Chiunque iniziasse la visione de L’uomo venuto dall’impossibile (Time after time, 1979) avrebbe senza dubbio l’impressione di trovarsi di fronte a una terza versione del famoso romanzo di H.G. WELLS La macchina del tempo (The time machine, 1895), portata sugli schermi nel 1960 da George Pal e nel 2002 dal pronipote dello scrittore, Simon Wells.
Il film, infatti (a parte i cinque minuti iniziali su cui ritorneremo a breve), comincia con la solita scena in cui il viaggiatore del tempo (un insolito MALCOLM MCDOWELL) annuncia a un ristretto gruppo di amici l’invenzione della famosa macchina e il suo progetto di visitare il futuro, nel quale nutre grandi, se non utopistiche, speranze.
Ma quasi subito gli eventi prendono una direzione completamente diversa da quella ampiamente conosciuta: la polizia bussa alla porta dello scienziato (che in questo film è lo stesso Wells) in cerca di Jack lo squartatore, che ha da poco compiuto un nuovo omicidio in quello stesso quartiere. Nei cinque minuti iniziali, infatti, era stato mostrato allo spettatore, in soggettiva, l’omicidio in questione, pur senza rivelare l’identità di chi lo stava commettendo. Questa, comunque, viene subito svelata dai poliziotti giunti in casa di Wells: nella borsa di uno dei suoi ospiti, lo stimato chirurgo John Stevenson (un inquietante DAVID WARNER), vengono trovati indumenti sporchi di sangue. La caccia all’uomo, che ha subito inizio, sembra destinata a una rapida conclusione.
Invece, tra la sorpresa generale (anche se lo spettatore ha già capito come andrà a finire), Stevenson non viene rintracciato, nonostante porte e finestre siano strettamente sorvegliate: sarà solo dopo che tutti, polizia e ospiti, se ne saranno andati, che Wells, recatosi in cantina, noterà la scomparsa della macchina del tempo. Lo “squartatore” è dunque fuggito per sempre? No, perché lo scienziato, avendo previsto un’eventualità del genere (rimanere bloccato in un’epoca per colpa di qualcuno che si fosse impadronito della macchina) ha munito la sua invenzione di un dispositivo di sicurezza: una chiavetta senza la quale la macchina torna automaticamente all’epoca di partenza. Dopo una lunga attesa (la sua “velocità” è di “due anni per minuto”) questa ricompare: il “segnatempo”, rimasto bloccato sulla destinazione, indica il novembre 1979. Convinto di essere responsabile, sebbene indirettamente, della fuga di un pericoloso assassino, Wells raccoglie denaro e gioielli (anche quelli della sua governante!) e segue Stevenson nel futuro. Verrà catapultato a San Francisco, poiché è lì che la sua macchina si troverà, nel 1979, all’interno di un museo che ospita una mostra dedicata proprio a lui e alle sue opere.
Dopo lo smarrimento iniziale, e tra lo stupore di visitatori e guardiani che non capiscono come abbia fatto lo strampalato individuo a superare i cordoni che limitano l’accesso alla macchina (che tutti credono un prototipo non funzionante), Wells esce dal museo e inizia a girare per San Francisco, stupendosi di tutto ciò che vede e prendendo appunti con diligenza: tra le novità che più lo colpiscono ci sono i fast-food, col loro assortimento di cibi strani e clienti dai modi spicci. Ma ben presto lo scienziato si trova ad affrontare i problemi derivanti dalla mancanza di soldi e documenti: le banconote che ha con sé valgono pochi dollari, mentre i gioielli sono troppo preziosi e suscitano i sospetti dei gioiellieri ai quali vengono offerti. Dopo aver passato la notte su una panchina, Wells deve svenderli a un decimo del loro valore. I suoi giri per le banche di San Francisco, tuttavia, gli fanno intuire che anche Stevenson deve esservisi recato: dopo lunghe ricerche, finisce per scoprire che il suo “compagno di viaggio” ha cambiato i propri soldi nella Banca di Londra. L’impiegata addetta al cambio (una deliziosa MARY STEENBURGEN) gli indica l’albergo dove alloggia il pericoloso individuo, albergo che lei stessa gli aveva consigliato.
Wells, un po’ troppo ottimista, vi si reca immediatamente. Una volta trovato Stevenson, cerca di convincerlo a tornare indietro con lui, “per affrontare le conseguenze delle sue azioni”, ma questi lo irride, mostrandogli in televisione come la violenza di quel mondo sia diventata “superiore alla sua” e come lui, lo “squartatore”, lì si “senta a casa”. Lo scienziato ne rimane sconvolto, e Stevenson ne approfitta per aggredirlo, cercando d’impossessarsi della chiave che impedisce alla macchina del tempo di tornare indietro: solo l’intervento di una cameriera consente all’ingenuo Wells di cavarsela.
