Metro 2033
Il ventenne Artyom non ha mai visto una foresta, un lago, una montagna, se non in fotografia: l’orizzonte del suo sguardo coincide con i ben miseri confini di una stazione della metropolitana di Mosca, la VDNKh (centro fiere), dalla quale non si è mai allontanato. Il mondo in cui vive è buio, claustrofobico e mortalmente pericoloso. Ed è un mondo con poche speranze e molte paure.
Artyom non ha che vaghi ricordi di quel che era la vita fuori della metropolitana, prima che la guerra nucleare distruggesse ogni cosa; una volta è risalito in superficie, una sola volta, di notte, poiché la luce del sole, dopo gli anni passati nell’oscurità dei sotterranei, lo avrebbe accecato. E ha visto il cielo stellato: un breve momento di pura estasi. Poi il terrore, la fuga. E una terribile, inconfessabile colpa.
Alla speranza di quel breve viaggio si è sostituito il quotidiano incubo: il mondo di superficie non appartiene più all’uomo ma a mostruosità indescrivibili, e il rifugio offerto dalla metropolitana diviene di momento in momento più instabile. Forse la sua stazione riuscirà a creare una salda alleanza con le stazioni vicine, ma in tutti coloro che vivono nella VDNKh è ferma la convinzione che non vi saranno mai cartucce sufficienti né abbastanza uomini per respingere anche gli attacchi di ciò che proviene dall’esterno, dal loro vecchio mondo.
Umanoidi dalla pelle nera, i Tetri, sciamano a ondate verso la VDNKh: non sembrano patire dolore né partecipare di alcuno dei sentimenti umani. Vengono trafitti da centinaia di colpi, a decine i loro compagni cadono a terra per non più rialzarsi. Eppure continuano ad avanzare finché in piedi non ne rimane alcuno. Nessuno riesce a sopportare la loro vista: la mente vacilla, ogni determinazione viene cancellata, ogni equilibrio distrutto. E non si può fuggire perché, se la VDNKh cede, i Tetri dilagheranno nel resto della metropolitana. La VDNKh ha bisogno di aiuto. E la missione di cercarlo verrà affidata proprio ad Artyom.
Commento
Metro 2033 è un romanzo nato dall’apporto di più autori: Dmitry Glukhovsky ovviamente, al quale si deve l’impianto principale e la revisione d’insieme, ma anche tutti coloro che hanno veduto pubblicata on-line la prima stesura e hanno potuto aggiungere e modificare scene, episodi e situazioni. La genesi dell’opera ha non poco influito sullo sviluppo della trama che, così, a tratti si presenta eccessivamente piana, ripetitiva, apparentemente priva di sbocchi interessanti, come pure, in altri passi, complessa, affascinante, convincente.
A non mancare quasi mai è la giusta atmosfera: claustrofobica, chiusa, opprimente e tale da rendere dolorosamente e crudelmente credibile il mondo creato da Glukhovsky, una distopia allucinata e cacofonica dell’attuale società russa, straziata da notevoli contraddizioni interne.
In effetti, nel mondo postatomico sotterraneo, l’umanità mortalmente ferita non ha saputo che ricreare, in scala necessariamente ridotta, le medesime illogiche incomprensioni, cieche illusioni, stolte paure e fanatiche certezze che l’hanno sempre contraddistinta e che ne hanno cagionato la rovina. A tal riguardo, nel romanzo nulla si dice in merito all’origine del conflitto, agli schieramenti in campo, alle ragioni dell’una o dell’altra parte, risultando ovvio, dalle nefande conseguenze di una guerra di siffatta entità, che non vi può essere alcun credo o propugnato valore che ne possa in una qualsiasi misura, anche minima, dare giustificazione.
Eppure, nonostante le sue mortali debolezze, la razza umana continua a sopravvivere: non ha più il sole, non ha più l’aria aperta, ma ancora non si dà per vinta. Di gallerie fatiscenti ha fatto campi per la “coltivazione” dei funghi; delle piattaforme delle stazioni ha fatto le proprie case; di quelli che un tempo avrebbe chiamato rifiuti ha fatto ora merce di scambio. Poiché la mente dell’uomo è formidabile, così piena di risorse… e di terribili lati oscuri.
Così, nel sottosuolo è nata l’Hansa, una lega di stazioni che – ad imitazione della Lega Anseatica del XII secolo – ha fatto del commercio la sua fonte prima di ricchezza; e così è sorta la Polis, un luogo per molti quasi leggendario (composto per il vero da quattro diverse stazioni), dove si curano in pari misura arte e forza militare, come accadeva nelle antiche città greche. Ma è pure sorto il cosiddetto Quarto Reich, dominato dal totale disprezzo per il diverso, e si è combattuta l’ennesima guerra ideologica, provocata dai nostalgici del Comunismo (chiamati “i Rossi”).
