Phantasm IV

Phantasm IV: Oblivion

Se la visione dei primi due sequel ci aveva quasi fatto dimenticare le decadenti atmosfere del capostipite, questo Phantasm IV: Oblivion sottrae definitivamente all’oblio le ragioni della nostra incrollabile fede per una saga horror che ormai possiamo tranquillamente definire leggendaria.

Erano trascorsi diversi anni dal deludente ‘Lord of the dead’ e Don Coscarelli si era ormai del tutto convinto che quei toni da commedia umoristica che avevano fatto imbufalire gran parte dei suoi fan erano stati un errore. Solleticato dall’atmosfera postapocalittica che lo script di Roger Avary gli aveva suggerito per un possibile (e mai realizzato) sequel, il nostro aveva iniziato a riflettere sull’opportunità di riportare Phantasm alle sue origini. I dieci milioni di dollari stimati per l’ipotetica realizzazione della sceneggiatura di Roger Avary costituivano una somma non impossibile per l’epoca, ma decisamente ragguardevole per un film che ormai interessava solo pochi incrollabili ammiratori. In mancanza di adeguati finanziamenti, a Coscarelli non rimase che tentare nuovamente la strada che era stata seguita vent’anni prima, vale a dire quella dell’arrangiarsi. Con un cast ridotto al minimo (solo i personaggi ‘storici’ avevano accettato un ruolo in Phantasm IV), una buona dose di materiale di recupero e innumerevoli mezzi di fortuna, il regista riuscì a completare il lavoro in soli 23 giorni e con un budget di soli 650.000 dollari.

Con una simile somma a disposizione non c’era molto da fare in termini di effetti speciali e scene d’azione, ma questo per certi versi fu un bene, visto che il risultato finale fu suggestivo e inquietante tanto quanto il primissimo capitolo. Il deserto del Nevada, delle spettrali formazioni rocciose, delle sterili saline, e una Los Angeles senza vita doneranno alla pellicola quel mood ultraterreno, soprannaturale, come nemmeno i grandiosi mausolei e gli antichi cimiteri dei capitoli precedenti erano riusciti a fare. Ma, d’altra parte, a questo punto della storia era giunta l’ora di concentrarsi sulle atmosfere di disperazione e di solitudine che il Tall Man, avendo ormai conquistato il mondo, aveva creato. Combattere non aveva più senso. Il mondo si era arreso e ciò che restava da fare era capire chi fosse l’artefice della fine dei tempi.

Phantasm IV: Oblivion ci porta quindi lontano dall’azione e ci getta in un paesaggio onirico dove tutto è permesso. Gran parte del film è stato girato nella desertica Death Valley i cui scenari, assolutamente spettacolari, sono un invito a nozze per il talento fotografico di Coscarelli, che ci trascina nel suo mondo immaginario nel quale veniamo immediatamente intrappolati. A tratti sembra quasi di guardare uno dei quei vecchi episodi di Ai Confini della Realtà, con il sapiente uso del flashback, i salti nel tempo e nello spazio che così spesso ci lasciano disorientati come se fossimo sotto l’effetto di qualche sostanza acida.

Forse per scelta, forse per necessità, Don Coscarelli recupera circa trenta minuti di materiale scartato dal Phantasm originale e riesce ad infilarlo nell’ora e mezza scarsa di questo quarto capitolo. Il risultato è magistrale: il vecchio girato si incastra perfettamente con il nuovo, un innesto talmente naturale che quasi si direbbe fosse stato programmato vent’anni prima proprio per poterlo riproporre in Oblivion. Vedere i volti degli stessi protagonisti, continuamente invecchiati e ringiovaniti di vent’anni, credo sia tra l’altro un caso più unico che raro nel cinema.

