Questo romanzo è, a mio parere, una piccola perla nel panorama del fantasy italiano: per ragioni formali e sostanziali.
Finalmente una storia autoconclusiva e non una trilogia dove eventi e personaggi vengono annacquati in nome del dio denaro; finalmente una storia originale, un’ambientazione inconsueta, in spregio alle solite cerche in mondi medievaleggianti, pieni di selve boscose e creature fatate.
Eppure il protagonista di questa vicenda, Pentar, è un dio; anzi il mondo costruito da LUCA TARENZI è pieno di divinità. Queste creature sono per la maggior parte scostanti e capricciose, si interessano raramente degli uomini, scorrazzando in un ambiente metropolitano, molto simile al nostro presente.
La storia prende l’avvio con il misterioso duplice suicidio dello studente universitario Saverio Zani e del suo compagno di camera. Nulla lasciava presagire un simile comportamento da parte dei due ragazzi, e questa misteriosa tragedia non mancherà di generare sospetti. Il dio Pentar, amico di Saverio, si sente, infatti, in dovere di indagare. Al suo fianco ci sarà un caro amico dello studente ucciso, Christian Impero, che diverrà nel prosieguo della narrazione una sorta di sostituto di Saverio, a cui Pentar rivolgerà affetto e protezione. Questa vicenda si interseca con la misteriosa ricerca di alcuni fisici e con l’attività di un esorcista, il dottor Tuskamara, e del suo assistente Riccardo.
L’indagine condotta da Pentar sarà per lui anche un percorso formativo: egli imparerà non solo a conoscere sé stesso, ma sperimenterà gioie e dolori della condizione umana, come forse nessuno dei suoi simili aveva mai fatto. Scoprirà che l’uomo che gli dèi avevano conosciuto, e che lo stesso Pentar ricordava, era cambiato: non più una creatura debole e ignorante che si rivolgeva timorosa agli dei, ma un essere che aveva anzi raggiunto vette di conoscenza tali da minacciare addirittura l’esistenza degli esseri eterni, coloro che si erano sempre considerati da lui inattaccabili. Il dilemma che pervade l’intero romanzo è rappresentato da una sorta di biforcazione: l’uomo può diventare simile agli dèi? o sarà l’artefice della sua e della loro distruzione?
Esiste una profonda contraddizione nel mondo creato da Tarenzi: gli esseri umani, forti delle tecnologiche conquiste della scienza, hanno smesso di credere alla religione, sono atei, eppure gli dèi, invisibili ai più, continuano a giocare con loro, a prendere possesso dei loro corpi. È un mondo molto simile al nostro, dove una statua di Padre Pio piangente sarebbe considerata lo scherzo di cattivo gusto di un immortale. L’autore gioca in maniera molto abile sull’indeterminatezza di questa ambientazione metropolitana: se Pentar si chiamasse Visnu e la città che fa da sfondo alla vicenda Roma, nulla cambierebbe, nulla sarebbe diverso nella meccanica della storia.
Ma chi è il cattivo, vi chiederete? Nei romanzi fantasy non può mancare il buio, il nero assoluto, la negatività. Chi è, insomma, il Sauron della situazione? L’autore, a questo proposito, è molto bravo a mischiare le carte: solo alla fine il lettore riuscirà a identificare i malvagi e le motivazioni che li spingono ad agire. E non saranno motivazioni banali. L’autore comprende, infatti, che nessun cattivo agisce d’istinto: nella realtà, bene e male hanno una ragion d’essere, come dovrebbe accadere anche in un romanzo.
Tarenzi ha molti meriti: per quanto, a ragione, la sua vicenda debba definirsi un fantasy, egli si sforza in tutti i modi di giustificare dal punto di vista scientifico i poteri soprannaturali delle divinità che descrive. Pentar è un romanzo che potremmo definire per adulti, un altro merito dell’autore, in un contesto editoriale che pare premiare soltanto opere per ragazzini, con protagonisti eroici e animali buffi.
L’autore riesce anche a trasmetterci alcuni importanti insegnamenti: nessun fine, per quanto nobile, vale il sacrificio di sia pure poche vite umane. Pentar rifiuta di essere guida degli uomini, preferisce scendere dall’empireo e camminare con loro. Vuole, insomma, esserne amico. Gli dèi, del resto, nel mondo di Tarenzi, non sono onnipotenti: sono anch’essi figli del creato e, a differenza degli esseri umani, non mostrano interesse per la conoscenza.
La conclusione del romanzo è, infine, un inno alla libertà: l’uomo non ha bisogno di tutori, ma deve essere libero di sbagliare, di cadere per poi rialzarsi con le sue forze. Questo messaggio mi ha ricordato un altro romanzo, questa volta fantascientifico, che ho letto di recente: Gli umanoidi di JACK WILLIAMSON. Esso, però, esprime un precetto del tutto opposto: gli umanoidi, esseri artificiali creati per difendere l’umanità, finiscono col diventarne i carcerieri, tarpandone le ali e schiavizzandola.
L’uomo, nell’opera di Williamson, non merita la libertà, perché è troppo ignorante per goderne; senza gli umanoidi a tenerlo a bada, a privarlo del libero arbitrio, le sue tendenze autodistruttive lo porterebbero all’estinzione. Ma c’è chi invece si ribella: i pochi umani convinti che la libertà debba essere sovrana sempre, anche a rischio di tragedie apocalittiche. Di questo stesso avviso è il Pentar di Tarenzi che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe da un dio, evita di imporre sui mortali il proprio volere. Del resto un antico adagio afferma che solo sbagliando si impara, e il progresso e la civiltà sono fondati spesso su errori sanguinosi.
Quella che il dio Pentar fa è, senza ombra di dubbio, una scommessa: egli sceglie di riporre fiducia nell’umanità, consapevole che uomini e dèi sono prodotti del medesimo stampo, solo costituiti di materiali diversi.
L’opera di Tarenzi è dunque un romanzo degno di essere letto e, per quanto mi riguarda, fa ben sperare a proposito della presunta incapacità degli autori italiani di scrivere fantasy.
Un plauso va anche alla casa editrice Alacrán che ha valorizzato uno scrittore sicuramente promettente e pieno di ingegno creativo. L’unico rammarico è che simili prodotti editoriali debbano rimanere in sordina a fronte di opere ben più celebrate, ma spesso qualitativamente scarse.
Un riconoscimento, infine, al tipo di scrittura usata dall’autore: la prosa di Tarenzi è fluente e piacevole, con espressioni gergali assolutamente credibili in un contesto contemporaneo, dimostrando, ancora una volta, che non è necessario il linguaggio di un dodicenne lobotomizzato per scrivere un romanzo fantasy.