Pirateria Mediterranea nell’Alto Medioevo
Premessa
Diversi da quelli comunemente immaginati, i pirati del Mediterraneo nell’Alto Medioevo imperversarono all’interno di un mare chiuso ma tutt’altro che piccolo per quei tempi, e straordinariamente vario in numero di popoli, lingue, culture. In questo esteso specchio d’acqua eterogeneo e capriccioso, burrasche invernali e bonacce estive rendevano la navigazione un fatto eminentemente stagionale e costiero; raramente le navi dell’epoca, poco robuste, s’inoltravano in mare aperto.
Erano imbarcazioni derivate da quelle dell’Impero Romano – per esempio, il dromone, la tipica nave da guerra del Mediterraneo utilizzata dall’VIII all’XI secolo, era affine alla romana liburna – e ricordavano le più note trireme (navi a tre ordini di rematori sistemati su tre ponti sovrapposti), lunghe e strette.
La direzione veniva governata tramite due remi a poppa, e mancavano anche le più semplici strumentazioni di navigazione: per determinare la posizione della nave, i marinai si affidavano – navigando di cabotaggio (lungo le coste) – alla loro conoscenza delle linee costiere, delle correnti e dei venti.
Dotate di un singolo albero a vela quadra, le imbarcazioni di quel periodo erano prive di ponte di coperta e quindi di riparo in caso di mal tempo o di attacco con armi da getto da parte dei nemici; i rematori indossavano appunto elmo e corazza, pronti a tramutarsi in guerrieri in caso di abbordaggio o di assalto alla costa.
Gli equipaggi erano formati da uomini liberi, non da coscritti incatenati al remo. Spesso si trattava di contadini delle riviere pietrose della Liguria e della Provenza, oppure di quelle paludose della Toscana, che si imbarcavano nei primi mesi dell’inverno e in quelli primaverili.
Il mestiere di rematore era complesso e faticoso, ma garantiva ottimi pasti e buoni compensi, determinati anche in base alla posizione occupata nello scafo: i rematori di poppa e di prua erano coloro che avevano la maggiore esperienza e quindi paga migliore.
A puntare unicamente sulla velatura erano invece le imbarcazioni destinate al commercio, e proprio quest’ultime, meno manovrabili e meno veloci (almeno sul breve tragitto), costituivano le prede più facili e ambite.
In questa epoca non si può tuttavia parlare di veri e propri pirati, come quelli che – non riconoscendo bandiere né patrie – depredavano ogni nave incrociata; assomigliavano piuttosto a quella forma antica e primordiale di predoni dei mari, quella in cui erano intere popolazioni, abitanti in strette terre affacciate sul mare, a imbarcarsi periodicamente per andare ad assalire altre comunità in altre terre, più o meno lontane.
I Vandali
Il dissolversi dell’Impero Romano d’Occidente, durante il V secolo d.C., lasciò dietro di sé una situazione sfavorevole al commercio e ai traffici marittimi, e di conseguenza anche alla pirateria.
Il sistema dell’Annona aveva convogliato (dalle coste della provincia d’Africa a Roma) grandi quantità di grano e altre derrate alimentari, e vasti latifondi erano stati concentrati nelle mani dei senatori di Roma, che conservavano una visione della proprietà e della ricchezza incentrata più sul possesso terriero che sul commercio via mare. Assai diverso il quadro per il Mediterraneo orientale, su cui si affacciavano civiltà ancora più antiche, di precoce tradizione urbana e commerciale, senza un forte ceto senatoriale composto da grandi latifondisti capaci di bloccare – volendolo – i traffici di intere regioni.
Questa situazione si sbloccò con l’irrompere delle popolazioni germaniche nello spazio mediterraneo, soprattutto del popolo dei Vandali che, guidato dal suo geniale sovrano Geiseric (GENSERICO), s’impadronì delle ricche province d’Africa, dopo avere imperversato nella Penisola Iberica.
Conquistata nel 426 Cartagena – sede della più importante flotta imperiale della regione iberica – e accortosi che quelle terre erano troppo impoverite e affollate di altri popoli bellicosi, Geiseric guidò nel 429 il proprio popolo oltre lo stretto di Gibilterra, dando il via a una nuova, irresistibile serie di conquiste che lo portò a prendere Cartagine nel 439 e a fondare il Regno Vandalico sui resti delle Provincie annonarie di Roma.
