Neuromante
Avete mai letto l’Ulisse di Joyce? Chi già l’ha fatto mi ha decisamente sconsigliato di provarci, salvo soffrire di manie autolesionistiche.
Ebbene, sappiate che, da qualche anno a questa parte, assieme al romanzo trovate allegata una guida alla lettura, per smorzare i toni cupi dell’ardimentosa impresa ai coraggiosi che vi si accingono, o forse per incoraggiare i reticenti (quale la sottoscritta stessa ammette di essere).
Tutto questo per arrivare dove? Semplicemente al fatto che ancora non è stata pubblicata una guida alla lettura di Neuromante. Il romanzo di WILLIAM GIBSON, considerato il manifesto del movimento Cyberpunk, ce lo vendono senza foglietto illustrativo.
Non che trovi troppo corretto il concetto di “instradare” le menti vergini prossime ai riti di iniziazione di questo sottogenere fantascientifico, ma una cosa è certa: non è fatto di colori vividi e luci stroboscopiche, né di luoghi fatiscenti e futuri criminosi il mondo in cui stiamo per immergerci. O per lo meno, non si tratta solo di questo.
L’ignoranza non paga, e mea culpa se al padre di quella che scherzosamente chiameremo “generazione smanettona” non ho attribuito il giusto peso dando invece per scontato che leggere l’Antico Testamento del Cyberpunk avrebbe significato tenere tra le mani trecento pagine di grafica astrusa stile Il tagliaerbe, filosofia new age di matrixiana memoria e violenza alla Johnny Mnemonic. Pensare che questo neonato filone letterario fosse riconducibile unicamente ad un moderno immaginario fortemente collettivizzato ed influenzato è un passo falso in fin dei conti comprensibile. Per penetrare lo scenario irreale disegnato da Gibson bisogna armarsi di mastodontica fantasia e altrettanta dose di flessibilità mentale.
Neuromante non è quello che gli altri ci hanno fatto vedere in questi ultimi vent’anni: colori e acrobazie informatiche sono solo il fascinoso involucro al cui interno è celato un gioco di scatole cinesi e problematiche attuali, oggi più di ieri. Ridurlo a visioni postume indotteci da altri significherebbe sintetizzare un’opera di una complessità tale, invece, da costringere ad una lettura a passo di gambero e richiedere un’immedesimazione elevatissima e doti empatiche superlative.
Ha compiuto ormai ventidue anni, ma li porta davvero alla grande, complice l’arte con la quale Gibson ha saputo trasformare il concetto di realtà virtuale in pagine di elevato valore stilistico; e sopra ogni cosa, l’aver dato i natali a quelle atmosfere grigie e antiutopiche comunemente identificate col nome di città post-moderne, dominate – per meglio dire tiranneggiate – dalla tecnologia. Non è un caso il fatto che si parli di tirannia, perché la vera storia da raccontare, dentro la quale Gibson catapulta il cow-boy informatico Case, è quella di una guerra ad armi impari, una faida il cui epilogo è implicito nella “natura” stessa dei contendenti: l’uomo e la tecnologia. Il primo è lo schiavo consapevole, tutto il resto è la droga che lo appaga e al tempo stesso lo sottomette al proprio giogo.
Il mestiere di Case rappresenta l’apoteosi di questa convivenza deviata: collegare il proprio cervello direttamente alla rete e rubare le informazioni per poi rivenderle. Non di rado si vede costretto a far fronte a dolorose crisi di astinenza; rimanere scollegato per troppe ore di seguito lo fa sudare freddo, e sono incubi e non sogni a popolare i pochi attimi di riposo. Giungono a soccorrerlo altre droghe, questa volta nella corrente accezione del termine: le anfetamine gli stanno logorando il fisico. Il che rappresenta un problema alquanto relativo, perché nel mondo di Case i corpi sono solo macchine, e quando un pezzo si guasta basta sostituirlo.
Lo sa bene la sua enigmatica complice, Molly, un’arma vivente, corredata di innesti sottocutanei micidiali e occhi bionici. Ed ecco palesarsi una delle tante chiavi di lettura del romanzo: il corpo, l’unica parte del mondo in grado di cambiare… visto che tutti gli attori in scena sembrano agire sfiorandosi reciprocamente senza mai mutare la realtà che li ospita (…o che di loro si fa beffe) e ancor di più senza apportare nulla nella vita dell’altro.
È paradossale quanto quella di Gibson in Neuromante sia una prosa dell’inerzia, dalla quale trasuda un’avidità emozionale difficile da sopportare. Non a caso le parole a supporto della caratterizzazione di questi che, più che protagonisti, potremmo definire zombie, si contano sulle dita di una mano.
Ne deriva un’ironica immotilità “Beckettiana” come se tutti stessero aspettando un Godot che non arriverà mai.
