Un club esclusivo
“…il Mistero del Collegio, come quello del famoso caso della Mary Celeste, rimarrà probabilmente per sempre insoluto”: è con queste parole che si conclude il romanzo Picnic a Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock, 1967) di Joan Lindsay, nella versione ufficiale che possiamo acquistare in qualsiasi libreria. Niente da eccepire: è il degno finale di un romanzo che fa del mistero il suo cuore pulsante.
La storia, a grandi linee, narra di un evento avvenuto il 14 febbraio 1900 nel Sud dell’Australia, non lontano da Melbourne, ai piedi di una imponente formazione geologica conosciuta con il nome di Hanging Rock, durante una gita organizzata da un prestigioso istituto di istruzione superiore per ragazze altolocate. Nel pomeriggio, tre delle allieve più grandi, Miranda, Irma e Marion, ottengono il permesso di allontanarsi dal gruppo per vedere la ‘Roccia’ da vicino. A loro si accoda una quarta allieva più giovane, di nome Edith, che poco dopo torna sola e in preda a un’acuta crisi di nervi, incapace di spiegare cosa sia successo alle sue tre compagne, inoltratesi lungo uno dei sentieri che si inerpicano su Hanging Rock. Come se non bastasse, durante le prime concitate fasi delle ricerche, anche l’insegnante di matematica Greta McCraw svanisce nel nulla. Delle quattro scomparse, solo Irma sarà ritrovata: alcuni giorni dopo, sulla Roccia, da due giovani che si sono improvvisati detective. È viva e tutto sommato in buone condizioni fisiche, ma immemore di quanto accaduto.
Resta dunque l’enigma di queste sparizioni, ma le indagini necessarie sono state svolte e non si percepisce in alcun modo il libro come mancante di un finale.
Eppure nel tempo qualche raro lettore, forse meno frettoloso degli altri, si è accorto che qualcosa nella storia non quadra. Una di queste persone, un professionista dell’editoria di nome John Taylor, divenne in seguito l’agente letterario di Joan Lindsay, nonché l’autore di un breve saggio dedicato proprio al mistero del finale assente: The Invisible Foundation Stone (1987).
Ma cominciamo dall’inizio, cioè dagli anni ’70 del secolo scorso, quando Mr Taylor fu incaricato (in qualità di promotion manager della casa editrice che aveva pubblicato il romanzo, la Cheshire di Melbourne) di gestire la questione dei diritti cinematografici. Doveva in pratica incontrare i vari pretendenti alla realizzazione di un film tratto dal libro, e decidere a chi fosse meglio affidare il compito. La sua scelta cadde infine su Patricia Lovell e Peter Weir, rispettivamente produttrice e regista, che egli condusse personalmente a incontrare la scrittrice.
La sua descrizione dell’incontro è così spassosa che merita di essere riportata per esteso: “Come d’abitudine con Joan, lei decise subito che erano loro [Lovell e Weir] le persone giuste e avremmo potuto andarcene già dopo cinque minuti. Passammo però un piacevole pomeriggio a conversare e guardare le sue foto, e a subire il suo fascino – un effetto che lei produceva senza nessuno sforzo o artificio. Io naturalmente, essendo un professionista dell’editoria, non avevo letto il libro. Le persone nel campo dell’editoria raramente hanno tempo di leggere qualcosa – un fatto che dà conto di gran parte delle tensioni che si accumulano tra loro e gli autori. Gli editori identificano i singoli libri con i loro ‘titoli’ e qualificano un insieme di più libri come un ‘elenco’. Gli elenchi di titoli sono tutto ciò con cui ha a che fare l’editoria. Le pagine stampate vere e proprie portano via troppo tempo. Ero di conseguenza disorientato da alcuni punti della conversazione che vertevano su qualcosa tipo un mistero insoluto. Io annuivo con convinzione, mentre dicevo a me stesso che era meglio che mi procurassi una copia del libro da leggere nel weekend; cosa che poi feci. La volta successiva che vidi Joan, le dissi che avevo notato alcune cose che non tornavano e avevo tratto delle conclusioni. «Ah», rispose, «sei una delle poche persone che se ne sono accorte». Ero contento di essere entrato a far parte di un club esclusivo”.
Ciò di cui si era accorto John Taylor, e con lui le persone che facevano parte del ‘club esclusivo’, era un’incongruenza presente nel terzo capitolo del libro, quello che racconta la sparizione delle ragazze.