Ecco quindi, già dall’anno seguente, i Vandali compiere un primo assalto alla Sicilia, terra che conquisteranno solo ventotto anni dopo, dopo diversi tentativi falliti. Nel 467 s’impadronirono della Sardegna una prima volta, perduta e poi ripresa nel 482; e anche la Corsica (in data e per un periodo non noti con certezza) venne da loro occupata.
Ogni anno, a primavera, le navi vandale prendevano il mare per condurre sistematiche azioni di devastazione e brigantaggio. Nelle loro incursioni a terra, questi predoni cercavano legname – per le esigenze della flotta – e persone da catturare e rivendere come schiavi, l’attività economica più stabile e duratura della pirateria per tutto il Medioevo e oltre.
L’espansione Araba prima dell’anno 1000
L’espansione vandala, che aveva interessato le coste occidentali del Mediterraneo, venne annullata nel 533 d.C. dalla riconquista a opera di GIUSTINIANO I, Imperatore d’Oriente. Per circa un secolo il Mediterraneo tornò a essere un luogo sicuro per la navigazione. Dalle sabbie d’Arabia giunse però nel 632 una tempesta tanto improvvisa e potente da rivoluzionare per sempre la geografia politica e culturale del Mediterraneo.
In quell’anno, infatti, morì MAOMETTO, il Profeta dell’Islam, e iniziò la formidabile espansione del popolo arabo.
Via mare, Cipro venne attaccata già nel 649 dal capoclan MU’AWIYA (futuro fondatore della dinastia califfale omayyade); la capitale dell’Impero d’Oriente, Costantinopoli, venne assalita per la prima volta nel 717, sempre dal mare, e si salvò solo grazie all’impiego del “Fuoco Greco”, la misteriosa miscela incendiaria che bruciava anche in acqua.
Verso l’anno 890, i Saraceni sbarcarono in Provenza dove si allearono con i signori del luogo. Dalle loro basi fortificate a Fraxinetum (22 km a nord-ovest dell’odierna Saint Tropez), compirono scorrerie lungo le coste e zone adiacenti (come Marsiglia e Nizza) e verso l’entroterra, spingendosi fino alle Alpi e alla pianura piemontese, dove assalirono le carovane di pellegrini e di mercanti.
Nel 906 saccheggiarono e distrussero l’Abbazia di Novalesa. Intorno al 935, corsari dell’Ifriqiya arrivarono a saccheggiare Genova.
L’obiettivo era far bottino, il più facilmente e velocemente possibile; non solo furti ma anche rapimenti a scopo di riscatto, o rastrellamenti per il mercato degli schiavi del neonato, immenso, spazio musulmano. Talvolta le predazioni ripetute si tramutavano in insediamenti stabili, piccoli emirati (come la stessa Fraxinetum e altri impiantati in Sardegna, in Puglia e in Campania) che serviranno in seguito come basi da cui lanciare nuovi attacchi.
Poco si conosce delle imbarcazioni impiegate dai predoni saraceni, di come venivano costruite e armate. Ciò sia per l’epoca avara di fonti attendibili, sia per la proibizione musulmana alle raffigurazioni. Si trattava comunque di navi più grandi e lente rispetto a quelle bizantine, quindi costrette a seguire una tattica avvolgente per togliere mobilità alle imbarcazioni nemiche.
Alcuni termini “marinari” di origine araba sono filtrati nelle lingue neolatine: amèras, con significato di “capo d’armata o governatore di provincia”, divenuto “almirante” in spagnolo e “ammiraglio” nella nostra lingua; dàr ar-sina, (stabilimento per l’allestimento di navi da guerra), passato sotto varie forme e parlate negli odierni arsenale e darsena.
La Minaccia Vichinga
Nell’anno 859 si manifestò una nuova minaccia per le rotte e le coste del Mediterraneo occidentale: la prima flotta di pirati normanni. Di questa loro prima spedizione conosciamo il percorso che – essendo i Normanni nuovi del nostro mare – ha dello sbalorditivo.
Partito da una colonia normanna alla foce della Senna, questo gruppo di “navi lunghe” costeggiò la Bretagna, il Golfo di Biscaglia, la costa settentrionale della Penisola Iberica e, superato lo Stretto di Gibilterra, attaccò alcune località marocchine, per risalire poi a nord, arrembando le isole Baleari (allora in mano saracena) e devastando il Rossiglione e la Camargue.
