Jude Law ne Il Nemico alle Porte

Meno Quaranta Gradi

Ogni mestiere ha la sua regola aurea. La mia è: mimetizzati dieci volte, ma spara una volta sola.

Odio questo freddo. Ti scivola dentro piano, in silenzio, subdolo verme che ti congela sino all’anima drenandoti le energie. Non c’è difesa se non olio e uno straccio di coperta di lana recuperata in quella che una volta era stata la stanza da letto di un bimbo.

Grigio e bianco, questi i colori del panorama di macerie in cui io e il mio compagno cacciamo. Lui si chiama Hans, io ho un nome che sembra uno scioglilingua per cui sono semplicemente Kurz, corto.

Siamo usciti dal rifugio che un sole anemico era appena spuntato dietro il mozzicone di muro della fabbrica di trattori. In bocca il sapore gelido e amaro del rancio mattutino.

Camminiamo bassi, rasentando i ruderi, sfruttando il minimo anfratto per prendere fiato e controllare intorno. La nostra è una caccia in cui i ruoli s’invertono in un attimo: se non stai attento, sei morto.

Passiamo accanto al relitto bruciacchiato di uno StuG III. Dal portello della casamatta penzola la sagoma contorta di un pupazzo di neve, gli occhi azzurri gelati sul nulla.

Ci spostiamo ancora, seguendo una pista che si snoda tra mucchi di macerie e strane sculture di ghiaccio. La zona sembra vergine e priva di segni di vita: la postazione ideale.

Hans scova una sorta di tana tra le travi e le tegole di un tetto crollato. Strisciamo a fatica nel pertugio. Il telo mimetico ci nasconde. Nessuno può vederci o immaginare che lì sotto ci sia qualcuno in agguato.

Steso immobile accanto al mio compagno, ripenso ai giorni lontani dell’addestramento, a quando l’unica preoccupazione erano le sfuriate dell’Unterfeldwebel Schneider e l’acqua fresca una benedizione dopo ore trascorse a scaldarsi sotto il sole.

Sento Hans irrigidirsi. Seguo la direzione del suo sguardo. Dapprima non scorgo nulla, poi il biancore di un cappuccio bordato di pelliccia compare da dietro un angolo. È un attimo ma basta per caricarmi.

Ora si tratta soltanto di aspettare. Che cosa farà la preda? Tenterà di superare quel tratto scoperto di una ventina di passi oppure cercherà una via più sicura?

Le dita del mio compagno mi stringono, dandomi calma e conforto.

Ecco, ci siamo. Nella mia iride trasparente appare una figura ingrandita che spicca la corsa per attraversare la strada.

L’indice di Hans ha una contrazione sulla mia parte più sensibile. Il tocco delicato di un amante, eppure basta per sganciare il percussore. La molla scarica tutta la sua forza compressa. Sparo.

A seicento metri di distanza il bersaglio si blocca sul posto. Lo vedo ondeggiare poi crollare in avanti sulla neve ghiacciata.

La mano di Hans mi gratifica con una carezza, quindi tira indietro l’otturatore, espelle il bossolo fumante e inserisce una nuova cartuccia dentro il mio stomaco.

Tra cinque minuti ci sposteremo: mai restare fermi nel medesimo luogo. Nel frattempo il mio compagno segna sul taccuino che con il suo Mauser Karabiner 98kurz Zf 41 ha ucciso la sua trecento decima vittima.

“Il mio fucile è umano, come me, poiché è la mia vita.”
William H. Rupertus,
‘My Rifle: The Creed of a US Marine’