Prima troviamo scritto: “Le felci lasciarono presto il posto a una fascia di arbusti folti e spinosi che terminava in una sporgenza rocciosa, tanto alta da giungere loro fino alla cintura. Miranda fu la prima a uscire dalla boscaglia […] Si ritrovarono su una piattaforma quasi circolare racchiusa tra rocce, macigni e pochi alberelli dritti. Irma scoprì subito una specie di feritoia in una delle rocce e contemplava affascinata, laggiù, il campo del picnic”.
Poi, solo poche pagine dopo: “Miranda avanzava per prima mentre le altre ragazze si dovevano aprire un varco attraverso i cornioli, ed Edith arrancava dietro a loro. […] La piattaforma semicircolare sulla quale adesso erano sbucate aveva quasi la medesima configurazione di quella più in basso, circondata di massi e di pietroni sparsi. Cespugli di felci gommose, immobili nella luce diafana, non proiettavano alcuna ombra sul terreno di secco muschio grigio. La pianura sottostante si vedeva appena, infinitamente vaga e lontana. Aguzzando lo sguardo tra i massi, Irma distingueva lo scintillio dell’acqua e minuscole figurine che andavano e venivano tra banchi di fumo rosato, o di nebbia”.
L’impressione che ebbe Taylor leggendo fu che la stessa scena, per qualche misterioso motivo, fosse stata descritta due volte in due modi diversi. E poiché finivano così per esserci due salite e due piattaforme semicircolari là dove ne esistono effettivamente solo una e una, la topografia nel romanzo non coincideva più con quella fisica di Hanging Rock – con grave disagio, va aggiunto, per i tanti escursionisti che si proponevano di ripetere sulla Roccia lo stesso percorso descritto nel libro.
Ma cos’era successo esattamente?
Era successo che alla casa editrice di Melbourne, al momento di pubblicare il libro, avevano richiesto a Joan Lindsay il consenso di omettere il diciottesimo e ultimo capitolo, e lei aveva acconsentito. E per supplire alla carenza di informazioni che derivava dall’eliminazione del finale si era ricorsi all’espediente di prendere una parte di quel capitolo e trasferirla nel capitolo 3. Di qui la ripetizione.
Ed è a questo punto che entra in gioco la scoperta di John Taylor: “Cosa avevo scoperto? Niente di più che alcune parole nel capitolo 3 non sembravano starci bene – che i riferimenti a ‘banchi di fumo rosato’ e ‘il battere remoto dei tamburi’ sembravano anticipare eventi successivi e che l’autrice sembrava divertirsi a giocare con il tempo”.
Com’è adesso chiaro, alcune parti del capitolo 18 sono state trasferite – senza grande perizia – nel capitolo 3.
Il manoscritto usato dall’editore e dal tipografo non è sopravvissuto, così nessuno può esaminare il metodo con cui si è proceduto. A posteriori, sembra più un lavoro di copia-incolla che di riscrittura.
Il film impossibile
Evidentemente l’editore, o chi per lui, aveva ritenuto preferibile un finale avvolto nel mistero, che non spiegasse troppe cose. Ma si trattò di una decisione che ebbe ripercussioni importantissime al momento di trasporre l’opera sullo schermo.
E anche a questo proposito vale la pena citare John Taylor: “[cancellare il capitolo] fu una decisione puramente letteraria, ma gli storici possono ben affermare che il suo risultato indiretto fu la creazione dell’industria cinematografica australiana così come la conosciamo – perché è molto improbabile che ci sarebbe mai stata, nel 1972, una corsa all’acquisto dei diritti del film se il capitolo 18 non fosse stato cancellato. Come chiunque può vedere, il capitolo è assolutamente non filmabile. I film possono funzionare solo con ciò che gli ha dato Dio, e Dio non ha loro concesso la stessa flessibilità che ha garantito ai romanzi – sebbene la gente continui a fare tentativi, come i cumuli di scarti di pellicola continuano a testimoniare”.
Ora, è quasi superfluo dire che al giorno d’oggi problemi simili non si pongono neppure; ma è facile credere, anche senza voler condividere in toto il pessimismo di Taylor, che prima dell’era digitale la trasposizione filmica del capitolo 18 avrebbe richiesto un notevole dispiego di ingegno e di mezzi, tale forse da spaventare molti registi e produttori.
