Cosa fareste se scopriste che la casa dove abitate è stata costruita su un terreno un tempo destinato a cimitero? E cosa fareste se vi dicessero che, quando ne gettarono le fondamenta, nessuno si preoccupò di trasferire i resti di coloro che vi erano seppelliti? Dormireste ancora sonni tranquilli? Non credo, visto che, come sosteneva un certo Jorge Grau a metà degli anni Settanta, “non si deve profanare il sonno dei morti”. Come dite? Sembra la trama, trita e ritrita, di un film dell’orrore? Avete ragione. È infatti la storia che quella vecchia volpe di Steven Spielberg usò come base quando scrisse la sceneggiatura di Poltergeist – Demoniache Presenze.
Il film porta la firma di Tobe Hooper, leggendario filmaker del cinema horror (un tantino sopravvalutato, a mio parere) e padre del fondamentale Non aprite quella porta (1974).
Spielberg lo troviamo accreditato come sceneggiatore e produttore, ma, vedremo tra poco, più di un indizio fa ritenere che ci sia il suo zampino anche dietro la macchina da presa. Come regista lo conosciamo tutti; sappiamo quanto sia mainstream e completamente integrato nel circuito hollywoodiano. Qualcuno lo ha (giustamente) definito il Re Mida del cinema, visto che in quasi cinquant’anni di carriera ha trascinato al successo qualunque cosa gli sia passata tra le mani, dalla Fantascienza alla Commedia, dai film di avventura a quelli storici, dai film di guerra ai Thriller. Da un certo punto di vista potrebbe essere considerato un regista ‘né carne né pesce’, forse un po’ opportunista ma, sebbene una grossa parte del suo successo sia dovuta al massiccio uso di effetti speciali, non si può non riconoscerne lo spessore.
Dicevamo che Poltergeist, per più di un motivo, sembrerebbe essere a tutti gli effetti opera sua al di là della sceneggiatura, cioè che lui sia stato una figura di primo piano nella direzione del film, sebbene i crediti di regia siano andati a Hooper. Negli stessi giorni in cui veniva realizzato Poltergeist, Spielberg era alla prese con il suo E.T. – L’Extra-Terrestre (1982), film che venne girato tra l’altro negli stessi luoghi (addirittura nella stessa strada); e tanto alto era l’interesse della Universal Pictures che quest’ultima obbligò il regista a firmare una clausola contrattuale che gli proibiva di dirigere in contemporanea altre pellicole. La leggenda allora vuole che lui sia riuscito ad aggirare il contratto con la complicità di Tobe Hooper; ma la cosa non venne mai provata, nonostante alcuni membri del cast (tra cui l’attrice Zelda Rubinstein) ammisero in più di un’occasione che fu proprio Spielberg a dirigerli.
E pensare che basterebbe guardare con attenzione il film per trovarle, le prove (ok, forse non proprio prove, ma sicuramente forti indizi); si noterà per esempio come vengono rappresentate le entità che infestano l’abitazione della famiglia Freeling, entità fatte di luce, proprio come gli alieni di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (1977) o come le forze ultraterrene che si scatenano nel finale de I Predatori dell’Arca Perduta (1981). Ma non è solo questo: uno dei più inequivocabili marchi di fabbrica di Spielberg si manifesta verso la fine di Poltergeist, nella scena in cui la madre della piccola Carol Anne si precipita lungo un corridoio che, improvvisamente, come in un sogno, appare allungarsi. Si tratta di una tecnica di ripresa che gli addetti ai lavori chiamano ‘Effetto Vertigo’, dal titolo originale del film di Hitchcock in cui apparve per la prima volta (La Donna che Visse Due Volte, 1958).
Oggi sono diversi i registi che si divertono ad applicare l’Effetto Vertigo, ma trent’anni fa solo un paio di grandi potevano vantarne l’utilizzo nei propri film: uno era appunto Alfred Hitchcock, che lo usò anche in Psycho (1960) e in Marnie (1964), l’altro era, guarda caso, proprio Steven Spielberg! Anche se non è semplice riconoscerla, la scena del corridoio di Poltergeist è infatti identica a una delle più celebri inquadrature de Lo Squalo (1972), quella dell’espressione sconcertata di Roy Scheider durante il primo attacco. In entrambe le scene il regista effettua simultaneamente una zoomata all’indietro e uno spostamento in avanti del carrello, provocando nello spettatore un senso di vertigine (l’Effetto Vertigo, appunto).
Oggi, le nuove tecnologie rendono l’effetto molto più semplice da realizzare, ma trent’anni fa c’era il problema di gestire manualmente la messa a fuoco, per cui l’operatore si trovava nella condizione di dover compiere tre operazioni contemporaneamente.
