Nel panorama editoriale nostrano, una delle invenzioni letterarie di maggior successo è sicuramente il personaggio di Eymerich l’Inquisitore, sorto dalla penna e dalla felice intuizione del bolognese VALERIO EVANGELISTI. Al limite tra noir e fantascienza, questo personaggio (tra l’altro, realmente esistito) si muove su uno sfondo storico frammisto ad elementi di più tipico sapore sci-fi, come accade in uno dei capitoli più avvincenti della saga: Picatrix, la Scala per l’Inferno.
Ad un primo sguardo sembrerebbe complicato (molto) e quasi ai confini dell’ortodossia letteraria coniugare un futuristico scenario fantapolitico, in cui l’ONU è presieduta da un ubriacone e gli Stati Uniti non sono più tali, alle vicende di un inflessibile domenicano operante nel ‘300. Eppure, con estrema abilità e misura, da questi appetitosi ingredienti Evangelisti riesce a trarre un prodotto di indubbia qualità.
Il mondo di Eymerich (la Spagna trecentesca tra Saragozza, Granada, Malaga) è scosso da eventi apparentemente inspiegabili: misteriose ruote di luce che all’improvviso compaiono nel cielo e brutali omicidi ad opera di esseri che paiono possedere fattezze canine. Come se non bastasse, le indagini del frate sono ostacolate dalle guerre di religione, rese dall’autore in maniera abbastanza esplicita, e da ambigue vicende politiche che ruotano attorno ai grandi regni di Castiglia e di Aragona. Paradossalmente, un ingente aiuto sarà fornito ad Eymerich da esponenti di spicco di un mondo che lo stesso inquisitore non nega di odiare all’inverosimile, il mondo musulmano.
Gran parte del mistero si dipana attraverso le azioni del servo Alatzar, giudeo convertito al Cristianesimo ma proprio per questo preso di mira dal domenicano, e la sapienza e le importanti intuizioni di due grandi ulema (dottori della legge), Ibn Haldun e Alcatibi.
La chiave di volta dell’impianto narrativo è nel “Picatrix”, un fantomatico testo di schietta impostazione ereticale, intriso di astrologia (arte ripudiata dal religioso Eymerich) e utile all’individuazione di particolari configurazioni astrali tese ad invocare precise divinità.
Nel testo, in lingua araba, si definisce un termine, miraj, come equivalente di “strumento per salire e scendere”; sospettando un collegamento con le ruote di luce e le invocazioni a Marte che accompagnano la loro comparsa nei cieli, Eymerich evince un fatto terribile: quei fenomeni altro non sono che canali che pongono in comunicazione la Terra e Marte, adatti alla trasmigrazione dei demoni alberganti sul pianeta rosso, evocati per annientare la cristianità.
Il miraj, così come descritto nel Picatrix, è frutto di una particolare congiunzione celeste che troverà concretezza in un giorno preciso e sarà visibile solo da un particolare luogo: le Isole Felici (meglio conosciute come Canarie). Per evitare la discesa sulla Terra delle creature infernali, tra cui Raucaheil, lo spirito guerriero di Marte, Eymerich userà il più classico (anche troppo a dir la verità) degli espedienti: reciterà le invocazioni al rovescio.
I colpi di scena più scoppiettanti, Evangelisti li riserva per il finale, quando il fedele (o presunto tale) Alatzar tenterà di uccidere Eymerich, e il frate deciderà di vendere come schiavi i compagni musulmani che lo hanno assistito nella vicenda, salvo poi ricredersi ma soltanto per ragioni di utilità politica.
Accanto a questo filone principale, se ne dipanano alcuni collaterali. Uno riguarda la quaestio (l’interrogazione dell’inquisitore associata ad eventuali supplizi e pene corporali inflitte dal boia) ai danni di una donna non meglio identificata, che solo alla fine si scoprirà essere proprio il servo Alatzar, il cui vero nome è Myriam. Questa parte rivela un’attenzione estrema ai dettagli delle varie torture praticate (a volte macabri ed eccessivi), e alla ricostruzione storica del processo (come quando Eymerich proibisce di far sanguinare la prigioniera, pur consentendo che le venga fatto di tutto, o quando riprende l’esorcista reo di aver confuso la sospensione con il termine del processo).
L’operato di Eymerich crea molteplici contraccolpi nella Terra del futuro, un futuro lontanissimo e molto diverso da quello che ci aspetteremmo. Si scopre, infatti, soltanto per citare un esempio, che un sedicente imperatore del Buganda, in terra africana, dopo essere riuscito a sottomettere ogni altra nazione del continente, tenterà di evocare le forze infernali marziane conducendo milioni di persone ad un suicidio di massa all’interno del Lago Vittoria, indicato come la scala per salire al cielo.
La spiegazione scientifica che Evangelisti adotta nell’intera vicenda è molto affascinante, e si chiarisce essenzialmente nell’ultimo filone narrativo, ambientato nelle Canarie e monopolizzato dalla “teoria degli psitroni” del professor Frullifer, un altro personaggio caro all’autore. Si ipotizza che, in un lontano futuro, la fisica tradizionale sia stata soppiantata da una nuova teoria generale imperniata sull’elettricità intesa come vettore di idee: Frullifer ritiene che il pensiero sia una pura forma di elettricità, trasmissibile nel tempo e nello spazio per mezzo di particolari formule magiche.
Secco, scorbutico, rigoroso, al limite del razzista, è significativo che Eymerich, pur così sicuro di agire nel giusto salvaguardando “la fede e la supremazia cristiana”, necessiti poi del patrimonio culturale e dottrinale delle due altre grandi religioni (ebraica e musulmana) per salvare il mondo da creature infernali. Personaggio di raro acume e statura intellettuale, potrebbe ben essere avvicinato al frate Guglielmo da Baskerville de Il nome della Rosa, così come ad un più decisamente moderno Dr. House per le risposte velenose e taglienti, per la testardaggine, per la forza che dimostra nel voler rivendicare ad ogni costo il primato della sua fede e dell’ordine cui appartiene (Domenicani). Eppure, è in realtà un personaggio le cui azioni sono coerenti con i valori che professa, e proprio per questo apprezzabile e a volte addirittura gradevole.
Infine, il grande merito di Evangelisti è quello di aver ricreato un ambiente storico il più possibile particolareggiato e credibile, al limite della pignoleria: magistrale il colpo d’occhio, nella fase iniziale, sulla moreria (quartiere moresco) di Saragozza e sull’ordinamento politico-religioso dell’ambito musulmano; stupenda la descrizione delle cibarie posate sulla tavola di un sapiente moro, corredata da una piccola spiegazione dell’onomastica islamica (formata dal nome del profeta e dall’infisso “figlio di”), senza contare gli ambienti architettonici di Malaga e di Granada e naturalistici delle Isole Felici. Certo, non sono elementi che aggiungono qualcosa alla storia in sé, ma costituiscono un quid in più che attrae ed affascina.
Lo stile asciutto, privo di fronzoli, attento al dettaglio ma senza indugiare in panoramiche dispersive, e il ritmo serrato ed incisivo, che toglie il fiato al lettore a suon di scoperte e colpi di scena, contribuiscono a rendere il romanzo un’autentica gemma, piacevolissimo da leggere anche prescindendo dall’inserimento in una saga più ampia.