Si trattava in essenza (lo dico senza svelare troppo del testo del capitolo) di trasformazioni di esseri umani in animali molto diversi da loro e tra loro. Cioè non proprio la stessa cosa che trasformare, per esempio, Lon Chaney Jr. in Uomo Lupo, dove per ottenere il risultato desiderato bastava filmare le differenti fasi di make-up e poi collegarle tra loro con un effetto di dissolvenza.
Ma a questo punto è anche chiaro, per chi ha letto Picnic a Hanging Rock nella versione pubblicata, che abbiamo a che fare in questo capitolo scomparso con un tipo o livello di narrazione molto lontano da tutto ciò che lo precede nel libro. Non c’è infatti nulla nei primi diciassette capitoli, come pure nel film, che operi su un piano così totalmente fuori dell’ordinario. Esiste sì una sorta di sottotesto magico che percorre un po’ tutto il romanzo (e il film) e che preme in più punti per affiorare, ma in nessuna pagina ci troviamo davanti a qualcosa di paragonabile a ciò che ci aspetta nel capitolo 18. Al massimo ci viene detto che a mezzogiorno in punto nell’area del picnic ai piedi della Roccia si arrestano le lancette di tutti gli orologi.
Un incipit memorabile
Fu proprio a John Taylor che Joan Lindsay consegnò, alcuni mesi dopo il loro incontro, il manoscritto del diciottesimo capitolo, e sempre a lui, nel 1980, cedette il copyright sul medesimo testo.
Così Taylor riporta l’evento nel suo scritto The invisible Foundation Stone: “Joan mi dette il copyright, da usare a mia discrezione dopo la sua morte (aveva 84 anni all’epoca), come parte di una sua più generale reazione di orrore nei confronti del diluvio di richieste di informazioni che le venivano rivolte, soprattutto dopo la realizzazione del film. Ogni volta che una ‘soluzione’ farlocca veniva strombazzata da un quotidiano, il diluvio aumentava di proporzioni. Essendo io diventato all’epoca il suo agente letterario, dovevo far fronte a tutto ciò – semplicemente dicendo che Lady Lindsay non era interessata a discutere la questione. E quantunque lei sapesse molto bene che l’enorme successo sia del libro che del film aveva a che fare con il mistero di ‘cosa fosse veramente accaduto’, in certi momenti desiderava di aver pubblicato il capitolo finale ed essersi risparmiata tutto il fastidio”.
Ma, proprio come richiesto dall’autrice, il capitolo 18 vide la luce solo dopo la sua morte – tre anni dopo, per l’esattezza, nel 1987 – come parte centrale di un libricino in tre parti dal titolo The Secret of Hanging Rock, che comprendeva come testo introduttivo il citato The Invisible Foundation Stone e come parte finale un Commentario (A Commentary on Chapter Eighteen) di Yvonne Rousseau. Quest’ultima aveva scritto nel 1980 un libro di duecento pagine intitolato The Murders at Hanging Rock, nel quale proponeva una serie di possibili soluzioni al mistero della scomparsa, ciascuna basata su una diversa visione del mondo. Come spiega lei stessa nel Commentario, ai due estremi di questo spettro di ipotesi c’erano le soluzioni ispirate, rispettivamente, da una visione meccanicista della realtà e dalla visione magica dell’ermetismo occidentale. E tutto questo, ricordiamolo, senza che lei avesse avuto modo di disporre del finale del libro, ancora inedito all’epoca.
Ma proprio la pubblicazione del capitolo 18 renderà, alla fine, parzialmente vani i suoi sforzi, invalidando proprio quella visione pluralistica della questione su cui lei aveva basato The Murders at Hanging Rock. Il che la spinge a scrivere, nel Commentario: “[…] stavolta non supporterò più in alcun modo l’affermazione di Joan Lindsay che la soluzione del mistero non è importante. Cercherò invece quell’unica visione del mondo che rende il capitolo in sé coerente. E farò questo chiarendo cosa effettivamente succede e come il capitolo si relaziona al resto del libro”.