Inseguito a piedi dallo scienziato, lo squartatore fugge per le strade di San Francisco finché non viene investito da un’auto. All’ospedale, un’infermiera non molto cortese riferisce a Wells che un paziente registrato come “John Doe” (il nome usato in America per una persona di cui non si conosce l’identità) è morto per le lesioni interne riportate in un incidente; dalla descrizione sembra proprio Stevenson. Sarà davvero lui?
Convinto che lo sia, il nostro eroe decide di “svagarsi” un po’, e torna da Amy (l’impiegata della banca conosciuta in precedenza), la quale da subito, colpita dai suoi modi di fare antiquati ma gentili, si era messa a flirtare con lui. Da cosa nasce cosa: una colazione, un giro per San Francisco (durante il quale Wells cerca invano di dissimulare la propria ignoranza della storia recente), poi in un parco e infine a casa di Amy per la cena… il resto lo si può facilmente immaginare.
Sfortunatamente, non era Stevenson il “John Doe” morto all’ospedale: mentre Amy è impegnata a “violentare” Wells – tra lo stupore di costui che, benché sostenitore del libero amore, proviene pur sempre dalla Londra vittoriana – lo “squartatore” torna a colpire.
Preoccupato della piega che stanno prendendo gli avvenimenti, lo scienziato rivela alla ragazza una mezza verità, sostenendo di essere stato inviato da Scotland Yard sulle tracce dell’assassino. Solo dopo che Stevenson, intuito il ruolo avuto da Amy, comincia a minacciare anche lei, Wells si reca finalmente alla polizia per raccontare la sua storia. Come prevedibile non viene creduto, tanto più che, non volendo rivelare il suo vero nome, afferma di chiamarsi… Sherlock Holmes!
La stessa Amy resta dubbiosa, e neanche una visita al museo, dove pure sono esposte alcune fotografie di Wells, riesce a convincerla del tutto. Solo un viaggetto sulla macchina del tempo e la lettura di un giornale di tre giorni dopo le consentono di superare le ultime diffidenze. Tanto più che sul giornale in questione è riportata una notizia agghiacciante, e di certo non inventata sul momento: la morte della stessa Amy per mano dello “squartatore”!
A questo punto la storia scivola nei classici cliché dei thriller all’americana: i due protagonisti, invece di darsela a gambe in un’altra epoca (cosa che, a dire il vero, Amy consiglia) o di avvertire anonimamente la polizia, decidono di occuparsi personalmente della cattura dell’assassino; il giornale, infatti, riporta la notizia di un altro omicidio, precedente a quello di Amy, e Wells spera di poter sorprendere Stevenson poco prima che lo commetta. Come sempre in questi casi, tutto va storto e il paradosso temporale non si verifica: complice una foratura in un luogo isolato (e la scarsa dimestichezza dello scienziato coi telefoni) i due arrivano sul luogo del delitto troppo tardi, e possono solo assistere al ritrovamento del cadavere da parte della polizia.
Non avendo ancora imparato la lezione, Wells ed Amy persistono in altri errori: invece di lasciare subito l’abitazione della ragazza (dove sanno che verrà uccisa), si attardano a fare progetti su come evitare l’inevitabile. Mentre Wells, sempre più agitato, esce per comprare una pistola, Amy prende dei sonniferi per vincere il terrore che le impedisce di dormire a dispetto della notte passata in bianco. Il risultato di tante sciocchezze è disastroso: lo scienziato, sospettato di essere lui stesso lo “squartatore”, viene arrestato e, a causa dell’arma trovatagli addosso, finisce in isolamento senza poter neanche avvertire la ragazza; questa, dal canto suo, dorme sino all’ora fatale, quando Stevenson, infuriato per non avere ancora recuperato la famosa chiave, entra in casa sua…
Sembra proprio che in questo film non ci sia posto per i paradossi: quando il povero Wells, dopo ore di interrogatorio, convince la polizia a mandare degli agenti a casa di Amy, è troppo tardi. Della ragazza non resta che un cadavere orrendamente sfigurato e mutilato. Rilasciato con tante scuse, lo scienziato, distrutto, vaga senza meta in un parco; ma all’improvviso gli si para davanti Stevenson, che tiene Amy in ostaggio: ad essere uccisa al posto della ragazza era stata una sua amica, invitata a cena qualche giorno prima e scambiata per lei dalla polizia (il giornale, quindi, riportava una notizia parzialmente falsa e destinata ad essere smentita, come nel famoso film Accadde domani). Lo “squartatore”, una volta soddisfatta la sua sete di sangue, aveva deciso di tenere in ostaggio Amy, sperando così di farsi consegnare da Wells la famosa chiave.
