Opar, la Città Immortale (Hadon of Ancient Opar, Philip José Farmer)

Opar, la Città Immortale

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INTRODUZIONE

Opar, la città immortale, sorge «in una stretta valle africana. Giungendo dai monti occidentali il viaggiatore potrà scorgere elevate muraglie, vasti mausolei, minareti e cupole purpurei o gialli, rilucenti sotto i raggi del sole. Le mura sono praticamente invalicabili, ma esiste una fenditura, larga circa venti pollici, in cui ci si può insinuare. All’interno, una scala dai gradini consunti dai secoli conduce in uno stretto cortile e da qui a una seconda cinta. Superato un passaggio praticato nella parete, il visitatore si troverà dinanzi a una buia confusione di edifici crollanti e sinistri, al di sopra dei quali spicca il Tempio del Sole. Vi si entra percorrendo un altissimo colonnato, sormontato dalla statua gigantesca di un uccello.

«Le pareti sono adorne di bassorilievi rappresentanti strane figure di uomini e di bestie. Tavolette d’oro coperte di geroglifici sono inserite fra i mattoni; le stanze interne sono invece tutte d’oro. Nei recessi dell’edificio si trova un piccolo locale, detto la Camera del Morto, dove si dice che i defunti ritornino uno per volta ad adorare il dio Sole. Gli abitanti di Opar credono che chiunque entri costì venga afferrato dal morto di turno e sacrificato ai suoi inimmaginabili dèi…

«Si dice che Opar sia una colonia abbandonata di Atlantide e che gli abitanti abbiano dimenticato il loro glorioso passato, di cui parlano invece i geroglifici e le strane decorazioni murali; ma non c’è alcuna prova che confermi questa teoria» (Gianni Guadalupi e Alberto Manguel, in Manuale dei luoghi fantastici, Rizzoli 1982).

Opar, il cui «mito» è qui ben riassunto nelle sue linee generali, fa la sua prima comparsa in un romanzo di Edgar Rice Burroughs, e precisamente Il ritorno di Tarzan (è il secondo della serie). Ne sentiremo riparlare in Tarzan e i gioielli di Opar e Tarzan l’invincibile. Burroughs e stato un grande creatore di città immaginarie e luoghi inaccessibili, modernizzando in chiave avventurosa i racconti di civiltà perdute che erano fioccali a fine Ottocento, ma la sua è una narrativa d’azione e d’impulso e l’aspetto fantastico non è sempre quello predominante.

La morte del famoso romanziere avviene nel 1951, cioè nello stesso periodo in cui un giovane scrittore di nome Philip José Farmer sta facendosi le ossa con i primi racconti di fantascienza. Col passare del tempo l’aspetto mitico della sua produzione e di quella degli autori che ammira diventerà il centro dell’universo di Farmer, inducendolo a creare una vera e propria intelaiatura fantastica che racchiuda tutte le principali creazioni dell’immaginario popolare. Alcune opere di Farmer sono, così, dei veri e propri meta-romanzi o meta-racconti che sviluppano e arricchiscono concetti tolti dai libri di Burroughs, dal mondo dei pulp magazines, dei fumetti e via discorrendo, attribuendo loro una pseudoesistenza anche sul piano intellettuale.

Al più noto personaggio burroughsiano, l’uomo-scimmia Tarzan, Farmer ha dedicato alcuni romanzi e una vera e propria biografia, trattandolo alla stregua di un personaggio reale.

Con il ciclo di Opar, costituito dal presente romanzo e da un seguito che pubblicheremo il prossimo anno, Farmer si rifa all’invenzione del maestro Burroughs (naturalmente con il permesso del figlio, Hulbert) per immaginare ciò che l’autore originario aveva soltanto accennato. Nasce così la saga di Hadon, legittimo pretendente al trono di Opar, in un’epoca in cui la città non è in rovina come ai giorni di Tarzan ma è anzi al culmine del suo splendore, dieci o dodicimila anni fa.

Come l’era Iboriana di Robert E. Howard, l’antichissima Africa immaginata da Farmer è un mondo autonomo e descritto realisticamente; si parla dei suoi costumi, della sua economia, si accenna alla sua storia e a una tradizione ancora più vecchia, quella che la vorrebbe colonia di Atlantide. Su questo sfondo la gesta di Hadon acquistano una credibilità che in poche opere di genere fantasy è dato riscontrare.