In altre parole: la pubblicazione del capitolo 18 ha finalmente messo fuori gioco tutte le ipotesi (e le relative visioni del mondo) salvo una. Prima di svelare quale, trascriviamo l’incipit – mozzafiato – del capitolo. Un incipit che, per qualcuno, potrebbe perfino rappresentare un indizio sufficiente: “Sta accadendo adesso. Come accade da quando Edith Horton corse inciampando e urlando verso la pianura. Come continuerà ad accadere fino alla fine del tempo. La scena non è mai cambiata al di là del cadere di una foglia o del volo di un uccello. Per le quattro persone sulla roccia tutto accade sempre nel tiepido crepuscolo di un presente senza un passato. Le loro gioie e agonie sono nuove ogni volta. Miranda è poco più avanti di Irma e Marion, mentre si apre un varco attraverso i cornioli; i suoi lisci capelli biondi fluttuano liberi come seta di granturco sulle sue spalle che a forza di spinte fendono, come fosse una nuotatrice, un’onda dopo l’altra di verde polveroso. Un’aquila che si libra alta allo zenith, veduto un tremolio insolito di macchie più chiare in basso tra la boscaglia, si allontana verso zone più alte e più pure. Finalmente la macchia comincia a diradarsi, davanti a un breve dirupo che trattiene gli ultimi raggi del sole. E così è per milioni di sere estive, mentre lo schema si forma e si riforma tra gli speroni di roccia e i pinnacoli di Hanging Rock”.
Mitopoiesi e Tempo del Sogno
Potrà sembrare strano, ma la prima volta che lessi queste righe straordinarie non solo rimasi, come ho detto, senza fiato, ma il mio pensiero andò spontaneamente a una frase che ho sempre conservato gelosamente nella mia memoria fin dalla prima volta che ebbi occasione di leggerla. È in realtà una frase famosissima, inserita anche da Roberto Calasso in epigrafe a Le Nozze di Cadmo e Armonia, ed è tratta da Degli Dei e il Mondo, piccolo catechismo pagano scritto dal filosofo romano Sallustio. Costui visse nel IV secolo d.C. e fu amico di Giuliano, imperatore dell’Impero Romano d’Oriente, detto ‘l’Apostata’ per il suo tentativo (fallito) di reintrodurre il paganesimo come religione ufficiale dell’Impero.
Ma ecco la frase: “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”.
E poiché queste parole sono riferite al tempo senza tempo in cui si ‘svolgono’ gli eventi del mito, non posso che sottoscrivere in pieno la convinzione di Yvonne Rousseau che sia proprio la visione mitopoietica l’unica in grado di ‘spiegare’ in modo coerente gli eventi di Picnic a Hanging Rock, soprattutto quelli del capitolo 18.
Dobbiamo in particolare – e non può essere altrimenti dal momento che è di Australia che stiamo parlando – rivolgere la nostra attenzione al Tempo del Sogno, il sistema religioso, mitico e cultuale su cui si fonda la visione del mondo degli aborigeni australiani.
Come scrive Yvonne Rousseau: “La mia personale spiegazione delle anomalie del capitolo 18 invocherà il modello di sovrannaturale degli aborigeni australiani – che è tradotto in inglese come Dreaming [e in italiano come ‘Tempo del Sogno’]. Nella visione dell’occultismo occidentale, il corpo di un essere umano può giacere in trance o in stato di sogno mentre la coscienza si muove in forma astrale, invisibile agli altri. Allo stesso modo, possiamo supporre che il paesaggio australiano abbia un corpo astrale per un utilizzo nel Tempo del Sogno, e che le persone e gli Antenati che compaiono nelle leggende del Tempo del Sogno si stiano muovendo nella coscienza astrale del paesaggio, essendo stati rimossi dalla loro consapevolezza fisica. È stato così nel caso delle ragazze e della McCraw. Mentre rimangono nel paesaggio astrale o consapevolezza di sogno, sono solo esseri virtuali; non hanno realtà fisica più di quanta ne abbia lo scenario in cui sono immerse, con la sua strana luce”.
La McCraw menzionata è, come abbiamo visto all’inizio, l’insegnante di matematica. È lei la quarta persona citata nell’incipit di poco fa, dal momento che Edith Norton era fuggita urlando dalla Roccia e aveva fatto ritorno all’area del picnic alla fine del capitolo 3 (senza l’effetto di ripetizione di cui abbiamo parlato, dovuto alla retrocessione di brani del capitolo rimosso, Edith avrebbe abbandonato la Roccia già al termine della prima salita e non dopo la seconda com’è invece nel libro pubblicato). È proprio dopo l’uscita di scena di Edith e il passar oltre il monolite da parte di Miranda, Marion e Irma (Miss McCraw si aggiungerà solo in seguito) che alla realtà familiare del mondo fisico si sostituisce il Tempo del Sogno, e possono aver luogo gli eventi straordinari narrati nel capitolo 18.
