Piccolo Buddha

Piccolo Buddha

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Titoli di coda: una mano distrugge in un attimo l’opera perfetta e straordinaria, frutto di una dedizione totale volta a ricercare eternamente il profondo significato della vita.

Questa virtuosa creazione prende il nome di Mandala, dove minuscoli granelli di sabbia colorata vanno a disegnare figure geometriche che si intersecano, alternate ad immagini dal profondo potere allegorico.

E la mano è quella di una cultura lontanissima dalla realtà occidentale, distante da quel tipo di cinema che ancora non osava avvicinarsi alle mistiche filosofie orientali, considerate immensamente diverse dall’idea di religione fino ad allora comunemente intesa, un panteismo di altri mondi, dove la naturale bellezza delle cose è l’unico Dio legittimamente riconosciuto, e dove la sofferenza va sconfitta con la forza della semplicità.

Con questa stessa arma BERNARDO BERTOLUCCI, ormai al termine di un trittico dedicato all’Oriente, ci traghetta nelle vesti di Caronte buono al confine tre due luoghi così dissimili, non tanto definiti nelle carte geopolitiche quanto nel grande libro della storia del genere umano.

Levante e ponente si incontrano quando Lama Norbu, dal lontano Buthan, sotto indicazione del discepolo Lama Kenpo Tenzin, si reca a Seattle per conoscere il piccolo Jesse Conrad, ritenuto probabile reincarnazione del defunto maestro Lama Dorje.

Nel tempo che il bambino trascorrerà con l’anziano sapiente, tra i due verrà a crearsi una soprannaturale alchimia, dove l’uno saprà regalare all’altro qualcosa di nuovo, di impalpabile e prezioso. Parole e gesti infantili ma allo stesso tempo simbolici quelli di Jesse; pensieri profondi e verità di inestinguibile valore quelli espressi da Lama Norbu.

Maestro e discepolo, di nuovo ritrovatisi – anche se i ruoli paiono essersi ribaltati – vengono scrutati con particolare curiosità dalla madre di Jesse, Lisa, in cerca anche lei di una sapienza ultraterrena da cui si sente ancora lontana. L’atteggiamento di Dean, il padre del bambino, si rivela molto più ostile: come genitore è convinto di dover proteggere la propria famiglia da questa pacifica irruzione. In realtà le sue paure ed ansie, originate da una improvvisa situazione lavorativa fallimentare, troveranno conforto in questo viaggio spirituale al fianco del figlio. Insieme i due raggiungeranno il Buthan, per conoscere altri due piccoli possibili reincarnati come Jesse.

Il Dalai Lama, dopo averli incontrati personalmente, renderà onore a tutti e tre ritenendoli manifestazioni separate di corpo, mente e parola di Lama Dorje.

Indubbiamente appagato dal singolare esito della sua ricerca, Norbu si abbandonerà al ciclo della reincarnazione, morendo durante un pacato momento di meditazione.

Mentre gli altri due bambini sceglieranno di percorrere le vie dell’insegnamento buddista, Jesse farà ritorno al proprio presente, con nell’animo qualcosa di immensamente prezioso, portando con sé una ciotola che apparteneva a Lama Dorje e che il suo al contempo maestro e discepolo gli ha donato. L’incontro con questa cultura spiritualmente ricca di sfumature straordinarie, alla ricerca dell’assoluto, di una verità su cui fondarsi nell’universale relatività della vita, forse ha recato alla sua persona un valore aggiunto di non poco conto, insegnandogli a non accontentarsi della superficie delle cose, ma ad indagare ogni aspetto della vita, prendendo coscienza di se stesso e dei rapporti che tra lui e il mondo intercorrono.

Dentro questa favola contemporanea è tessuta un’altra grande leggenda, quella di Siddhartha Gautama, il Buddha. Questa maestosa figura entra ed esce dalla scena in maniera estremamente elegante, senza imporsi mai al di sopra del racconto, ma semplicemente rivestendone il ruolo di filo conduttore. Sono le pagine di un libro, dono di Lama Norbu a Jesse, che si animano, prendendo vita attraverso i vari protagonisti del film che si alternano nella lettura.

È fondamentale parlare di leggenda, di mito, dato che questo è il tono che Bertolucci sceglie nel disvelarci la sua visione del Risvegliato. Una scelta per nulla casuale, intelligente dimostrazione di umiltà. Come Lama Norbu prende per mano Jesse, così il regista accompagna lo spettatore in questo viaggio che è ricerca e mai vero e proprio approdo… come quel mandala che viene pazientemente costruito per poi venir spazzato via quale metafora della transitorietà della vita.

