L'uomo della Terza Fase (The Cloud Walker, 1973) di Edmund Cooper Schede libri

L’uomo della Terza Fase


Anteprima testo

L’uomo della Terza Fase (The Cloud Walker, 1973), di Edmund Cooper

PRESENTAZIONE

Edmund Cooper è un autore nuovo per i nostri lettori e relativamente poco conosciuto nel nostro paese. Nato nel 1926 in Inghilterra, Cooper è stato educato alla Grammar School di Manchester e, prima di diventare scrittore professionista, si è dedicato a svariate attività nel campo del commercio marittimo.

Cooper ha venduto il suo primo racconto di fantascienza nel 1951 (una storia intitolata «The Unicom») e in seguito ha scelto la carriera letteraria a tempo pieno, producendo opere e romanzi di vario genere, tra cui gialli, racconti per riviste femminili, e soprattutto fantascienza. Oggi, egli conta al suo attivo più di quindici romanzi di fantascienza, oltre a una serie di «space operas» pubblicata sotto lo pseudonimo di Richard Avery e composta di quattro romanzi: «The Deathworms of Kratos» (1975), «The Rings of Tantalus» (1975), «The War Games of Zelos» (1975), «The Venom of Argus» (1976).

Inoltre Cooper svolge regolarmente l’attività di recensore librario per il giornale inglese «Sunday Times».

I lettori italiani di SF hanno già incontrato Cooper in un bellissimo romanzo uscito in «Urania» e più volte ristampato (omini e Androidi) e in un altro notevole romanzo intitolato Equazione tempo, tuttavia a nostro avviso le due opere più riuscite di questo scrittore sono ancora inedite in Italia. Si tratta di The Cloud Walker (L’uomo della Terza Fase che presentiamo) uscito nel 1973 e candidato al Premio Hugo, e di Transit uscito nel 1964.

«Transit» narra la vicenda di quattro esseri umani (due uomini e due donne) che vengono prelevati da esseri superiori (divinità cosmiche?) dalla nostra Terra e trasportati su un pianeta alieno, in un ambiente difficile e ostile, dove dovranno affrontare una prova, o meglio un confronto con un altro gruppo simile di un’altra razza intelligente: dall’esito del confronto, dalla riuscita di questo esperimento su scala galattica, dipenderà il destino della razza umana e dell’altra razza oppositrice per quanto riguarda il controllo di una certa parte della galassia.

Lo spunto iniziale ricorda un po’ quello del celebre racconto di Frederic Brown «Arena», dove appunto un uomo e un alieno di forma sferoidale sono costretti a combattersi per dimostrare la propria superiorità e per far si che l’entità superiore che ha organizzato il confronto possa prendere una decisione sul futuro delle due razze, dato che la galassia è una sola e soltanto una delle due potrà governarla. Anche nel romanzo di Cooper, come nel famoso classico di Brown, sarà l’uomo a spuntarla, dopo lunghe e terribili difficoltà. Che sia la razza umana ad averla vinta non è, come può apparire a prima vista, una conclusione trita e scontata ma una decisa e convinta affermazione da parte dell’autore della sua fede nell’uomo e nelle sue capacità.

Questa fede nell’uomo e questa speranza che egli sia in grado di superare tutti gli ostacoli che oggi e in passato hanno attanagliato in una morsa ferrea le sue possibilità di spiccare il volo verso orizzonti superiori è una vera e propria costante dell’opera di Cooper, un autore che ci sembra davvero uno dei più coerenti e costanti dal punto di vista filosofico.