Altro elemento d’interesse, Opar, la città immortale e il suo seguito Flight to Opar (scritti rispettivamente nel 1974 e 1976) sono i soli contributi, sia pur peculiari, dati da Philip J. Farmer al genere fantasy. È la ricreazione di un mondo perduto, fatta in uno stile che ricorda quello eroico dei racconti d’avventura ma che conserva, ben in vista, la traccia di una sapienza e di uno humour tipicamente farmeriani.

Giuseppe Lippi

Anteprima testo

Opar, la città del massiccio granito e delle delicate gemme, tremò e si fece confusa alla vista. Solida con le sue grandi mura di pietra, le svettanti snelle torri, le cupole dorate e i suoi ottocentosessantasette anni di storia, ondeggiò, si piegò, si dissolse. E poi non ci fu più, come se mai fosse esistita.

Hadon deglutì, e si asciugò le lacrime.

L’ultima sua visione della gloriosa Opar era stata come un sogno che morisse nella mente d’un dio. Sperò che questo non fosse un presagio sinistro. E sperò anche che i compagni, suoi futuri antagonisti, si fossero parimenti commossi. Se fosse stato lui l’unico ad aver pianto, forse l’avrebbero canzonato.

La grande barca aveva superato l’ansa del fiume, e gli alberi della foresta s’erano interposti tra lui e la sua città natale. Ancora la vedeva con la mente, le torri come mani alzate contro il cielo a reggerlo perché non cadesse. Le figurette sui moli di pietra — e tra queste suo padre, sua madre, sua sorella e suo fratello — s’erano fatte sempre più piccole al suo sguardo, ma non al suo cuore. Era per loro che il pianto gli era salito agli occhi, non per la città.

Li avrebbe mai rivisti?

Se avesse perso, mai più. Se avesse vinto, sarebbero forse trascorsi molti anni prima ch’egli potesse riabbracciarli. E la diletta Opar forse non gli avrebbe mai più dato il benvenuto.

Già due volte l’aveva lasciata nel corso dei suoi diciannove anni di vita. La prima volta, aveva avuto al fianco i genitori. La seconda, era andato a stare presso suo zio, ma Opar non era troppo distante. Lanciò un’occhiata ai giovani che aveva accanto. Non lo stavano guardando, ed egli ne fu lieto, perché le lacrime rigavano anche le loro gote. Taro, il suo amico, fece una smorfia d’imbarazzo. Hewako, un blocco scuro di pietra, lo guardò con occhi torvi. Non stava piangendo: la pietra non piange mai. Era ben più forte delle lacrime, lui, e voleva che tutti Io sapessero. Del resto, Hewako non aveva alcuna persona né cosa per cui rattristarsi abbandonandola, pensò Hadon. Provò pena per lui, pur sapendo che un tale sentimento non gli sarebbe durato a lungo: Hewako era un arrogante e un bruto incivile.

Hadon si guardò in giro. Il fiume in quel punto era largo circa ottocento metri e aveva le acque di color marrone per il limo che trasportavano dalle montagne fino al mare. La corrente finiva tra due verdi muraglie arboree, eccetto là dove alcuni banchi di fango si protendevano nell’acqua come dita che tentassero di far avanzare ancor di più la vegetazione. Qui dimoravano i sacri coccodrilli con i loro musi ghignanti, che subito furono all’erta sulle zampe corte non appena percepirono l’approssimarsi della barca di testa e scivolarono quindi con viscidi movimenti dentro l’acqua scura. Pappagalli e scimmie presero a strillare, dalla macchia verde, al passaggio delle imbarcazioni. Un martin pescatore si staccò da un ramo in un barbaglio di azzurro, di giallo, di rosso, cadendo come una stella piumata. Calò in picchiata, sfiorò l’acqua cercando la preda e sì risollevò con un piccolo pesce tra gli artigli.

I dodici rematori emettevano una sorta di grugnito cadenzato al ritmo delle lignee pale dei remi nell’acqua e del bronzeo gong percosso dal nocchiero. Bassi, tarchiati, tozzo il collo, l’arcata sopraccigliare prominente, cugini di primo grado degli uomini, in secondo grado delle scimmie, vogavano e grugnivano mentre il sudore copriva i loro corpi villosi. Tra le due file dei rematori, sullo stretto ponte, stavano delle casse colme di lingotti d’oro e di diamanti, di pellicce, di intagliate figurette di divinità femminili e maschili, di mostri e di animali, di erbe della foresta pluviale, e pile di zanne d’avorio. Cinque soldati con armature di cuoio e con lance montavano la guardia ai tesori.