Poltergeist narra la storia della famiglia Freeling, composta da Steve (Craig T. Nelson) e Diane (JoBeth Williams), con i loro tre figli Dana, Robbie e la piccola Carol Anne. Una famiglia come tante altre, la cui serenità inizierà a vacillare quando Carol Anne verrà sorpresa a fissare il televisore acceso ma sintonizzato sul nulla, quasi come se stesse comunicando, attraverso lo schermo, con un’entità invisibile. Una delle frasi che la piccola pronuncerà in quel frangente è divenuta oggi un pezzo di storia del cinema: “They’re here” (sono arrivati!). Lo strano episodio non rimarrà l’unico: come è notoriamente tipico nelle manifestazioni di poltergeist, diversi oggetti verranno visti spostarsi da soli attraverso gli ambienti. Inizialmente i Freeling appariranno incuriositi, se non divertiti, dalle prime inspiegabili manifestazioni cinetiche; ma il loro atteggiamento naufragherà ben presto nel terrore, la notte in cui Carol Anne scomparirà senza lasciare traccia. Anzi una traccia in realtà la si troverà: la voce della piccola, quasi impercettibile, si farà udire, proveniente dal televisore, in una scena da brividi.
Come accennato in apertura di articolo, l’elemento scatenante dei fenomeni si scoprirà essere il luogo stesso dove fu costruita la casa: un ex cimitero dal cui terreno, per questioni di budget, l’impresa costruttrice traslocò le lapidi ma non i cadaveri. Steven Spielberg si ispirò all’analoga storia del sinistro Cheesman Park, il parco cittadino di Denver, sorto su un’area che durante la seconda metà del XIX Secolo era stata destinata alle sepolture. Il cimitero venne chiuso nel 1890, e la ditta che alcuni anni più tardi fu assunta per trasferire i resti non reclamati dai parenti (circa 5.000 salme, plausibilmente di vagabondi, criminali, poveri…) speculò sui costi e fece un lavoro approssimativo. Tant’è che ancora oggi sono in corso bonifiche a causa di ciò che emerge dal terreno quando si tenta di scavare le fondamenta per nuove strutture del parco. Si dice che ancora migliaia di cadaveri riposino pochi metri sotto le aiuole dove i cittadini di Denver trascorrono serenamente le loro domeniche; e che, come è prevedibile in casi come questo, decine di testimoni sarebbero pronti a giurare di aver avvistato le anime senza pace di quei disgraziati aggirarsi nelle notti senza luna.
Non si deve profanare il sonno dei morti, abbiamo detto. Spielberg invece lo fece e, anche lui per questioni di budget, decise di utilizzare dei veri scheletri per girare lo shot finale. È per questo che Poltergeist è passato alla storia con la nomea di ‘film maledetto’, a cui vengono attribuite alcune scomparse premature. Poco dopo il termine delle riprese, per esempio, la cattiva sorte toccò l’attrice Dominique Dunne (sorella di Carol Anne nella finzione cinematografica), che venne strangolata a 22 anni dall’ex fidanzato. L’attore Julian Beck morì durante le riprese del sequel (Poltergeist II – L’Altra Dimensione, 1986), di cancro allo stomaco – malattia di cui però soffriva già da qualche anno. Ma l’avvenimento tragicamente clou fu senza dubbio la fine della piccola Carol Anne (al secolo Heather O’Rourke) che morì all’età di 12 anni poco prima dell’ultimo ciak del terzo capitolo (Poltergeist III – Ci risiamo, 1988). L’aspetto inquietante è legato a un poster che, nel primo film, faceva bella mostra di sé nella cameretta della bambina: era un manifesto fake di una finale di football americano (il Superbowl XXII) che si sarebbe giocata a San Diego solo quattro anni più tardi. Heather O’Rourke morì di stenosi intestinale proprio a San Diego, poche ore dopo la fine di quella partita.
Un giudizio sul film? Poltergeist appartiene alla sua epoca e, nel bene e nel male, ne contiene tutti gli stereotipi. Gli anni in cui venne girato erano quelli in cui il ‘celodurismo’ made in USA aveva raggiunto il suo apice estremo: gli ideali erano rappresentati dalla famiglia media che, tra una colazione a base di burro d’arachidi e uova strapazzate, non disdegnava di sconfiggere il male. Il padre, nel momento del bisogno, tirava dentro la panzetta e buttava in fuori una buona dose di testosterone americano, trovando anche il tempo per prendere coscienza da un libro come Reagan, the Man, the President. La madre era anche meglio: era lei ad occuparsi dei suoi cuccioli, lottando per difenderli come una tigre ferita.
Poltergeist è un film che oggi ha senso guardare solo per ‘vedere come eravamo’ e inorridire. Non è un film horror. Non più. Solo qualche sobbalzo ben dosato e decisamente telefonato. Forse horror lo era un tempo, quando non eravamo ancora fissati con il torture e con il body count. In Poltergeist l’unica vittima è un canarino: tutti gli altri vissero felici e contenti. Non va infine dimenticato che trattasi di un film spielberghiano, e, come tale, deve risultare… come dire… confortante. Nessuno è veramente in pericolo in un film di Spielberg. Tutto è finto e confezionato su misura per il pubblico al quale è rivolto. E il lieto fine è immancabile.