raffreddava.

Il quadro illustrava la scena davanti a lui… solo che non era la stessa scena. Miles si trovava sul punto del viale alberato in cima al contrafforte roccioso che sovrastava il Mississippi a ovest. Sotto di lui, senza la minima increspatura, tra alte pareti rocciose alla cui base si ammassavano verdi prati, il braccio superiore del fiume — di un azzurro cupo, con i suoi trecento metri di larghezza e un’immobilità da cartolina illustrata — scorreva sotto il bianco cemento di un ponte autostradale, con un passaggio pedonale sopraelevato e racchiuso da vetrate a uso degli studenti che facevano la spola tra i settori est e ovest dell’università.

Tutte queste cose componevano il paesaggio che Miles aveva dipinto per tre ore e mezzo. E lui aveva riprodotto tutto, sulla tela: le alte e ripide sponde grigio-marrone del fiume, le pianure erbose ai piedi delle sponde; perfino il battello a vapore con la ruota dalle pale bianche, teatro fluviale dell’università, ormeggiato sotto il ponte. In quel momento stava fissando tutte quelle cose, come anche i grandi e vecchi olmi frondosi, i mattoni rossicci dell’associazione studentesca, l’ospedale universitario in cima al contrafforte, più distante, e il cielo azzurro quasi senza nuvole che sovrastava la scena.

Tutte quelle cose erano bagnate dalla luce del sole di quella fine di maggio, come d’altronde lo erano state durante le ore che lui aveva trascorso a dipingere, e offrivano uno scenario caldo, perfino confortante. Ma non era cosi che i suoi pennelli le avevano riprodotte sulla tela.

Sulla tela da novanta per centoventi centimetri, che ora scintillava di colori ancora bagnati, Miles aveva dipinto non già quello che aveva di fronte bensì l’antico e selvaggio istinto animalesco dell’uomo, davanti al quale non sembrava capace di chiudere gli occhi. Mai. Nei tenui e reali verdi, blu e marroni del panorama aldilà del fiume si era insinuata la gelida freddezza dell’azzurro-oltremare, reso ancor più duro dal grigio. Alla delicata luce gialla del sole si era aggiunto il fuoco senza fiamma del rosso di alizarina, trasformandolo in un rossiccio cupo come il colore del sangue versato.

Il quadro risultante mostrava le opere dell’uomo in base alle quali l’uomo stesso doveva essere giudicato: incanutito e pensieroso, denudato, inasprito e con i marchi sanguinosi di barbare colpe e insufficienze primordiali.

Miles si sentiva esausto, debole, perfino un po’ stordito. Si era svuotato di nuovo della sua interiore energia creativa. Ma una volta ancora non aveva reso quell’immagine del mondo come desiderava mostrarla, bensì soltanto l’altra faccia di quell’immagine: come il rovescio di una moneta, la sua faccia demoniaca. Stancamente, cominciò a pulire i pennelli e a inscatolare i colori per far ritorno alla sua stanza.

Giunto a metà del passaggio pedonale a vetri sopra il ponte autostradale si fermò a riposare un attimo, appoggiando la tela (ora coperta) e la pesante scatola dei colori sulla ringhiera che proteggeva il lato a vetrate del passaggio. Mentre riprendeva fiato abbassò un’ultima volta lo sguardo sulla scena del suo quadro.

In fondo alla strada che aveva percorso c’era la cima del contrafforte sul quale aveva sistemato il cavalletto, e davanti a lui c’era adesso la parete frastagliata e quasi verticale di grigia roccia calcarea — segnata dalle intemperie, che vi avevano aperto fenditure e scavato solchi — che sovrastava la striscia d’erba del viale alberato. Come sempre, la vista della parete di quella scogliera lo caricò di nuova forza e fermezza. Poteva rifare ciò che aveva già fatto una volta. Un po’ di calore si risvegliò in lui.

Quel pomeriggio era stato sconfitto un’altra volta ma non soggiogato, dopotutto. Traendo forza dalla vista della parete grigio-bruna del dirupo, i suoi pensieri s’infiammavano già all’idea di rimettere mano ai pennelli. Aveva ancora tempo per riuscire. In fin dei conti, se era davvero un fallito, almeno

— fino a quel momento — lo era solo ai propri occhi.

La sua pittura, anche cosi com’era, gli aveva guadagnato l’insolita attenzione degli insegnanti d’arte li all’università. Gli aveva valso anche, adesso che stava per laurearsi, una borsa di studio che gli avrebbe permesso di trascorrere i prossimi due anni in Europa, a viaggiare e dipingere come preferiva. Poi, finalmente libero da distrazioni accademiche, continuando a dipingere avrebbe finito con lo sconfiggere quella squallida visuale barbara e primitiva che sembrava decisa a esprimersi in tutte le sue opere.

Il leggero stordimento dovuto alla fatica di quel lungo pomeriggio gli diede di nuovo per un attimo un senso di vertigine. Si appoggiò alla ringhiera ma si raddrizzò subito.

La giornata si era rabbuiata. Lanciò una rapida occhiata al sole.

Era come se la sua superficie fosse stata nascosta da uno spesso filtro arancione. Roteando, enorme e cupo, bruciava di un rosso acceso appena al disopra dell’orizzonte a…

L'ora dell'orda - Copertina

Tit. originale: Hour of the Horde

Anno: 1970

Autore: Gordon R. Dickson

Edizione: Editrice Nord (anno 1981), collana “Cosmo Argento” #115

Traduttore: Rita Botter Pierangeli

Pagine: 162

Dalla copertina | L’Orda d’Argento, una mostruosa flotta di viaggiatori spaziali che passa da una galassia all’altra distruggendo tutto ciò che sì trova sul suo cammino, sta per arrivare nel nostro universo: la Terra sarà uno dei primi pianeti ad essere devastato. Gli uomini continuano a vivere ignari di questa terribile minaccia, ma altri mondi della nostra galassia, più avanzati tecnologicamente, si sono uniti per creare una super-forza di difesa, una barriera che si ponga sulla strada degli invasori e li respinga nel nulla interstellare da cui provengono. Per attuare questo piano difensivo, questa confederazione ha bisogno che ogni pianeta contribuisca con un « guerriero » particolarmente dotato, un individuo che possieda intrinseche qualità di vigore ed energìa psicofisica. Miles Vander è il terrestre prescelto, un giovane reso invalido dalla poliomelite ma pieno di un’esauribile energia, di una vitalità violenta e straripante, di una volontà ferrea e invincìbile, inserito bruscamente in un gruppo speciale composto dai difensori appartenenti alle razze meno civilizzate della galassia, Miles dimostrerà, nel contesto degli avanzati combattimenti nucleari e della sofisticata strategia dei computer, che lui e i suoi compagni sono gli unici a possedere le qualità speciali e il rozzo coraggio necessari per affrontare nel modo migliore lo scontro con la micidiale Orda d’Argento. Un romanzo di avventura spaziale e di grandiose battaglie stellari nella migliore tradizione dell’autore dell’acclamato ciclo dei Dorsai.