La narrazione, ancora una volta, riprende nello stesso punto in cui si era interrotta alla fine del capitolo precedente. La nostra attenzione è però ora focalizzata su Mike, che ritroviamo alla guida di un carro funebre, lungo una strada solitaria in mezzo al deserto, nel tentativo di allontanarsi dal terrificante Tall Man. Il ragazzo, terrorizzato da sé stesso e da ciò che gli è accaduto, cerca di mettere più chilometri possibile anche tra sé e Reggie, che intanto il Tall Man, come obbedendo ad una logica prestabilita e a noi (almeno per ora) incomprensibile, ha lasciato in vita. Rocky e Tim sono già spariti dalla storia.

Mentre Reggie, questa volta relegato a un ruolo secondario, si occupa di un poliziotto-zombi e dell’ennesima autostoppista sexy (una piccola concessione ai fan dei primi due sfortunati sequel), Mike viaggia attraverso il tempo e lo spazio. Rivede sé stesso bambino, mosso a compassione per un Tall Man impiccato, e in un delirio onirico tenta a sua volta il suicidio, appendendosi per il collo al ramo di un albero. Il Tall Man, reale o immaginario che sia, accorre in suo aiuto e gli tende una mano, chiedendogli di unirsi a lui. Perché? La sfera metallica che è impiantata nel cranio di Mike potrebbe essere un indizio, ma nulla in questo film è come sembra. A tratti pare di poter intuire quale possa essere il vero obiettivo finale del Tall Man, ma quasi sempre i nostri ragionamenti vengono ricacciati indietro.

Oblivion non è il solito sequel di intrattenimento, non è il solito film riempitivo realizzato per cavalcare l’onda di un precedente successo. È dichiaratamente un netto avvicinamento alla soluzione della storia. E così, a un certo punto, riusciamo a dare una sbirciatina a quelle che si direbbero essere le vere origini del Tall Man e apprendiamo qualcosa di più sul significato dei portali dimensionali che, a più riprese, incontriamo sin dal primo capitolo. Mike, attraversando uno dei tanti portali che gli si parano innanzi, si affaccia su un luogo sconosciuto appartenente ad un’epoca passata (si direbbe attorno alla metà del XIX secolo), dove s’imbatte in Jebediah Morningside, un inventore sull’orlo di una grande scoperta, quella di un portale in grado di collegare qualunque punto nel tempo e nello spazio. L’uomo, lo avrete già capito, ha lo stesso volto del Tall Man, ma di lui è una versione ‘buona’, uno scienziato gentile e ospitale come lo era il ‘Doc’ di Ritorno al Futuro.

Che il Tall Man camminasse su questa terra da tempi remoti avevamo avuto il sentore già nel primo capitolo (quando Mike incappò in un paio di vecchie fotografie), e ora ne abbiamo la certezza. Nei flashback di Mike, Morningside dimostra di aver sviluppato una tecnologia che sembra troppo avanzata per il XIX secolo, pertanto non è da escludersi che il Tall Man possa essere un individuo vissuto non nel nostro passato ma nel passato di una realtà parallela… o alternativa. Ma sono ancora solo teorie. Sul più bello, quando sembra che le nostre domande stiano per avere una risposta, Mike fugge, rimandando a data da destinarsi ogni ulteriore spiegazione.

Abbiamo visto il Tall Man prima che diventasse il Male: c’è forse un modo di impedire la sua trasformazione? È una strada che viene solo accennata. Quando Mike riattraversa il portale col fratello Jody, l’anima di Jebediah Morningside sembra nel frattempo essersi già corrotta. Come se ciò che è accaduto non sia ormai più modificabile. Una cosa tuttavia è certa: la soluzione non può essere trovata che in un altro luogo e in un altro tempo. “Che cos’è questo luogo?” chiede Mike. “Non chiederti cosa, ma quando” è la risposta di Jody (o perlomeno di quella ‘cosa’ che sembra essere Jody, e della quale nemmeno Mike sembra più fidarsi).

Ancora una volta il finale lascia molto in sospeso, e dovremmo forse iniziare a dubitare di ciò che ci è stato fin qui spiegato.