Recensione
Rileggendo Nata dal Vulcano (The Birthgrave, 1975) dopo circa 35 anni dalla prima volta, oggi più consapevole di quali siano i pregi e i difetti di un romanzo di genere, non posso che rilevare i suoi molti punti deboli, l’ingenuità di molte scelte, l’inconsistenza generale della trama, ma soprattutto il pessimo stile di scrittura che a suo tempo mi aveva portato a non gradire molto quest’opera, via di mezzo tra uno sword and sorcery e un dark fantasy.
La prima osservazione che si può fare è sull’eccesso di aggettivi e avverbi, usati nel tentativo di generare emozioni e sensazioni che la debolezza della narrazione non è in grado di fornire – tipico errore dello scrittore alle prime armi. Se la descrizione è carente, se manca la capacità di presentare i fatti nella loro dinamica reale, e soprattutto se gli avvenimenti non sono di per sé emozionanti, l’aggiunta di una manata di attributi non aiuta affatto a rendere la scena più emotivamente sentita, anzi.
La trama non brilla certo per originalità (pur tenendo conto dell’anno di pubblicazione), basata com’è sulla classica situazione del protagonista che, non ricordando niente di sé, deve riscoprire il proprio passato e riconquistare poteri persi. La descrizione del Mondo in cui la storia si svolge, il world building, è in questi casi un elemento fondamentale, ma qui è impacciata, nonostante l’impegno. Molti aspetti rimangono oscuri, la spiegazione di ciò è limitata, qualche volta illogica, spesso banalmente carente, e sempre con un largo abuso di aggettivi e avverbi invece di una rappresentazione più consapevole.
La Lee cerca poi di costruire una protagonista molto problematica, con contorsioni psicologiche che dovrebbero derivare da complessi di colpa dovuti ad eventi della fanciullezza. Purtroppo per buona parte del romanzo questo aspetto è sommerso da un’illogicità di comportamento che non porta a sospettare alcunché di profondo, fino alla catarsi conclusiva quando, come il classico deus ex machina, l’incontro con degli alieni permette finalmente al personaggio di capire la natura del proprio conflitto interno. Un finale estremamente povero, incapace di giustificare la condotta irrazionale e molto infantile della protagonista.
Si tratta in insomma di un romanzo banale, scritto molto male, del tutto deludente. Eppure ha avuto un discreto successo ai suoi tempi (nominato al Nebula), come del resto la Lee, considerata per un po’ un’autrice originale in ambito fantasy (forse per qualche tocco di sessualità esplicita che qui è appena accennata ma è più forte nei suoi romanzi successivi).
Anteprima testo
Libro primo
Parte prima
Sotto il vulcano
Destarsi, e non sapere dove, né chi sei, non sapere neppure che cosa sei, se sei una cosa con gambe e braccia, oppure una belva, oppure un cervello entro l’involucro di un grosso pesce… è uno strano risveglio. Ma dopo un po’, sgomitolandomi nella tenebra, incominciai a scoprire me stessa: ed ero una donna.
Tutto intorno vi era nereggiare ed assenza di suono. Con le mani, tastai vecchie incrostazioni di roccia. Un sentore antico ed amaro, senza nome, mi saliva alle nari. Mi trascinai fuori, strisciando, dal recesso in cui giacevo, e trovai una sorta di corridoio in cui potevo stare eretta. Stranamente, non mi chiesi neppure per un istante se ero cieca. Era freddo, e l’aria mancava, mentre avanzavo a tentoni lungo quel passaggio. Urtai forte un piede contro un ostacolo. Un gradino, seguito da altri, intagliato rozzamente nella roccia, e non molto consunto da passi. Ricordai all’improvviso altre scale di una sostanza bianca, venata e liscia, sdrucciolevole quasi quanto il vetro, profondamente intaccata al centro dal logorio del passaggio di innumerevoli piedi, in salita e in discesa.