Il mistero dei corsetti sospesi
Yvonne Rousseau ritiene di avere individuato, in base allo svolgimento del capitolo 18, quale sia il Sogno ‘creato’ da Joan Lindsay: “Nella leggenda del Tempo del Sogno che racconta l’avventura del Picnic, possiamo supporre che un’aquila di passaggio lasci cadere un granchio di fiume dove stavano dormendo la lucertola e lo scarabeo”.
Nello specifico, è Miranda ad avere come spirito-antenato, o totem personale, lo scarabeo e Marion la lucertola. Irma è un caso a parte, come vedremo più avanti. Mentre il granchio ha a che fare con Miss McCraw; come forse suggerisce anche il cognome, dal momento che granchio in inglese è crab.
Altra prova dell’aggiunta di una nuova dimensione alle tre della realtà ordinaria si ha nel momento in cui le ragazze, dopo essersi già tolte scarpe e calze, decidono di liberarsi anche dei corsetti che le opprimono; quando li gettano dalla Roccia, i corsetti non cadono ma rimangono immobili a mezz’aria. Allora Miss McCraw, che ha acquisito una misteriosa sapienza oracolare, fornisce la sua spiegazione dicendo che, secondo lei, i corsetti sono rimasti impigliati nel tempo.
Singolari annali storici
Il corrispettivo inglese di Tempo del Sogno è Dreaming, o Dreamtime, ed è stato usato all’inizio del XX secolo da Baldwin Spencer e Francis Gillen come traduzione del termine australiano alcheringa nei loro studi antropologici e sociologici – studi che hanno influenzato, tra gli altri, James Frazer, l’autore de Il Ramo d’Oro (The Golden Bough, 1890) e Freud.
Ma è l’antropologo e sociologo, oltre che prete anglicano, Adolphus Peter Elkin a delineare con maggior precisione i termini del concetto e a diffonderlo negli anni ’30 e ’40 del Novecento, soprattutto attraverso i suoi saggi più noti: The Australian Aborigines (1938) e Aboriginal Men of High Degree (1946). Nel primo, pur puntualizzando che la visione aborigena della vita non è solo animista e totemica ma anche storica, Elkin chiarisce che lo è però in termini molto lontani dai nostri; senza tuttavia voler significare, con questo, che il passato “sia un prodotto di fantasia o di un’immaginazione a briglia sciolta… I miti del Tempo del Sogno sono annali storici… Ma il tempo a cui si riferiscono partecipa della natura dei sogni perché, come nel caso di questi, passato, presente e futuro sono in un certo senso coesistenti”.
E appare adesso molto chiaro di cosa stia parlando Joan Lindsay quando scrive nel già citato incipit del capitolo 18: “Sta accadendo adesso. Come accade da quando Edith Horton corse inciampando e urlando verso la pianura. Come continuerà ad accadere fino alla fine del tempo”.
Terra nullius
Cioè disabitata e pronta a diventare proprietà di chi vi si stabilisca. Così i primi europei che vi approdarono dichiararono essere l’Australia. Eppure, da un certo punto di vista, non c’era forse terra più ‘abitata’ di quella, sull’intero globo terracqueo.
Per comprendere questo punto, proviamo adesso a immaginare il continente australiano dell’epoca come un gigantesco tappeto formato da una trama fitta e intricata – e anche molto colorata. Ed ecco che ci troviamo a contemplare le famose Songlines (Vie dei Canti), nelle quali lo scrittore Bruce Chatwin ravvisò il principio essenziale alla base della condizione nomade e che dettero anche il titolo al suo capolavoro.
Le Vie dei Canti sono gli itinerari seguiti, sul suolo australiano, da determinati Antenati o eroi (che hanno per lo più natura totemica e sono perciò spesso raffigurati in veste di animali), nel tempo mitico della creazione o Tempo del Sogno. Essi, emersi in superficie dalle loro dimore ancestrali, cantavano le cose lungo questi itinerari e così facendo creavano il mondo. Per gli aborigeni ‘cantare’ a loro volta le gesta compiute dall’eroe, o dai gruppi di eroi, lungo questi stessi itinerari significa riattualizzarle e mettere in comunicazione il tempo presente con l’era del mito.