I suoi romanzi, partendo dai primi ad arrivare ai più recenti, mostrano infatti una particolare qualità che li accomuna e li contraddistingue dalla produzione corrente degli altri autori britannici e statunitensi. Prima di tutto, dicevamo di questa grande fiducia di Cooper nella razza umana, di questa sua enorme «lealtà verso la specie». Cooper – lo ha più volte ribadito egli stesso anche in aperte interviste – scrive soltanto di ciò che gli interessa, parla solo di quello che gli sta a cuore: non sforna insomma, come tanti suoi colleghi americani di oggi, romanzi a tutto spiano, di tutti i generi, del massimo disimpegno umano e sociale, soltanto per il gusto di far soldi. È uno scrittore con un senso della morale, con una propria filosofia che vuole estrinsecare nelle sue opere. Lungi da noi voler affermare con questo che i suoi romanzi sono trattati di filosofia morale. Tutt’altro: se ci sono oggigiorno opere sempre piacevoli da leggere nel mare magnum della produzione fantascientifica mondiale, queste sono proprio quelle di Edmund Cooper.

Cooper è pienamente conscio, dunque, della sua partecipazione all’organizzazione della vita sociale umana e della sua funzione nell’ambito della civiltà attuale, e cerca di offrire, per quello che gli è possibile, il suo aiuto e conforto. Per questo, anche nei suoi romanzi più pessimistici (come ad esempio «All’Fools Day» (1966), in cui un istinto di autodistruzione si impossessa di gran parte della razza umana) la storia si chiude sempre con il suggerimento di una speranza per il futuro dell’umanità.

In genere Cooper preferisce evitare le invasioni dallo spazio esterno di mostruosi alieni, o le altre strane forme di minaccia tanto care a molti autori di sf. Invece, i suoi temi prediletti sono i problemi creati dalle invenzioni stesse dell’uomo, i macchinari e la tecnologia, e quelli che nascono dalla tortuosità e dall’iniquità della mente umana.

Così in «The Uncertain Midnight» e in «The Overman Culture» (1971) il problema alla base sono gli androidi insidiosi e quasi umani.

L’uomo della Terza Fase (The Cloud Walker), tuttavia, riesce a esprimere, forse meglio degli altri romanzi, tutta la filosofia di Edmund Cooper. Oltre ad essere uno dei migliori romanzi prodotti dalla fantascienza negli ultimi anni (e ci stupisce che prima di noi nessun editore lo abbia scelto), questo libro riassume tutti i concetti del modo di pensare di questo autore.

Scritto in uno stile semplice e al tempo stesso raffinato, soffuso di una atmosfera di calore umano difficilmente riscontrabile in un’opera di sf, «The Cloud Walker» racconta la riscoperta della scienza in una Terra futura che ha visto l’olocausto atomico ed è tornata alla barbarie e a un clima di oppressione religiosa. Il protagonista, Kieron, figlio di un carpentiere, insegue, fin dalla più tenera infanzia, il sogno del volo nell’aria, il sogno della costruzione di una mongolfiera, che sta a simboleggiare l’ovvia riscoperta di un mondo scientifico le cui porte sono state blindate dalla cieca repressione della superstizione, operante qui sotto le spoglie della Chiesa Luddita. Kieron è dunque un eretico, un ribelle condannato dalla sua società e soggetto alla scure dell’odiosa oppressione: il suo destino pare segnato, e la disgrazia sembra accanirsi contro di lui ogni volta che egli tenta di liberare la mente umana dalle pesanti catene della superstizione, di condurre da solo il mondo aldilà della bigotta schiavitù imposta dalla Chiesa Luddita. Ma alla fine Kieron vincerà: a prezzo di incredibili sacrifici, avanzando sempre sospinto da una grande forza di volontà e dalla più convinta fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità mentali.

Ecco dunque ricomparire ancora una volta quella sostanziale fede di Cooper nell’uomo e nella sua capacità di risollevarsi anche dalle più gravi e pesanti condizioni, quella sua speranza nel futuro dell’umanità, quella sua basilare convinzione che l’intelligenza e il senso pratico che ci sono stati forniti dalla Natura sono più che sufficienti per farci superare tutte le difficoltà che il destino ci può porre sulla strada.

