Si presentò una mattina con quell’aria da prestigiatore stanco, pallido in mezzo alla piazza grigia; dalla bocca estraeva piccoli mammiferi color cobalto che esplodevano in uno sbuffo di peli sottili come fumo quando toccavano il palmo delle sue mani. Ansimava da far pena per lo sforzo di trainare il carretto fino alla città alta attraverso la chiocciola delle strade, curvato sotto il peso degli anni e delle bottiglie che portava appese al collo con corde di canapa. Il clangore di vetri che aveva accompagnato la sua lenta ascesa alla rocca, e gli animali turchese che continuavano a disfarsi in polvere davanti al suo viso colmo di sudore… volevano servire a mendicare la nostra attenzione; non appena seppe di averla catturata, fu un unico gesto ricomporsi e spalancare le ante del carro straripante di bottiglie che tintinnavano al tocco delle sue dita.
«Signore e signori» gridò in un crescendo insospettabile, sollevandosi ritto, i vestiti che splendevano sotto il cielo carico di nubi. Afferrò un paio di bocce opache e le agitò sopra la testa.
«Le opere più grandi di Dio: il sole, il mare…» Grace… «Cento dei cieli del Vecchio Mondo. Per un soldo soltanto, i cieli che non esistono più. L’aria pura dei ghiacci sotto i bagliori fantasma delle aurore polari, così rada da farti annaspare. Guardate, guardate come dopo tanti anni appanna ancora il vetro…» non è vero, non è vero, è il respiro di Grace… «Se la respiri ti riempirà il petto di quelle luci gelide.»
Parlava come si parla nei sogni: perdendo frasi, liberandole a caso nell’aria come bolle; per ognuna che pronunciava, un’altra gli rimaneva sulle labbra.
«L’atmosfera abbacinante del Mediterraneo, l’odore salato e polveroso dei suoi moli. L’afflato soffocante della giungla, con i suoi fiori carnosi e ovunque l’angoscia dell’alito di belve in agguato.»
E l’aria di Grace. La raccolsi tra le sue cosce, in mezzo ai suoi seni caldi, presi l’aria dei suoi baci, l’aria dei suoi occhi ardenti, l’aria crepitante dei suoi gemiti, dei suoi sorrisi che risplendevano al buio. La raccolsi tutta, attorno al suo corpo che non riusciva mai a stare fermo, fino a che non si sentì soffocare e mi strinse affannata per succhiare in prestito l’aria dei miei polmoni. Grace… la sua pelle vorace d’amore respirava più di quanto non facesse la mia bocca.
La gente non faceva caso ai silenzi tra le sue parole. Si avvicinava affascinata dal rimestare di bottiglie, incuriosita dal loro contenuto invisibile, mentre il vecchio lanciava rapide occhiate al palazzo, ai profili dietro le tende delle stanze illuminate.
«In qualche città ruppi una fiasca con l’aria calda della Martinica» raccontava intanto, come recitando un ricordo imparato a memoria. «Per ore tutti socchiudemmo gli occhi sotto quel sole enorme, sul mare dorato, convinti di trovarci sopravento ai Caraibi. Quando l’illusione si disperse, i nostri corpi avevano prodotto la melanina che credevano di necessitare.»
Risate scettiche ma anche meravigliate, cui oppose lo spiegarsi di tele enormi, espulse dai cassetti del carro come da molle nascoste.
«E stoffe che non potete nemmeno immaginare. Guardate i colori…» diceva palpando un lino che pareva ribollire di luci di mille tonalità, poi un drappo candido come i suoi vestiti.
«Sentite la consistenza di questi tessuti. Fremono, si muovono incessantemente…» come la pelle di Grace… «Pulsano senza sosta, intessuti con vere farfalle vive» e intanto si scioglieva un filo attorno alle tasche perché un pugno di piccole farfalle bianche si levasse dai pantaloni, spargendosi sopra le teste incantate dei presenti.
«E infine» annunciò nel silenzio fitto di persone «il mio articolo più prezioso…»
Arrivò a mostrarlo al Governatore in persona e alla sua corte, nella sala grande del palazzo, esibendo le stesse giare di metallo scuro, con lo stesso scatto della serratura e il bagliore immenso che ne era scaturito quando ne aveva aperta una e la luce calda, naturale, aveva inondato per un interminabile istante la penombra fiacca della piazza.
«La luce del nostro sole, che ancora splende sopra le nuvole che hanno sepolto il Nuovo Mondo!»
La stessa esplosione di luce viva investì la sala, più forte delle lampadine, e il Governatore strinse i braccioli del sedile, alzandosi in piedi, gli occhi semichiusi contro il calore magnifico e dimenticato del sole.
«Come può essere…» mormorò, mentre gli ultimi riverberi si rincorrevano sui soffitti.
«Specchi, mio Signore» rispose il vecchio.
Gli stessi specchi che hanno riflettuto Grace, mio Signore. Grace al mattino, assonnata; Grace la sera; il viso splendente di Grace a tutte le ore. Che sia sua la luce che rilasciano ora questi specchi?
«Specchi vecchi di tanti anni da ricordare il vero riflesso delle cose illuminate dal giorno.»
E se è la luce di Grace, la riconosci, mio Signore?
«Ti pagherò quelle anfore a peso d’oro» esclamò il Governatore.
«E a cosa ti servirà il mio sole in bottiglia?» replicò il mercante. «Usalo per i ranuncoli. Crescono smunti sotto la luce delle lampade. Il ranuncolo rosso era il suo fiore.»
Un’ombra passò rapida sul volto del Signore.