Non tutta la superficie del continente australiano ha però un significato mitologico, ed esistono anche delle effettive ‘terre di nessuno’. In genere, a rendere sacra una determinata porzione di paesaggio sono particolari eventi geologici o elementi naturali significativi (Hanging Rock, per esempio), che testimoniano l’atto creativo di cui è stata sede. Le località sacre possono essere raggiunte solo ripercorrendo ritualmente lo stesso itinerario seguito in origine dall’eroe o dal gruppo di eroi, e accade pure che in uno stesso luogo (ma non necessariamente nello stesso tempo) possano incrociarsi i sentieri di due o più eroi o gruppi di eroi.
Lungo questi sentieri che collegano tra loro i siti sacri sono situati i centri vitali e spirituali delle varie specie naturali, così come gli spiriti dei nascituri che esistono fin dall’età mitica della creazione e si reincarnano a varie riprese nei membri dell’una o dell’altra tribù locale. In modo analogo, dopo la morte lo spirito del defunto ritorna alla sua sede spirituale.
Sono le stesse tribù locali a essere custodi del mito di un particolare itinerario, e dei riti e del luogo che vi sono collegati. Ma si tratta in genere solo di un capitolo, cioè di un particolare tratto della Songline. Nessuna singola tribù possiede infatti un canto dei maggiori miti nella sua integrità, dato che l’itinerario di ciascuno di questi può attraversare il suolo australiano per lunghezze di molte centinaia di miglia.
Possedere solo una parte di un mito – si può dire che sia proprio questa conoscenza ripartita a rendere una tribù diversa dall’altra – implica l’inevitabile interdipendenza tra tutte le tribù dislocate su uno stesso sentiero mitologico. Soltanto la cognizione di un mito nella sua integrità e l’esecuzione di tutti i riti collegati possono infatti garantire la continuità con il passato e il benessere della natura e dell’essere umano.
Il Sogno del Picnic
Facciamo ora ritorno al nostro capitolo 18 e consideriamo ciò che accade a Miranda e Marion a Hanging Rock, in questi termini: diventano, entrambe loro, incarnazioni di spiriti-antenati che hanno nella Roccia il loro centro vitale e spirituale.
Per quanto riguarda invece la McCraw è lecito supporre, come fa Yvonne Rousseau, che il suo antenato totemico, il granchio che abita i billabong, sia stato portato in volo e lasciato cadere su Hanging Rock dalla stessa aquila che volteggia in alto a più riprese sopra la Roccia.
Irma non sembra avere, dal canto suo, nessun corrispettivo totemico in quel luogo e non è quindi soggetta a una trasformazione ‘fisica’, né riesce a completare il viaggio e accedere, come fanno invece le sue tre compagne di avventura, a una dimensione ulteriore, quella che Miranda definisce semplicemente come ‘luce’. Alla fine Irma viene ‘espulsa’ dal Tempo del Sogno e fa ritorno alla realtà fisica ordinaria. In termini fisici: a differenza delle altre, viene ritrovata e soccorsa sulla roccia.
Ma l’incipit del capitolo 18 indica anche, allo stesso tempo e in modo inequivocabile, la fondazione di una nuova mitologia connessa alla Roccia, in cui sono coinvolte indelebilmente tutte e quattro le donne.
In ultima analisi, forse, è proprio questo il vero mistero di Hanging Rock: su quale base Joan Lindsay ha creato questo mito, che potremmo chiamare ‘Il Sogno del Picnic a Hanging Rock’? Il suo è stato solo un gioco letterario o era venuta a conoscenza di qualcosa? Sono domande che resteranno probabilmente per sempre senza risposta; tuttavia almeno una fonte di ispirazione diretta e accertata esiste, ed è la stessa Lindsay a nominarla nel capitolo 3, per bocca di Miranda: “«Ho l’impressione che debba esserci un sentiero da qualche parte, quassù» disse Miranda. «Mi ricordo che mio padre mi fece vedere un quadro con della gente vestita all’antica in un picnic alla Roccia. Mi piacerebbe sapere dove era stato dipinto»”.