Salii cautamente i gradini, sempre tastando la parete con le mani. Non pensai di contarli, ma erano molti, almeno un centinaio. E poi uno spazio piatto, senza scalini. Avevo scioccamente affrettato il passo, lieta di trovarmi su un fondo pianeggiante, ma fui punita. All’improvviso non vi fu più la pietra davanti a me, ma soltanto un vuoto inavvertibile. Ondeggiai come una danzatrice sul ciglio dello strapiombo invisibile, poi mi ributtai all’indietro e mi salvai. Un acciottolio di pietre precipitò nella tenebra. Le udii cadere per molto tempo, e spesso rimbalzavano contro le pareti.
Ormai ero atterrita. Come potevo proseguire, se non vedevo nulla? Il primo errore poteva essere fatale e già, senza neppure sapere chi fossi, sapevo che la mia vita, per me, era importante. E sentivo, anche, qualcosa che lottava contro di me nelle tenebre: una lotta maligna, unilaterale, ed io ne provavo paura e collera.
Avanzai molto lentamente, sulle mani e sulle ginocchia, verso la sinistra dello strapiombo. Dopo un momento, la mia mano protesa graffiò il vuoto. Tornai indietro, verso destra. Pochi istanti, e il terzo angolo dell’abisso parve assorbire la mia mano.
La collera mi invase. Gridai un’imprecazione nell’oscurità, e quel suono echeggiò ed echeggiò, come se la roccia stesse per andare in frantumi.
Ed ora, dove potevo andare? Forse non c’era più nulla. Mi abbandonai distesa sulla cengia e piansi, e poi mi raggomitolai di nuovo, come un animale o un feto, e dormii. Quella fu la fine del mio primo risveglio.
La seconda volta fu meglio. Il primo sonno non era stato normale: questo lo era, e mi risvegliai con una diversa consapevolezza della realtà.
Nelle tenebre, pensai che se la scala terminava nel nulla, allora avrei dovuto ridiscendere la scala, fino al corridoio, e ripercorrere i miei passi fino a quando avessi trovato un’altra via. Mi resi conto allora, per la prima volta, che stavo cercando la superficie, con la conoscenza istintiva di trovarmi sottoterra.
Mentre mi trascinavo verso le scale, attraverso la piattaforma, prima le mie mani e poi le mie ginocchia incontrarono una depressione quadrata nella roccia. A tentoni, scoprii una fessura sottile. Doveva essere una porta. Stavo ancora cercando un modo di aprirla, quando all’improvviso si scostò, aprendosi verso l’interno. Ancora nella tenebra assoluta, mi trovai librata sull’orlo di un altro abisso inimmaginabile, aggrappata con dita convulse allo stìpite levigato della porta. Non c’era speranza. Le mie dita persero l’appiglio, e caddi. Pensai che fosse la fine, ma la caduta fu breve. Urtai il pavimento di pietra e rotolai, in scioltezza, senza farmi male.
Mi girai, lentamente: e ora, inequivocabile, c’era un lievissimo barlume di luce, lontano lontano, in fondo a quello che sembrava essere un altro, lungo corridoio. Attratta da quella luce, mi avviai a passo svelto, quasi correndo.
Ormai potevo scorgere i contorni indistinti delle pareti di roccia, e le lievi venature luccicanti. Il corridoio si snodava e si snodava davanti a me, e il barlume si faceva più carico e sanguigno. Poi, quando all’improvviso superai una svolta, levai le mani per schermarmi gli occhi.
La luce era accecante come le tenebre: ma presto potei tergermi le lacrime e guardarmi intorno.
Ero in una caverna enorme, illuminata solo al centro dove un grosso bacile rozzamente intagliato, del diametro di quasi tre braccia, esalava un’incessante tempesta di fiamma rossa e dorata. Oltre quel fuoco, una scala saliva verso una stretta porta, lassù nella muraglia di pietra. La caverna non aveva null’altro di particolare, ed era deserta.
Inspiegabilmente, la porticina era importante per me: e sapevo che dovevo raggiungerla.
