Moon
Sam Bell è l’unico impiegato della base lunare Selene, dove lavora all’estrazione del prezioso ELIO-3, risorsa indispensabile per arginare la grave crisi energetica mondiale. Sua sola compagnia è quella di Gerty, un affabile robot in grado di sostenerlo, anche psicologicamente, nella solitaria permanenza sulla Luna. I contatti con l’esterno sono ridotti a sporadici videomessaggi che giungono dalla Terra, ai quali tuttavia non è possibile rispondere, causa un qualche problema all’impianto ricetrasmettitore. Per Sam, comunque, l’isolamento è ormai giunto alla fine: il suo contratto triennale con la società Lunar sta scadendo, e lui è pronto per tornare a casa e riabbracciare moglie e figlia.
Un brutto giorno, però, rimane vittima di un grave incidente e, risvegliatosi in infermeria, si accorge di alcune stranezze: per esempio una “chiacchierata” di Gerty con la Terra, cosa che tecnicamente avrebbe dovuto risultare impossibile.
Deciso a chiarirsi le idee, Sam torna sul luogo dell’incidente, ma qui precipita in un vero e proprio incubo kafkiano: trova al suo posto un individuo identico a lui, in tutto e per tutto, sia nell’aspetto che nei ricordi.
Stupefatti e nel dubbio di essere in preda a un’allucinazione, ma mossi dall’ambiguità di Gerty (allusivo nel far capire che effettivamente qualcosa di strano c’è) e da una strana e progressiva malattia che colpisce il Sam “incidentato”, i due giungono insieme all’inquietante soluzione dell’enigma: i “cloni nell’armadio” della Lunar sono tantissimi, celati nei sotterranei della base, pronti a essere “programmati” sulla matrice del Sam originale che, come si scoprirà, è già a casa da anni.
Le copie hanno inoltre una “data di scadenza”, la loro vita dura lo spazio dei tre anni previsti dal finto contratto, dopodiché vengono sostituiti.
Ai due Sam, il primo dei quali ormai morente, resta una sola cosa da fare: trovare il modo per avvertire il mondo di ciò che sta accadendo sulla Luna…
COMMENTO
Che Moon non sia stato affatto un successo, è la prova più autentica della sua “originalità”: proporre di nuovo, a trent’anni di distanza dall’epoca d’oro della Fantascienza, un vero film di genere. Vero per due motivi: si gioca tutto sulle idee e sui contenuti bypassando il “superfluo indispensabile” tipico della Fantascienza odierna, e fa quasi a meno del… “software”, concentrandosi sull’“hardware”.
Tutto in Moon, infatti, è stato fatto “a mano” da artigiani della Fantascienza vintage (molti collaboratori provengono da film come il primo Alien), con un budget ridicolo (5 milioni di dollari), sotto la direzione di un tizio di nome Duncan Jones, al suo primo lungometraggio. Jones ha la particolarità di esser figlio di David Bowie, ovvero “l’uomo che cadde sulla Terra” ma anche quello della splendida “Space Oddity”, canzone sulla solitudine e la deriva, sensazioni che sembrano toccare in più momenti il film.
L’operazione che è stata fatta ora, nel 2009, ovvero in piena “sci-fi decadence”, lancia un segnale ben preciso: è possibile oggi, con pochissimi mezzi, realizzare un buon film di Fantascienza? La risposta è sì, a patto di fare un lungo passo indietro e tornare a vedere le cose con la lucidità e l’entusiasmo degli anni Settanta.
Un dato rilevante e risaputo è che i produttori statunitensi di cinema mainstream (ovvero, chi da sempre ha in pugno la Fantascienza cinematografica) non hanno sensibilità artistica, non amano il rischio, non sono più coinvolti come un tempo nei progetti che finanziano. Non siamo più di fronte a figure granitiche ma intuitive come l’Alan Ladd Jr. di Guerre Stellari e Blade Runner, o al F.F. Coppola de L’Uomo che Fuggì dal Futuro, ma a giovani uomini d’affari, poco interessati a realizzare pietre miliari (o almeno qualcosa di bello) ma piuttosto a prodotti “multilevel” in grado di generare merchandising, quindi denaro, molto denaro, capace di coprire senza rischio la spesa iniziale, solitamente esorbitante. Il pubblico, altro responsabile ingenuo della “new wave” fantascientifica, negli anni si è assuefatto sempre più a degli “articoli” cinematografici in grado di propagarsi all’infinito sotto forma giocattoli, libri, videogame o gadget vari .
Ciò che è cominciato per scommessa con il primo Guerre Stellari raggiunge un nuovo allarmante traguardo in Avatar, kolossal pianificato per piacere a tutti e sfruttare ogni tecnologia esistente.
Non stiamo insomma parlando più di cinema, oggi, di gente che esce dalle sale con delle domande, magari protratte fino alle 2 di notte in chiacchierate sul senso di ciò che si è visto e condiviso. Oggi parliamo di entertainment, di concitati, coloratissimi show che iniziano su spettacolari siti internet, arrivano alle multisale in 3D e continuano poi a casa con DVD “extended”, “director’s” e “definitive” edition a uno, due, otto dischi… E poi la playstation, i giochi di ruolo… per citare solo alcuni dei passaggi più ovvii che rendono un film depositario di tutta una serie di amplificazioni multimediali a carattere commerciale. La stessa definizione di film, oggi, risulta antiquata, con il digitale che ha soppiantato la celluloide.
Fortunatamente, e inaspettatamente, Moon è un ritorno sano alla calma, al raccoglimento, all’idea, all’immaginazione stimolata e non passiva, all’uomo come proposta di crescita interiore. Tutto questo accompagnato dallo stupore generato dall’insolito, dal mai visto prima che caratterizzava tanto cinema fantastico “imperfetto” (ma più umano ed empatico) degli anni Settanta.
Un aspetto interessante, poi, è che Moon propone sì tematiche ambientaliste e di bioetica, ma al passo coi tempi: ciò che era stato anticipato da 2002: la Seconda Odissea (Silent Running, 1972) o da 2022: i Sopravvissuti (Soylent Green, 1973) – solo alcuni dei film da cui Jones, dichiaratamente, ha tratto ispirazione – è qui ripreso in modo agile, amalgamato con la tradizione vintage ma (ri)proponendo questioni più che mai attuali. Lo sfruttamento lavorativo di Sam, anonimo impiegato della Lunar, il suo essere un numero, un “clone” appunto, rispecchia in fondo la nostra cultura omologante e superficiale, che aspira a conformarti senza che tu te ne renda conto, come accade al protagonista, duplicato all’infinito, smemorato, depresso, i cui contatti con gli altri sono solo telematici, assolutamente artefatti, come la sua vita. Il suo è un eterno presente, un mondo fittizio, quale quello dove in fondo ci accingiamo a vivere; solo sogni premonitori e infiltrazioni dalla sfera metafisica possono aprire i suoi occhi, ispirare il “colpo di reni” con cui evadere dall’isolamento e affrontare un mondo distrutto.
C’è poco da ridere in Moon, e molto da riflettere. Non siamo con la testa sulla Luna ma proprio qui sulla Terra, il cui futuro è già iniziato.