Senza addentrarci in lunghi parallelismi che potrebbero risultare noiosi, vorremmo infine far notare come quest’opera, così piena di empatia, così limpida, umana, lineare, ricordi un altro romanzo ambientato in un mondo post-olocausto e ritornato alla barbarie e alla superstizione di un nuovo oscuro Medio-Evo: quel celebre «Davy», di Edgar Pangborn (da noi ristampato nella Fantacollana), che è anch’esso un feroce atto d’accusa nei confronti della stupidità bigotta insita in alcuni uomini e nella loro insensibilità di fronte alle grandi possibilità della mente umana.

Sandro Pergameno

PRIMA PARTE
INCATENATO ALLA TERRA

I

A otto anni di età, Kieron veniva incoraggiato a trascorrere molto tempo in compagnia della sua sposa-promessa, Petrina. Più tardi, finita l’età dell’innocenza, non si sarebbe più consentito a Kieron e a Petrina di restar soli, insieme, fino a quando lui, raggiunta la maggiore età, non avesse concluso il suo apprendistato, e non fosse stato, perciò, in grado di assolvere i suoi obblighi contrattuali.

Kieron era apprendista da Hobart, il pittore. Gli era già concesso di pulire i pennelli, macinare i colori, ed aiutare a tendere le tele. Quando avesse compiuto dieci anni, sarebbe andato a vivere con Hobart, così da poter servire il suo maestro in ogni istante della giornata. Kieron aspettava con impazienza quel giorno, e allo stesso tempo lo temeva. Era ansioso di scoprire i segreti del dipingere, le leggi della prospettiva, dell’armonia e della corretta rappresentazione; ma, in realtà, non aspirava affatto a diventare un pittore. Lui voleva volare… volare nell’aria come un uccello. E questa era un’eresia.

Aveva abbastanza anni da capire cos’era un’eresia, ma era ancora troppo giovane per averne paura. Il «dominie» e il «neddy»{1}, che vegliavano sul corretto sviluppo della sua mente, avevano dedicato molto tempo a spiegargli la natura diabolica delle macchine illegali. Ma i loro sforzi congiunti, lungi dall’instillare in Kieron un giusto timore, avevano accresciuto sempre più il fascino che esse, segretamente, esercitavano su di lui. Già a cinque anni di età, Kieron sapeva che un giorno avrebbe dovuto costruire una macchina illegale per poter volare come un uccello.

Petrina era simpatica, quanto poteva esserlo una ragazza. Era figlia di Sholto, il fabbro. Poiché Kieron era lo sposo promesso di Petrina, gli era stato permesso di osservare Sholto che lavorava alla forgia. Ciò era un grande privilegio. Kieron ben sapeva che, un giorno, lui stesso avrebbe lavorato il metallo. Doveva essere in grado di lavorare il metallo per creare le parti essenziali di una macchina volante. Faceva molte domande a Sholto. Il fabbro, un uomo gigantesco e dall’animo gentile, che traeva un grande piacere dal proprio lavoro, non vedeva nessun rischio a parlarne con un ragazzino, che per di più era legato per contratto con sua figlia, e non la giudicava una violazione del giuramento di segretezza imposto dalla gilda dei fabbri. Ben presto Kieron s’impadroni di preziose informazioni sulla tempra dell’acciaio, la ribaditura dei bulloni, la forgiatura dei vomeri e delle picche, la lavorazione delle borchie e degli elmi.

— Ragazzo — l’ammoniva Sholto, con bonomia, — perché stai qui intorno a bighellonare? Ogni tuo pensiero dovrebb’essere dedicato al disegno e ai colori, non già a fucinar metalli. Su, vattene adesso, impara a stringer tra le dita, con mano ferma, un carboncino per disegnare, altrimenti mastro Hobart ti ammorbidirà a calci il deretano!

Kieron sapeva esser discreto. Era bravo a giudicare se il fabbro stava scherzando o parlava sul serio; e si guardava bene dal rivelare a chicchessia le sue crescenti conoscenze nel campo della metallurgia, in special modo a suo padre.