Mi incamminai per attraversare la grotta che saliva all’infinito perdendosi nell’oscurità, e mi accorsi all’improvviso che, in confronto, ero minuscola come una formica. Superai il bacile con le fiamme, posai il piede sul primo gradino. Dietro di me scaturì un tuono ruggente. Mi voltai di scatto, sbigottita. Innumerevoli, piccoli fuochi erano sgusciati sul pavimento della grotta, e divampavano. Salii un altro gradino, e irruppero nuove fiamme. Senza più voltarmi a guardare, salii correndo verso la sommità della scala, come se la sveltezza potesse sconfiggere il meccanismo di laggiù. Quando posai la mano sulla porticina, diedi un’occhiata alle mie spalle. Il fondo della caverna che avevo attraversato era un mare d’oro furioso, e il fumo scarlatto si annebbiava, diveniva purpureo verso l’alta volta. Spinsi la porta, e quando si aprì la varcai correndo, sicura che si sarebbe richiusa dietro di me.
La sala era satura di luce, che tuttavia sembrava non avere una sorgente. Davanti a me c’era un lungo tendaggio e, quando lo scostai, vidi un altare di pietra e un altro bacile marmoreo, in cui qualcosa fremette e si agitò, alla mia presenza. Non potevo scorgere quel qualcosa, ma solo percepirlo, e quando parlò, non ne sentii le parole se non con l’udito ulteriore della mente.
«Dunque non potevi dormire in eterno. Sapevo che avresti dovuto destarti un giorno, nonostante il sonno che ho gettato su di te. Destarti, e venire a me. Anche se l’abisso non ti ha potuta prendere, come speravo. Ebbene, dunque, ti dirò alcune cose. Io sono Karrakaz, Senz’Anima, che scaturì dalla malvagità della tua razza, un intero mondo di anni prima della tua nascita, e finì per distruggere quella stirpe ed ognuno dei suoi componenti, eccettuata te. E tu sfuggisti all’annientamento perché eri una bambina, e non avevi ancora appreso adeguatamente le vie del male. Ma ora sei divenuta donna nel sonno, e imparerai. Il male verrà, e tu l’accoglierai. Ricordalo: dovunque andrai, io ti sarò accanto. Ormai non puoi sottrarti a Karrakaz. Guarda.»
Sull’altare, qualcosa guizzò, scintillò, acquisì consistenza. Un pugnale, dalla lama lucente e affilata.
«Guarda quanto ti sarebbe facile sbarazzarti di me. Prendi il coltello. Basterà che tu dica dove colpire, e ti obbedirà. Poi potrai dormire eternamente, senza paura.»
Ma io restai immobile, e non presi l’arma. Un milione d’immagini e di ricordi mi balenavano nella mente, ed il terrore mi agghiacciava le mani.
«Cerchi una via d’uscita, allora? È facile. Quella è la strada. La scala dietro l’altare sale verso il mondo. Ma se andrai, sarai maledetta, e porterai sempre la maledizione con te: non vi sarà felicità. La felicità che ti ha generata è morta da innumerevoli anni. I tuoi palazzi sono in rovina. Le lucertole si scaldano al sole nelle fontane inaridite e nelle corti crollate. E tu… ti mostrerò a te stessa. Ricordi, saresti stata possente, una maga che avrebbe governato le stelle, i mari, i fuochi profondi della terra. Tutto avrebbe obbedito al tuo comando. Avevi il dono del volo, l’arte del camaleonte, l’arte dell’invisibilità… e la bellezza. Lascia che ti mostri, ora, che cosa sei.»
La nuova cosa nell’aria brillò fredda e limpida, e vidi incominciare a formarsi la mia immagine. Una figura di donna, snella, minuta; i capelli lunghi, chiarissimi, e poi il viso… l’immagine se lo coprì con le mani, nascondendomi un poco del suo orrore. Ma solo un poco. Io seppi. La faccia di un diavolo, di un mostro, d’un essere demente, intollerabile alla vista.
Ero accovacciata sul pavimento, con un braccio sopra la testa, il mento premuto contro il seno e, nell’altra mano, il coltello tolto all’altare di Karrakaz.
Ma prima che potessi rivolgere alla lama le parole di morte, una lampada mi riempì la mente di una luce dolce, fresca e verde, e antichissima.