«Mi piacerebbe vedere il letto dove la tua Signora ha consumato i suoi respiri. Le lenzuola che ha stropicciato con il suo corpo senza pace. Non riusciva mai a smettere di muoversi, vero? Sono sicuro che se scoperchiassi la sua tomba la troveresti bocconi, scomposta come dormiva da ragazza.»
«Come osi!» proruppe il Governatore.
Il vecchio si mosse lento verso lo scranno, le bottiglie al collo che sbatacchiavano come campane. Le guardie accorsero, ma il Signore le trattenne con un cenno.
«Uno potrebbe dire che è questo il Nuovo Mondo terribile, senza pietà per gli uomini» continuò il mercante. «Ma io ricordo la crudeltà di quei giorni azzurri, prima delle nuvole. Aveva il tuo volto allora giovane, i tuoi lineamenti da rapace. Ricordo quando Grace s’inerpicò come una lucertola sul tuo cavallo, quando trascinasti il suo dibattersi da rettile sulla sella del tuo frisone scuro come il mare di notte e le spalancasti le braccia e il petto nudo, la schiena premuta contro l’immenso collo dell’animale, l’arco delle sue vertebre costretto ad aderire alla criniera folta e stopposa, che le fregava la pelle, mentre i tuoi uomini da terra le stringevano i polsi.»
Il silenzio cadde sulla corte, allineata lungo le pareti come per allontanarsi dall’inevitabile furia del Governatore.
«Smise anche di gridare, quando fu troppo esausta per farlo, rovesciò la testa tra le orecchie della bestia e continuò a piangere in silenzio, le lacrime che scivolavano dai suoi occhi fino a quelli del cavallo, come se a piangere fosse lui; gli occhi di Grace, quel giorno, stanchi di frugare l’erba alta alla ricerca del mio corpo ucciso a bastonate.»
Il Signore estrasse la pistola, puntandola contro la sua avanzata che sembrava non finire mai.
«Grace? I tuoi ricordi sono finti, vecchio. La mia Signora si chiamava Elena. Stai sprecando le tue accuse.»
Alzò la voce, perché tutta la sala potesse sentirlo:
«È uno di quei simbionti, quegli uomini parassitati del Nuovo Mondo, ne sono certo. Vagano per le città-stato con memorie fasulle. Credono di ricordare il Vecchio Mondo, mentre sono solo i mostri del Mondo Nuovo.»
Sollevò la canna all’altezza del viso emaciato del vecchio mercante, delle sue guance ispide.
«Mi ucciderai davvero?» rise lui, a un passo dall’arma spianata. «E se era Grace? Se scopriranno che era Grace, cosa ne sarà di te? Agli occhi della tua corte avrai ucciso due volte me, ma lei una per ogni giorno che hai passato al suo fianco.»
«E se invece era Elena? Per quale inutile scopo sarai morto se lei era Elena?»
«Per sentire la tua voce rotta dal panico, dopo tutti questi anni. Finalmente ho qui nel cuore qualcosa che…»
Il Signore non indugiò oltre. Un fiore scarlatto sbocciò tra gli occhi del vecchio, scagliandolo all’indietro, contro il pavimento. Le bottiglie di vetro che portava legate al collo si infransero in un inferno di cocci, mentre il volo spaventato di migliaia di farfalle bianche si districava dai suoi vestiti e riempiva ogni cosa, lasciandolo nudo sul marmo.
«Avete sentito?» gridava il Governatore sopra la confusione. «Apritegli il petto e vedrete! Quei mostri possono riempirsi le cavità del cuore di aghi e farli entrare in circolo a piacimento. Se li fanno scorrere nelle arterie, lungo le braccia, dentro i capillari delle dita, fino a farli riemergere dai polpastrelli per uccidere con il tocco.»
Ma il profumo delle bottiglie rotte aveva già invaso ogni cosa, diffuso dai battiti delle farfalle impazzite: l’odore di Grace stravolta d’amore, l’atmosfera scaldata dal suo corpo rovente, un aroma tanto intenso da consumare l’aria nei polmoni. E mentre i presenti cadevano, boccheggiando, non riuscivano a vedere altro che Grace che si contorceva nuda tra le coperte, fluorescente nella notte, Grace con la sua pelle irrequieta, con i suoi occhi, i suoi gemiti, i suoi sorrisi che risplendevano al buio…
Il Governatore avvampò e si diresse con una smorfia orribile verso le sue stanze, proprio mentre il medico esaminava il cadavere premendosi una pezza contro il viso.
«Mio Signore, il suo cuore è vuoto. Voglio dire, pieno di sangue secco e null’altro. Era già morto, ma era un uomo.»
Il Signore, di spalle, aspirò forte col naso e proseguì fuori dalla sala, senza voltarsi.
Fui io a trovarlo, la mattina seguente. Io che curo i giardini macilenti del palazzo sotto il ronzare delle lampade e mi occupo del cimitero privato, ma non dei fiori, non posso toccare i fiori sulla tomba della Signora, dove una nuvola di ranuncoli pallidi copre costantemente l’enorme lapide. Quel giorno sembravano più rossi, schizzati del sangue del Signore precipitato dall’alto della torre; e com’erano fitti! Me ne accorsi mentre li spostavo, mi azzardavo a scoprire l’epitaffio e il suo nome: Elena. La sua foto giovane, meravigliosa, con un sorriso strano, a guardarla ora, e gli occhi un po’ malinconici e il suo nome in chiare lettere d’oro puro. Elena. Il suo nome vero scritto con leggere volute d’oro chiaro. Elena. Elena Grace.