Precedevano quella di Hadon altre sei imbarcazioni di soli rematori e di soldati. La seguivano altre ventitré, tutte stracariche dei preziosi prodotti di Opar. E, ancor più indietro, veniva una retroguardia di sei scafi. Hadon rimase a osservarli per un po’, quindi prese a camminare avanti e indietro, cinque passi ogni volta, lungo l’affollato ponte di poppa. Tenersi in forma era essenziale. Ne sarebbe dipesa la sua vita durante i Grandi Giochi. Presto Hewako, Taro e altri tre sostituti lo imitarono. Tre camminavano avanti e indietro in fila indiana, e gli altri eseguivano degli esercizi preparatori. Hadon osservò con invidia i muscoli poderosi di Hewako. Si diceva ch’egli fosse l’uomo più forte di tutta Khokarsa, a parte Kwasin, naturalmente. Ma Kwasin era ora costretto all’esilio, errabondo chissà dove nelle Terre Occidentali, con la sua enorme clava di quercia cerchiata di bronzo sulle spalle. Fosse stato anche lui tra i concorrenti, ben difficilmente qualcun altro avrebbe partecipato.

Hadon si chiese se lui ne avrebbe avuto l’ardire. Forse; o forse no. Ma pur non avendo il fisico d’un gorilla, aveva tuttavia gambe lunghe e velocità e resistenza, e padroneggiava in tal grado il maneggio della spada che perfino suo padre aveva dovuto convenirne. Ed era l’incontro finale, quello alla spada, il confronto che decideva.

Però suo padre l’aveva ammonito.

«Sei molto bravo con la tenu, figlio mio» gli aveva detto. «Ma non sei un professionista, non ancora: un esperto potrebbe farti a pezzi a onta delle tue lunghe braccia e della tua giovinezza. Per fortuna avrai contro dei giovani ancora inesperti come te. E un’ironia che ci sian tanti in grado di soverchiarti facilmente con la spada, ma tutti troppo vecchi per prevalere nelle altre gare. Pure se qualche stagionato ventottenne, nonostante l’età, decidesse di entrare in lizza per il trofeo, potrebbe anche riuscire a farcela, e allora che Kho ti aiuti!»

Suo padre s’era toccato il moncherino del braccio sinistro, scuro in volto, e poi aveva detto: «Tu non hai mai ucciso un uomo, Hadon, e quindi il tuo vero animo è ancora ignoto. A volte uno schermidore meno bravo può batterne uno migliore solo perché in lui c’è l’animo autentico dell’omicida. Che accadrebbe se tu e Taro foste finalisti? Egli è il tuo migliore amico. Saresti capace di ucciderlo?».

«Non so» aveva risposto Hadon.

«E allora non dovresti partecipare ai Giochi» aveva concluso suo padre. «E poi c’è Hewako. Guardati da lui. Sa che gli sei superiore con la tenu. Cercherà di schiantarti la schiena prima della prova finale.»

«Ma gli incontri di lotta non sono alla morte» aveva osservato Hadon.

«Capitano degli incidenti» gli aveva risposto il padre. «Hewako t’avrebbe spezzato il collo durante le eliminatorie, se non fosse stato per l’attenzione del giudice di gara. L’avevo messa in guardia, e pur essendo io un umile addetto alla pulizia dei pavimenti del tempio, ero pur stato un tempo un numatenu, e per questo lei m’aveva ascoltato.»

Hadon si era sentito rimescolare il sangue. Lo feriva sentir suo padre parlare dei vecchi tempi, di quando aveva entrambe le braccia e sapeva maneggiare uno spadone a doppio taglio con maestria ineguagliata a Opar. Una lama criminale, roteata alle sue spalle, gli aveva mozzato il braccio sopra il gomito durante il combattimento nelle scure gallerie sotto Opar. Il re era stato ucciso in quella fosca battaglia, e un nuovo sovrano era asceso al trono. Costui aveva odiato Kumin e, invece di congedarlo con un’onorevole pensione, l’aveva radiato. Più d’un numatenu si sarebbe ucciso per questo. Ma per Kumin avevano contato maggiormente gli obblighi verso la sua famiglia anziché quelli verso un chissà quale fantomatico codice d’onore dei numatenu. Non avrebbe abbandonato i suoi alla povertà e alla dubbia carità dei parenti di sua moglie. Così era diventato spazzino del tempio, e ciò, nonostante la condizione umile, l’aveva posto sotto la speciale protezione della stessa Kho. Il nuovo re, Gamori, avrebbe voluto relegare Kumin e i suoi familiari nella giungla, ma sua moglie, la grande sacerdotessa, l’aveva proibito.