Di questo mondo spietato che un tempo si poteva percorrere in poche ore, Glukhovsky indica subito, significativamente all’inizio, i nuovi confini, non solo quelli meramente spaziali. Artyom non difende uno stato di migliaia di persone e non controlla una frontiera misurabile in chilometri: il confine del mondo che ha sempre conosciuto è il confine di una stazione, quello della VDNKh. Poche centinaia di metri. Al buio. Una piccola città-stato che non può contare su nessuna reale risorsa. Si produce solo un tè derivato da funghi essiccati, che tutti, una volta abituati al sapore, trovano squisito; niente di più.
Di fronte alla miserevolezza del dominio umano, ecco sull’altro lato l’infinità e indeterminabilità del tempo, che ha perduto l’alternanza di giorno e notte; l’insondabilità di ciò che si nasconde nelle profondità della terra, sotto la linea della metropolitana; la malvagità infinita di ciò che è alieno e non si può comprendere.
L’uomo è circondato, oppresso, schiacciato da tutti gli incubi che non ha mai in realtà saputo affrontare, ma che si è illuso di aver addirittura battuto. E, nonostante questo, rimane incapace di creare un fronte comune: coloro che abitano le stazioni esterne, le più vulnerabili a ciò che ha scacciato l’uomo dalla superficie, normalmente non ricevono aiuti dalle altre città. Al più possono contare sul calcolo opportunistico dei vicini, che non li attaccheranno solo finché li giudicheranno utili alla difesa dei loro interessi. Se un giorno la minaccia delle forze del mondo di superficie divenisse insostenibile, i vicini non esiterebbero a far saltare i tunnel di collegamento, condannando i difensori all’isolamento e alla morte certa. Come già è successo in passato.
In questo mondo d’incubo, che non pochi considerano letteralmente alle porte dell’Inferno, inizia il viaggio di Artyom, perseguitato dal suo senso di colpa e dal terrore ingenerato dai Tetri.
Incontrerà numerosi e strani personaggi, taluni inquietanti, altri sorprendentemente ironici. Molti scompariranno all’improvviso dalla scena così come vi erano entrati; altri troveranno una fine dolorosa. Tutti saranno fonte di notevole riflessione da parte di Artyom, sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sulla necessità di una morale.
Onnipresente un silenzio cupo, vuoto, insondabile che pare immenso e sovrumano nonostante le dimensioni del luogo che esso avvolge, ridotte se paragonate agli sterminati spazi del mondo di superficie. E, quando il silenzio verrà a mancare, sorgerà il rumore delle mitragliatrici, l’urlo dei feriti e dei morenti.
Protagonista indiscussa è la metropolitana, nella realtà come nella finzione, uno dei più grandi rifugi antiatomici esistenti e collegata con vie segrete a bunker strategici.
Durante il viaggio, Artyom affronterà pericoli di ogni sorta, taluni sovrannaturali, tutti potenzialmente mortali. Verrà picchiato, torturato e condannato a morte. A volte riuscirà a trovare autonomamente la via della salvezza; più spesso l’aiuto insperato verrà dall’esterno. Tanto da spingerlo a credere che la sua missione è realmente giusta, in quanto sostenuta dalle forze superiori del Destino.
Eppure qualcosa non torna. La penna di Glukhovsky lo suggerisce, in brevi descrizioni, in rapide osservazioni. Tutto verrà sapientemente celato fino all’inatteso finale che è forse uno dei maggiori punti di forza del romanzo e che riesce nel difficile intento di essere un credibile, coerente e amaro spunto di riflessione.
Il giudizio complessivo è sostanzialmente buono: purtroppo l’atmosfera cupa e angosciante accompagna uno sviluppo di trama in molte occasioni eccessivamente piano e ripetitivo, benché l’autore sia riuscito a caratterizzare in modo soddisfacente ogni stazione/città-stato e abbia introdotto personaggi tutto sommato variegati e verosimili.
Il calo di tensione di molti episodi senza dubbio opachi è fortunatamente controbilanciato da un numero discreto di scene che invece colpiscono d’immediato il lettore e lo rapiscono catapultandolo nel medesimo incubo che vive il protagonista: annichilente la visione di Mosca distrutta dalle bombe nucleari; inquietanti le creature di superficie e ancor più la mostruosità che si cela al di sotto del Cremlino; dolorosamente affliggente il diario di una sopravvissuta dell’esterno; terribilmente crudele la vicenda del piccolo Oleg.
Non a caso di Metro 2033 è già stato realizzato un seguito e un discreto videogioco già in vendita in Italia.
La sensazione è tuttavia quella di un romanzo che, con ulteriore intervento unificatore da parte dell’autore principale e una accurata rivisitazione di molti episodi, avrebbe potuto risultare sensibilmente migliore.