Stabilito un campo invernale alla foce del fiume Rodano, i pirati vichinghi ripartirono la primavera successiva saccheggiando alcune città provenzali, fra cui Arelate (Arles), spingendosi poi ancora più verso oriente, verso le coste italiane, attaccando Pisa, proseguendo lungo l’Arno probabilmente sino a Fiesole e infine ritirandosi.
L’anno successivo la flotta normanna riprese la rotta di casa, rientrando si ritiene nell’862.
Quella spedizione fu un esempio lampante di quale capacità organizzativa avessero quei popoli del lontano nord.
Se le scorrerie normanne, in questa fase e con queste modalità, non durarono oltre il 910, la loro eco fu ben più duratura. Tuttora basta dire “vichingo” per rievocare un’immagine di spietata ferocia piratesca. Un esempio di quale impressione sortissero simili attacchi agli occhi delle popolazioni europee del tempo viene fornito dalla Storia dei Miracoli e delle Traslazioni di San Filiberto, scritta fra l’840 e l’862 da ERMENTARIO, di cui si riporta un passo:
“La cifra delle navi aumenta. La moltitudine dei Normanni non cessa di crescere, ovunque i Cristiani sono vittime di massacri, di saccheggi, di devastazioni, di incendi, di cui resteranno evidenti le macerie finché durerà il mondo. Essi conquistano tutte le città che raggiungono senza che nessuno resista loro, prendono Bordeaux, Periguex, Limoges, Angoulém e Tolosa; Angérs, Tours, Orleans sono annientate, molte reliquie di santi sono rapite. Così, a poco a poco, si realizza la minaccia preferita dal Signore per mezzo del suo profeta: «un flagello venuto dal Nord si spanderà su tutti i popoli della terra (…)». Qualche anno dopo un numero incalcolabile di navi normanne risale il fiume Senna. Il male aumenta in questa regione. La città di Rouen è invasa, saccheggiata, incendiata; Parigi, Beauvoais e Meaux sono prese; la fortificata Mellun è devastata. Chartres è occupata. Evreux è saccheggiata come Bayeux e successivamente tutte le altre città. Non esiste quasi luogo, né monastero, che sia rispettato, tutti gli abitanti fuggono e rari sono quelli che osano dire: «restate, restate, resistete, combattete per il vostro paese, per i vostri figli, per la vostra famiglia». Nel loro torpore, in mezzo alle rivalità reciproche, essi riscattano con tributi ciò che avrebbero dovuto difendere con le armi e lasciano affondare il regno cristiano.”
La ricerca storica ha lavorato alla migliore comprensione di queste popolazioni che, dalla Scandinavia, si sono proiettate nel vasto mondo, colonizzando territori che vanno dall’odierna Russia a est, all’Italia meridionale a sud, all’Islanda e Groenlandia a ovest. Erano davvero tanto terribili?
Certamente essi seppero ben organizzarsi, spinti com’erano alla vita marinara. Basti pensare che i tumuli funerari dei Normanni più poveri erano ricoperti di pietre disposte in verticale a formare – da lontano –- l’immagine di una nave di pietra, mentre i potenti, comandanti di navi e genti, si facevano seppellire con tutta la loro imbarcazione.
I Normanni useranno la scrittura solo in epoca più tarda e le uniche testimonianze scritte che li riguardano risalenti a quegli anni sono le cronache redatte dagli amanuensi di chiese e monasteri, peraltro le loro prede preferite.
Possiamo ricavare qualche idea dell’organizzazione, disciplina e maestria marinara di questo popolo da un brano scritto in epoca appena posteriore. Trattasi di un testo del secolo XI, l’Encomio della Regina Emma, che descrive la flotta di Knùtr inn rìki (CANUTO IL GRANDE, 994-1035, sovrano di Danimarca, Norvegia e Inghilterra): “la flotta è ordinata, pronta a rispondere ai segnali, con gli acciai e le vele colorate risplendenti sotto il sole. La nave del re è al centro, le altre procedono in formazione accurata con le prue allineate; alcune navi hanno il compito delle esplorazioni; le tecniche di combattimento sono tutt’altro che improvvisate”.