Alla fine ogni attante si ritrova esattamente al punto di partenza, le mutazioni sopravvenute nel tempo non lo sfiorano o, se lo fanno, incidono in parte irrisoria nel suo vivere quotidiano, regalando al tutto un senso di circolarità, dai toni decisamente negativi. Questo cane che si morde la coda rappresenta solo un lato della medaglia: la vera vita di questi anti-eroi del futuro assume un significato tangibile solo quando si trovano dentro la rete… giù all’inferno dove Case lotta senza riserve contro chi lo vuole morto, contro i fantasmi del passato capaci perfino di donargli un memorabile amplesso, nel tentativo di carpire il nome di quel demone che lo fronteggia, poiché “per evocare un demone devi imparare il suo nome”! Neuromante: l’intelligenza artificiale che ha preso coscienza delle proprie potenzialità, capace di evocare i morti quanto un negromante, di richiamarli illusoriamente alla vita e al tempo stesso di “percorrere i sentieri d’argento dei nervi”.
Esso si mostra a Case solo durante le ultime battute (dopo averlo ingannato e manipolato in tempi non sospetti) antropomorfizzandosi per meglio celarsi ai suoi occhi. E in questo gioco dell’oca dove gli eroi sono solo pedine, l’epilogo per loro coincide col punto di partenza: abbandonati a se stessi e schiavi coscienti della propria condizione. “Non ho bisogno di te”! sono le ultime parole del cowboy d’interfaccia, nell’estremo tentativo di imporre se stesso rispetto ad una realtà, quella virtuale, che lo ha reso succube, o rifiutando rabbiosamente quel rapporto “intimamente professionale” avuto con Molly, divenuto ormai parte di un passato recente.
L’interpretazione rimane aperta, anche se l’ampiezza di respiro del finale, più che essere filosofica, ha il sapore di un Gibson che svogliatamente si rapporta col mondo dei vivi. Forse è lui il vero Negromante.
Se dissertare di emozioni non sembra il passatempo preferito dell’autore, al contrario, quando è il futuro a divenire colonna portante della narrazione, è una cascata di parole e neologismi, di frasi ad effetto e descrizioni interminabili, che ci travolgono e fanno incetta di qualsiasi brandello di cognizione logica che avevamo della realtà. È il festival dell’inconsapevolezza tra ICE, matrici, Flatline, Deck…
Ma Gibson ama i suoi mondi e non i suoi lettori: non è il suo mestiere quello di chiarire al lettore in mezzo a quale habitat si trovi ad annaspare. Perché del resto Case e Molly non hanno bisogno di alcuna spiegazione del motivo per il quale si trovino a lottare contro delle intelligenze artificiali in città decadenti dominate dalla mafia, è il loro mestiere. Abbandonato a se stesso, il lettore è l’interprete senza vocabolario, che ad un nuovo lessico impregnato di un futuro che dal lontano 1984, anno di pubblicazione del romanzo, è ormai divenuto presente, deve dare un qualche barlume di significato logico.
E da qui il motivo di una lettura che spesso ci riporta allo start, alla disperata ricerca di un qualche indizio che ci aiuti nello sbrogliare l’intricata matassa. Operazione decisamente noiosa, il più delle volte infruttuosa, ma più importante di tutto: inutile. La trama non snocciola alcuna definizione e l’unica appendice che avremmo auspicato trovare in fondo al libro potrà essere solo un parto della fantasia. Ne scaturisce una bassa intelligibilità, e non a caso Gibson ha fatto della fantascienza il proprio mestiere: se la linearità e la chiarezza fossero state le sue mire primarie avremmo letto i suoi trattati di matematica e non di impianti neurali. La maestria con la quale ha saputo fotografare un futuro lucido e vivido nella sua mente per poi riproporlo con impagabile solerzia al lettore, senza farsi tentare da istrionismi di facile consumo, gli attribuiscono uno stile di poco lontano dal neorealismo, dove tra la verità e la sua trasposizione non vengono posti filtri di alcun genere. Che poi la verità dimori nella mente dello scrittore è tutt’altra storia.
Lungi dal mostrare l’immagine di un narratore spietato che non prova pena né per i propri protagonisti e tanto meno per i propri lettori, mi preme riportare alla memoria quando in tempi passati, a sostegno di una tesi che trovava la prosa gibsoniana povera di concetti e problematiche, si è scoperchiata la tomba dove giaceva PHILIP DICK. Un confronto privo di fondamenta e quindi a torto, data l’appartenenza a concezioni diverse di letteratura. Forse chi ha osato tanto pretendeva di raccontarci il sapore della nutella senza aver neppure aperto il barattolo. Neuromante non lo si può raccontare, e neppure leggerlo, va sentito, è questo l’unico modo per rendere tangibili mondi tanto estranei al nostro, così lontani e al tempo stesso così vicini. Complice il grande merito di aver per primo dato forma alle paure, ai dilemmi e alle possibili conseguenze di questo nostro presente.
Colui che in diverse interviste ha raccontato di essere una vera frana al computer, oggi è senza ombra di dubbio il primo autore ad aver dato nomi e rilevanza ad una delle possibili strade aperteci dalla terza rivoluzione industriale. Forse adesso possiamo disquisire sul sapore della nutella!