«Sì,» disse dentro la mia testa la voce che non era una voce, «c’è sempre quella. Se riuscirai a trovarla. La tua anima gemella di giada verde.»
Balzai in piedi e scagliai il pugnale attraverso l’immagine dello specchio, frantumandola. Al di là della porta, un’esplosione gigantesca squassò la caverna, e il pavimento sussultò sotto i miei piedi. Mi avviai verso la scala.
«Aspetta,» disse la cosa asessuata e senz’anima. «Ricordalo: sei maledetta, e porti con te una maledizione. Hai dormito nelle viscere di un vulcano spento. Se lo abbandonerai, si sveglierà, come tu ti sei svegliata. La lava rovente sgorgherà da ogni anfratto e ti inseguirà, giù per la montagna. Ricoprirà villaggi e città, distruggerà le messi, e ucciderà tutto ciò che di vivo incontrerà sul suo cammino.»
Ma io l’udii appena. L’istinto della libertà era troppo forte, troppo terribile. Mi precipitai su per i gradini, su e su, lontano dalla stanza fulgente e dall’ossessione, nel buio fresco che ben presto si rischiarò. Quando mi soffermai un istante per riposare, appoggiandomi alle viscere della montagna, levai lo sguardo, e la luce delle stelle e della luna mi si riversò negli occhi. Dietro di me, la tenebra si arrossava, scossa da parossismi incessanti di furia o di sofferenza. Il fetore dello zolfo mi riempì il ventre e la testa e i polmoni, mi diede la nausea, ma io mi spinsi avanti, e le mie mani si aggrappavano alla pietra come ventose. Finalmente una cengia, e oltre la cengia le pendici esterne del vulcano, che scendevano verso valli buie. Lassù, ormai spalancato da orizzonte a orizzonte, il cielo fulgido.
Balzai dalla cengia e, nell’istante in cui i miei piedi toccarono il suolo, un demone bramì nella terra. Cielo e terra precipitarono, fondendosi, divennero scarlatti, ed io caddi, e continuai a cadere, giù nella notte.
Caddi più rapidamente di quanto avrei saputo correre, ancora troppo stordita per provare paura. Poi mi trovai in una depressione, e mi arrestai, come si arresta un cuore nella morte. Ne uscii, trascinandomi, e mi volsi a guardare. Le nubi, sopra la montagna rombante, avevano il colore della ruggine, e i primi serpi di lava brillante mi inseguivano ondulando. Una pioggia di lapilli ardenti esplose, grandinò tutto intorno a me. La cenere nera mi saturò gli occhi e la bocca. Mi coprii le labbra e il naso con un lembo dell’indumento sudicio che avevo addosso, e ripresi a fuggire.
Tit. originale: The Birthgrave
Anno: 1975
Autore: Tanith Lee
Ciclo: The Birthgrave Trilogy #1
Edizione: Editrice Nord (Newton, anno 1996), collana “Cosmo Oro” #152
Traduttore: Viviana Viviani
Pagine: 437
ISBN: 8842908886
ISBN-13: 9788842908883
Dalla copertina | Svegliarsi nel cuore di un vulcano, dopo aver riposato per ere immemorabili, e scoprirsi l’unica erede di una civiltà perduta. Emergere in un mondo alieno, dalle strane usanze e dai costumi ancora più strani e scoprirsi dotata di poteri che sembrano magia, ma che forse sono gli attributi di una sconosciuta eredità stellare… Chi è la donna nata dal vulcano? E qual è il mondo nel quale si è destata? Un mondo dai costumi barbari, dagli splendidi templi, dalle incredibili battaglie, con un cielo dove brillano costellazioni straniere, tra le quali sono in viaggio astronavi sconosciute? Questa è la storia di una donna, ed è anche la storia di una speranza e di un sogno che sembrano perdersi nell’immensità degli spazi: attraverso scontri e battaglie, la donna che sembra in grado di risanare i malati, di guarire le ferite, e perfino di risuscitare dalla morte, cerca la propria identità e la propria origine attraverso un mondo di scienza perduta e di superstizioni, un mondo sul quale incombe sempre più vicina l’ombra che viene dalle stelle della galassia.