Il merito più alto di questa alternanza cosi ben congegnata all’interno della pellicola è da attribuire all’abile lavoro che ancora una volta VITTORIO STORARO compie al fianco di un collega di vecchia data. Se il regista dà voce e corpo alla narrazione conferendole una solida fisicità, Storaro, da par suo, attingendo alla sua tavolozza dalle tinte infinite, fotografa un’India senza precedenti, creando un parallelismo dal forte impatto visivo nel suo avvicendarsi con la moderna Seattle. Quando la macchina da presa si tuffa nelle atmosfere d’Oriente è una festa di colori caldi, di manti rossi e gioielli luccicanti, di una natura viva, pulsante di una ricchezza che pare alimentata da una fonte prodigiosa e inestinguibile.

Il ritorno al presente è cupo, grigio, tutto sembra addormentato, le strade per quanto trafficate paiono svuotate d’ogni elemento vitale, sembra quasi che chi le percorra non sappia né dove stia andando, né il perchè. La casa di Dean e Lisa, nonostante le finestre immense, resta buia e anonima.

Solo a tratti, grazie alla luce riflessa dai capelli biondi di Jesse, si ha l’impressione che queste due realtà tra loro estranee possano riuscire a fondersi.

C’è però uno strappo fulminante che, dentro alla coloratissima favola di Siddhartha, Storaro sottilmente pone in evidenza, ovvero la scena in cui il principe scopre l’esistenza della sofferenza, della malattia, della caducità del corpo e infine della morte. L’Oriente per un attimo smette di risplendere davanti agli occhi disperati e inconsapevoli di chi ancora non è il Risvegliato e dello spettatore stesso.

Una marcatura espressa magistralmente attraverso il ritorno a quelle tinte cupe alle quali uno dei direttori della fotografia più famosi al mondo riconduce il significato di dolore. Da qui l’errore di chi ha visto in Piccolo Buddha l’unico film di Bertolucci privo dell’elemento pessimistico e negativo peculiare della sua cinematografia.

Nonostante egli opti per una chiave di lettura della tematica buddista certamente molto più occidentale – seppur lontana da un certo manierismo di stampo europeo che, probabilmente, avrebbe calcato molto di più la mano nel disagio della modernità e nell’aridità spirituale ad essa connesso –, è facile percepire insinuarsi tra le pieghe del racconto il concetto oscuro del Samsara. Del resto è proprio la terribile legge della trasmigrazione a muovere questi personaggi e a ricondurli gli uni verso gli altri.

Perfino Jesse, proprio come il principe Siddhartha, osserverà il dolore della condizione umana e di nuovo sarà il fine modo di proporre le immagini a rendere l’intensità di questo momento.

Se è vero che dietro la cinepresa è la professionalità a fare da padrona, è vero anche che il merito di un’opera così ben orchestrata va dato ad una scelta degli interpreti sorprendentemente illuminata.

Il giovane ALEX WIESENDANGER (Jesse) appare vitale e pronto alla ricerca come il suo personaggio. Lo stesso vale per una riflessiva BRIDGET FONDA (Lisa), fragile solo in apparenza visto che sarà poi lei ad avvicinare il marito diffidente a una visione spirituale della vita. Lascia a bocca aperta vedere il bello e dannato KEANU REEVES nei panni del Buddha sotto il suo albero dell’illuminazione, con gli occhi persi oltre ogni orizzonte tangibile.

Ma la verità è che sono le immagini a rubare la scena agli attori, fino alla fine della pellicola, quando Seattle finalmente si accende di quell’atmosfera eterna ed extratemporale prerogativa di un altro mondo. Quando Jesse posa in acqua la ciotola contenente le ceneri di Lama Norbu, un sole del tutto nuovo illumina le vite che nell’immensità del Tutto hanno deciso di evadere dai limiti del proprio io.

Una favola è pur sempre retorica, altrimenti l’allegoria che essa contiene non avrebbe motivo di esistere. È il narratore che fa la differenza, e la prosa cinematografica di Bernardo Bertolucci e di Vittorio Storaro, imbevuta di una saggia pace contemplativa, rendono ancora più magico questo viaggio onirico all’interno di se stessi, che spazia fino ad arrivare all’altra parte del mondo.