Bisanzio
L’impero greco fu profondamente scosso dall’espansione araba, che lo colse del tutto alla sprovvista. Si narra che l’imperatore ERACLIO, da poco tornato dalla trionfale vittoria contro l’impero iraniano dei Sasanidi, dopo aver perduto la Siria nel 636 contro gli Arabi ne fosse rimasto tanto segnato da rientrare nella capitale solo l’anno successivo, perso per i sentieri dello sconforto, e solo perché – nel frattempo – a Costantinopoli era un in corso un tentativo di usurpazione del trono.
Le imprese di un Mu’awiya, spintosi sino all’assedio navale di Bisanzio del 717, dimostrano quanto poco gli eredi di Costantino I riuscissero a opporsi contro quei nemici. Inoltre l’Impero era alle prese già dal 612-626 con l’incontenibile invasione dei Balcani da parte dei popoli slavi, e si trovò dunque in quell’epoca accerchiato da molteplici forze ostili.
Nel IX secolo la flotta bizantina, pur potenziata in uomini e mezzi, non fu più in grado di mantenere il predominio dei mari (e la sicurezza quindi, di rotte e coste mediterranee). La presa – da parte dei Saraceni – di isole come Creta, Malta e la Sicilia tagliò fuori il Mediterraneo occidentale da ogni possibilità di aiuto da parte bizantina.
Nel X secolo Costantinopoli dovette inoltre fronteggiare l’assalto di un nuovo popolo che sarebbe divenuto un attore fondamentale della Storia: i primi razziatori Rus (allora ancora identificati come Normanni). Provenienti dalla Russia, attaccarono Bisanzio con una nutrita flotta composta da piccole imbarcazioni, una prima volta nell’anno 941 guidati da un “re” di nome INGER, e una seconda nel 1041 al comando del sovrano di Kiev VLADIMIRO; pirati a tutti gli effetti, spinti verosimilmente da intenti di saccheggio più che di conquista.
Genova e Pisa nei secoli X e XI
Nel X secolo, la pressione normanna e saracena spinse alcune zone dell’Italia Tirrenica, dall’alta Toscana alla Provenza, con Pisa e Genova capifila, a organizzarsi in una sorta di lega delle comunità del Mediterraneo nord occidentale, un movimento spontaneo di piccole flottiglie composte principalmente da dromoni, ottime per la “guerra di corsa”.
Queste comunità costiere iniziarono così ad assumere un ruolo attivo, che da difensivo divenne ben presto offensivo. Nel 1015-1016 le flotte guidate da Genovesi e Pisani scacciarono dalla Sardegna MUGHAID DI DENIA (già signore delle isole Baleari), che vi stava fondando uno stato musulmano. Al 1034 risale un attacco pisano contro la città africana di Bona (la fu Ippona del vescovo Agostino, nell’attuale Algeria), mentre fu del 1064 il saccheggio di una Palermo ancora in mano ai Saraceni; con quel bottino venne eretta l’attuale cattedrale in marmo bianco, in Piazza dei Miracoli. Nel 1087 le forze navali unite di questa lega occuparono Madia (odierna Tunisia), nel 1092 si rivolsero contro la Spagna moresca, combattendo presso Tortosa.
Indetta la Prima Crociata, Genova inviò in supporto una propria squadra navale già nel 1098, Pisa spedì una grande flotta l’anno seguente. Le rotte per l’Oriente si aprirono e con esse iniziò una nuova fase della storia del commercio; al dromone si sostituì la più moderna e resistente galea; i porti e i mari conobbero un traffico sempre crescente d’imbarcazioni e di merci, in quel Medioevo mancante di forti governi centrali capaci di dettare legge.
Fu da questo momento che la figura del pirata si evolvé cominciando ad avvicinarsi ai canoni impressi nel nostro immaginario da libri come L’Isola del Tesoro o le avventure salgariane di Sandokan, quando la temuta “Fortuna di Mare” poteva ridurre in rovina i mercanti che trafficavano fra Oriente e Occidente, tramutandoli in spietati pirati; quando l’incerta fedeltà della nobiltà di terre rivierasche, induceva i casati nobiliari ribelli, ad armare galee ed equipaggi per depredare qualsiasi nave capitasse a tiro.
Bibliografia di riferimento
Marco Tangheroni, Commercio e Navigazione nel Medioevo, LaTerza, 1996.
Carmine Donzelli, Storia Medievale, Manuali Donzelli, Donzelli editore, 1998.
Georg A. Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi, 1968.