Questi cede al ricatto, ma Stevenson conduce Amy con sé al museo, insensibile alle suppliche di Wells e risoluto a ucciderla prima di fuggire nuovamente nel futuro.
In un convulso finale, la ragazza riesce a liberarsi e lo “squartatore” viene spedito, senza la macchina, in un lontano futuro, dove “il male non esiste”. Questo grazie a un altro, stavolta improbabile, dispositivo di sicurezza che sembra studiato su misura per arrivare a una felice conclusione. E questa non potrebbe essere migliore: Amy, ormai follemente innamorata dello scienziato, decide, in barba alle sue convinzioni femministe, di seguirlo nel viaggio di ritorno. E, come ci conferma la didascalia finale, una certa Amy Robbins ha davvero sposato Herbert George Wells nel 1895! Grazie al fatto che ben pochi conoscono il nome della moglie dello scrittore, il regista, abilmente, ci gioca sopra fino all’ultima scena.
Ma chi è il regista? Si tratta del famoso scrittore NICHOLAS MEYER, autore de La soluzione sette per cento, senza dubbio il romanzo più famoso tra quelli dedicati a Sherlock Holmes dopo l’epoca di Conan Doyle. Meyer, nato a New York nel 1945, è anche famoso per essersi occupato, come regista o sceneggiatore, di alcuni tra i migliori film della serie di Star Trek (e precisamente il secondo, il quarto e il sesto), e la sua mano rigorosa, poco incline alla spettacolarità gratuita, è chiaramente visibile in Time after time, forse il miglior film di fantascienza dedicato al tema del viaggio nel tempo. Praticamente privo di contraddizioni, abilissimo nello sfuggire al problema dei paradossi e nel giocare con la suspence senza tuttavia indulgere nelle scene d’azione, il film scorre dalla prima all’ultima scena senza cedimenti o compromessi; e anche se certi cliché, come già si è osservato, sono sempre presenti, si tratta di ben poca cosa rispetto alle assurdità e alle ridicolaggini di film più recenti e, purtroppo, più osannati.
D’altra parte, evitare i paradossi non significa evitare le domande che prima o poi finiscono per farsi gli spettatori: molti di loro potrebbero trovare quanto mai strano il comportamento dello scienziato che, invece di usare la macchina del tempo per anticipare le mosse del suo avversario, se ne dimentica per tutto il film e preferisce invece emulare Sherlock Holmes pur non essendone affatto capace. Né mancano, fatalmente, contesti e battute scontate, in genere legate all’imbarazzo di Wells di fronte a situazioni e oggetti strani e misteriosi dal suo punto di vista: automobili, televisori, aerei, sette come gli Hare Krishna o “ristoranti” come McDonald sono facilmente, e prevedibilmente, presi di mira. Per fortuna non mancano neanche battute folgoranti e situazioni originali, come nella scena in cui Stevenson illustra a Wells la violenza del nostro mondo: sullo schermo del televisore, accanto a immagini prevedibili (guerre, manifestazioni represse nel sangue, terrorismo) appaiono quelle di un concerto rock e di un cartoon della Warner Brothers. O come nella scena in cui Amy seduce il riluttante Wells che, fino all’ultimo, cerca di mantenere un atteggiamento da “gentiluomo” pur mostrandosi compiaciuto di quanto sta accadendo.
Discreta la prova degli attori, su tutti un McDowell pienamente a suo agio in un ruolo di eroe positivo, forse il più importante tra i pochi che gli è riuscito di interpretare. Un po’ svagata Mary Steenburgen, che durante le riprese del film si innamorerà veramente di McDowell, mentre David Warner riesce molto convincente nella sua interpretazione dello “squartatore”, personaggio sinistro ma raffinato al tempo stesso.
Nominato per l’Hugo (nel 1980), e vincitore di ben tre Saturn (gli Oscar della fantascienza), Time after time, pur senza essere un capolavoro assoluto nel suo genere, è comunque una pietra miliare per chiunque s’interessi ai viaggi del tempo. È effettivamente il migliore tra i film che trattano questo tema? Difficile rispondere. Solo Ritorno al futuro potrebbe essergli superiore, mentre rimangono molto al di sotto film abbastanza famosi come Philadelphia Experiment o Time bandits. Certo, i film che affrontano questo tema senza divagare troppo (cosa che si verifica, ad esempio, nei due “Time Machine” oppure in Terminator) sono ben pochi: a Nicholas Meyer va dato il merito di averci provato, e con risultati, una volta tanto, di prim’ordine. Ma erano altri tempi, quelli: gli anni di Star Wars, di “Close encounters”, del primo Star Trek… bei tempi!