Kumin aveva inviato Hadon presso Phimeth, suo fratello, e là l’aveva lasciato per diversi anni affinché egli avesse l’opportunità di apprendere l’arte della spada sotto la guida dello zio, il migliore tra quanti in Opar sapevano usare la tenu. Fu nelle oscure caverne in cui suo zio, proscritto, viveva, che Hadon aveva conosciuto il cugino Kwasin, figlio di Phimeth e della sorella di Kumin, Wimake. Costei era morta alcuni anni prima per il morso d’un serpente, e così Hadon era vissuto per anni privo d’una madre o d’una zia o d’una presenza femminile comunque. Per più di un verso era stato un tempo di solitudine, tuttavia non del tutto ingrato. A parte la presenza di Kwasin, che spesso aveva reso Hadon molto infelice.

Poco prima che Resu, il dio fiammeggiante, calasse dietro gli alberi, le grandi lance furono ormeggiate alle banchine ch’erano state costruite un centinaio d’anni prima per le soste notturne. Metà dei soldati presero posizione dietro le muraglie di pietra che recingevano quasi tutto quel tratto, eccezion fatta per il lato dei moli che dava sul fiume. Gli altri accesero dei fuochi su cui cucinare il cibo per sé medesimi, per gli ufficiali e per gli atleti. I rematori prepararono i propri in qualche angolo delle mura. Un bel verro e un grande maschio d’anatra furono sacrificati, e le porzioni migliori furono buttate tra le fiamme di uno dei fuochi quali offerte a Kho, a Resu, e a Tesemines, dea della notte. Le zampe del porco e i resti dell’anatra furono gettati tra le acque, per placare le minori divinità fluviali.

La corrente veloce trasportò via le zampe e la carcassa dentro l’oscurità crescente. Galleggiarono fino all’ansa, dove si proiettavano fitte le ombre dei rami degli alberi. D’un tratto le acque ribollirono, e zampe e volatile sparirono sotto la superficie.

Uno dei rematori mormorò: «Kasukwa li ha presi!».

La pelle di Hadon orripilò in un brivido di paura, pur avendo egli intuito che erano stati i coccodrilli e non la piccola divinità fluviale a ghermire l’offerta sacrificale. Insieme con la maggior parte degli altri, si toccò rapidamente la fronte con l’estremità delle tre dita più lunghe, con le quali descrisse poi un cerchio che allargò fino ai lombi e concluse sulla fronte. Alcuni tra gli ufficiali e i rematori che avevano i capelli brizzolati fecero il vecchio segno di Kho, toccandosi prima la…

Opar, la Città Immortale - Copertina

Tit. originale: Hadon of Ancient Opar

Anno: 1974

Autore: Philip José Farmer

Ciclo: Ciclo di Opar

Edizione: Mondadori (anno 1989), collana “Oscar – Fantasy” #2

Traduttore: Lidia Lax, Diana Georgiacodis

Pagine: 296

ISBN: 8804320451

ISBN-13: 9788804320456

Dalla copertina | Diecimila anni fa, nel cuore dell’Africa, sorgeva la mitica città di Opar, sede di uno dei regni piu fantastici del continente. Così racconta Edgar Rice Burroughs l’inventore di Tarzan. Farmer prende in mano la sua magica penna per raccontarci le cronache di Opar all’apice del suo splendore. Ne esce un romanzo movimentato e divertente, fantastico e realistico insieme, che ha per protagonista uno dei personaggi più vivaci della fantasy avventurosa: Hadon, l’eroe che si batte per la corona della città immortale. Farete inoltre la conoscenza di Lalila, della grande sacerdotessa Awineth e di altre enigmatiche figure che vivono e combattono sulle sponde dei grandi mari interni dove oggi sorge il Sahara.