Il quadro in questione è At the Hanging Rock (1875) di William Ford. Ma è tutt’altro che rivelatore e anticipa ben poco delle tematiche e dell’atmosfera del romanzo. Ci resta allora un ultimo indizio a cui aggrapparci, e si trova nella parte conclusiva di The Invisible Foundation Stone: “Un giorno lei [Joan Lindsay] mi mostrò altre lettere di persone che avevano condotto ricerche infruttuose in vecchi quotidiani, sperando di rintracciare gli eventi ‘reali’. Accennai al fatto che era un peccato che perdessero così tanto tempo. «Sì» disse Joan – e poi, in modo assente: «Ma qualcosa accadde». Se quel qualcosa accadde nei quotidiani, in qualche aneddoto che aveva ascoltato, o nelle interconnessioni della sua immaginazione con altri mondi o altri tempi, non avevo idea – e non ci tenevo a saperlo”.
È meglio che niente, ma difficilmente sarà possibile spingersi oltre.
Per chi vuole saperne di più
In chiusura, voglio consigliare almeno un libro e un film dedicati all’argomento Tempo del Sogno e Songlines.
Il libro è il già citato Le Vie dei Canti (The Songlines, 1987) di Bruce Chatwin, pubblicato in Italia da Adelphi. Che è, come dice la nota in quarta di copertina, “Il libro che Chatwin inseguì per anni e che fece appena in tempo a scrivere”. Stilato con profondità di intenti e di pensiero, ma anche con la fluidità e la leggerezza di un romanzo, è la lettura ideale per chi voglia comprendere l’essenziale del Tempo del Sogno in modo piacevole e a tratti divertente. Tutt’altra cosa, cioè, dai libri di A.P. Elkin, che raccomando sicuramente ma che, essendo testi di natura scientifica, possono rappresentare per molti una lettura non abbastanza comoda.
Mi sento invece di sconsigliare un altro libro ‘facile’, a suo modo anche blasonato: E Venne Chiamata Due Cuori (Mutant Message Down Under, 1990) di Marlo Morgan; a mio avviso offre una visione distorta della materia, alla maniera tipica della New Age.
Un discorso analogo si può fare per il cinema: suggerisco vivamente la visione del bellissimo Dove Sognano le Formiche Verdi (Wo die Grünen Ameisen Träumen, 1984) di Werner Herzog; mentre sconsiglio, spiace dirlo, L’Ultima Onda (The Last Wave, 1977) di Peter Weir (lo stesso regista di Picnic a Hanging Rock) che, pur affrontando stavolta in modo scoperto la tematica del Tempo del Sogno, lo fa spettacolarizzando troppo.
Il film di Herzog è costruito in modo intelligente; anche se è fondamentalmente basato sul tema dello scontro di civiltà, riesce ad aprire almeno una fessura attraverso la quale sbirciare nelle tematiche di cui abbiamo parlato. La storia che racconta è inoltre ispirata a un evento reale: la prima causa intentata dagli aborigeni australiani contro una compagnia mineraria per violazione di un loro luogo sacro. La persero ma, proprio come Herzog ci mostra, dopo il verdetto il giudice espresse il proprio rammarico per essere stato costretto ad applicare la Legge in contrasto a quello che lui personalmente riteneva giusto.
Dove Sognano le Formiche Verdi ha molti retroscena interessanti, a cominciare dalla mitologia che dà il titolo al film, creata dallo stesso Herzog, che si era consultato con i membri di una tribù aborigena per vedere fin dove gli era consentito spingersi nella sua creazione. Gli stessi attori aborigeni facevano parte di questa tribù, che viveva in realtà presso il golfo di Carpentaria, cioè oltre 2000 chilometri più a nord rispetto all’insediamento minerario di Coober Pedy dove è stato effettivamente girato il film. Una scelta all’apparenza strana, ma dettata dal fatto che, a differenza degli aborigeni dell’outback australiano, costoro mantenevano ancora intatta la loro struttura sociale.
Un altro aneddoto interessante è che durante le riprese Herzog ebbe l’occasione di incontrare proprio Bruce Chatwin, che si trovava in Australia per le sue ricerche sul nomadismo poi sfociate appunto ne Le Vie dei Canti. Chatwin era solito viaggiare con una borsa apposita per i libri (ne conteneva cinque o sei, fra cui le immancabili Metamorfosi di Ovidio), e pare che in quel viaggio avesse con sé un libro scritto da Herzog. Fu proprio al regista tedesco che Chatwin lasciò infine in dono, prima di morire, quella borsa.