I giorni della fanciullezza sono lunghi e corti allo stesso tempo. Kieron si alzava col resto della famiglia alle prime luci dell’alba ed eseguiva meccanicamente, con gli altri, gli indispensabili compiti d’ogni mattina, prima che s’iniziasse il vero lavoro della giornata. Raccoglieva i trucioli e il legno di scarto tra i banchi di lavoro di suo padre, per accendervi il fuoco, mentre sua madre attingeva l’acqua al pozzo e metteva a bollire il Porridge; suo padre, intanto, usciva a cercare selvaggina, oppure ad abbattere un albero per mettere il tronco in magazzino a stagionare. Quando il disco del sole era sbucato fuori del tutto dall’orlo orientale del mondo, la famiglia si riuniva a far colazione. Porridge e pane non mancavano mai, e a volte c’erano lardo, o uova, o bacon, a seconda della buona disposizione delle galline, dei maiali e dei piccoli commerci.

Finita la colazione, Kieron, con una ventina d’altri ragazzetti, là tra le colline della Signoria, si recava nell’abitazione del dominie per un’ora di lezione. Dopo, la compagnia si disperdeva, ognuno si recava dal suo personale maestro per fare apprendistato fino a mezzogiorno.

Kieron era più fortunato della maggior parte dei suoi coetanei. Hobart viveva nella prosperità, godendo dei favori di Fitzalan, reggitore della Signoria di Arundel. Hobart svolgeva un’intensa attività di ritrattista, poiché Fitzalan di Arundel era un uomo vanitoso, con una moglie altrettanto vanitosa e tre figlie vanitose. Sperava ancora di avere un figlio maschio; ma le tre figlie, da sole, erano più che sufficienti per tenere Hobart costantemente occupato.

Hobart poteva permettersi di essere indulgente con Kieron, lasciando libero il ragazzo di pasticciare coi carboncini e la preziosa carta. Hobart non si era mai sposato. Ora, raggiunta l’opulenza, i capelli bianchi, e solo, vedeva in Kieron il figlio che avrebbe voluto generare, se ne avesse avuto il tempo. Così, il ragazzino veniva accontentato molto e rimproverato poco. Hobart aveva scoperto in Kieron un gran talento per le linee, le forme, ma non ancora il senso del colore. Be’, forse a suo tempo anche questo sarebbe venuto… A Hobart piaceva immaginarsi il giorno in cui i suoi quadri e quelli di Kieron sarebbero stati appesi fianco a fianco nella grande sala del castello, a raccogliere la polvere e la dignità dei secoli…

I giorni della fanciullezza sono lunghi e corti allo stesso tempo. Al pomeriggio, quando Kieron aveva soddisfatto i suoi doveri verso mastro Hobart, il tempo era tutto suo. Una simile libertà era un lusso, e l’avrebbe perduta quando avrebbe compiuto dieci anni e sarebbe diventato un apprendista completo. Kieron si rendeva ben conto che, a partire da quel giorno, la libertà di fare ciò che più gli piaceva sarebbe finita per sempre. A meno che non fosse riuscito a cambiare il destino che gli era stato scelto. Era giovane abbastanza per credere che ciò fosse possibile, e vecchio a sufficienza per rendersi conto che avrebbe dovuto sfidare tradizioni radicate, quasi sacre. Nei pomeriggi d’estate andava con Petrina tra i boschi delle colline, quei crinali che s’innalzavano, quasi come una barriera eretta dall’uomo, a dieci o dodici chilometri dal mare. Lassù, in quei territori che appartenevano ai caprioli, ai fagiani e ai conigli, costruivano mondi immaginari.

Petrina era una ragazza vivace e nervosa, dai grandi occhi e i capelli del color giallo fumoso del grano troppo maturo. Un giorno Kieron sarebbe stato suo marito, il padre dei suoi figli. Perciò Petrina era decisa a conoscerlo bene a fondo. Sapeva che Kieron aveva un’ambizione segreta, ma non aveva alcuna…


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