Quando si crea un universo immaginario, il rischio di scadere in un prodotto irrealistico è sempre in agguato. La sospensione dell’incredulità resta sì un presupposto cardine richiesto a chi voglia immergersi completamente nel mondo subcreato, ma alla base di quest’ultimo deve esserci una logica rigorosa. E mantenerla non è affatto semplice.
L’universo costruito è tanto più realistico quanto più tende a imitare la nostra realtà nella sua intera complessità. Un’ambientazione efficace deve quindi ramificarsi all’interno di un universo articolato, ma per poter ‘complicare’ il gioco serve una logica che tenga legati insieme, che amalgami, i diversi componenti. In questo delicato equilibrio sta la difficile sfida di un world building di successo.
Un ottimo esempio è l’universo fantascientifico di Dune creato da Frank Herbert. La sua complessità è fuori discussione, nonostante l’autore si astenga dall’inserirvi specie aliene e si concentri solo su quella umana. Il sistema di governo in Dune ricalca quello del Sacro Romano Impero: un coacervo di piccoli regni e principati litigiosi tenuti insieme da un’autorità nominale, quella dell’Imperatore. La vera forza che fa girare la società è l’economia. Il fatto che i viaggi spaziali siano possibili solo sfruttando la spezia ‘melange’ prodotta esclusivamente sul pianeta Dune è il concetto – apparentemente semplice – attorno a cui Herbert elabora la sua subcreazione. A questa idea di fondo l’autore aggiunge una seconda condizione, ossia la scomparsa della tecnologia informatica; immaginando come i due presupposti possano influenzare la politica, l’economia, la cultura e la religione nell’intera galassia, Herbert sviluppa il suo mondo. L’esistenza di una Gilda spaziale che detiene il monopolio dei viaggi interstellari; di una corporazione commerciale che funge da banca galattica con alti margini di profitto sullo sfruttamento della spezia; di un sistema politico frammentato; di un ordine semireligioso, le Bene Gesserit, che controlla troni e potere; di un ordine antitetico, i Mentat, che usa la logica per rimpiazzare i computer; di una forte componente fondamentalista nella popolazione indigena di Dune, abituata a vivere di stenti nel deserto: sono tutte logiche conseguenze di due sole semplici premesse da cui Frank Herbert è partito per costruire il suo universo.
La complessità di un’ambientazione, dunque, non è un risultato che si ottiene a tavolino; è piuttosto il prodotto di una coerente associazione di idee a partire da pochi concetti di base.
Quando Isaac Asimov inventò l’universo di Fondazione (aka Cronache della Galassia), iniziò dalla figura di un legionario romano. Da lì giunse a concepire un Impero Galattico in declino, la lotta tra i regni barbari della periferia, l’esistenza di una fondazione scientifica impegnata a salvaguardare le conoscenze di migliaia di anni di storia, nonché una scienza in grado di prevedere e cambiare il futuro. La Saga della Fondazione di Asimov si dipana su un totale di sette romanzi, tra i più grandi successi della Fantascienza mondiale. Eppure, quell’universo così vasto è nato da una sola semplice immagine.
La costruzione di un mondo sulla base di un ragionamento logico deve naturalmente contemplare anche elementi d’imprevedibilità: un contesto totalmente ‘logico’ e lineare sarebbe già di per sé irrealistico. Nella gestione dei personaggi, per esempio, la ricerca della coerenza può seguire vie sottili. Il tradimento di Saruman ne Il Signore degli Anelli o la decisione di Darth Vader di uccidere l’Imperatore ne Il Ritorno dello Jedi sono scelte ‘imprevedibili’ (tranne che per l’autore, o a volte anche per lui!), e per certi versi contradditorie, ma la contraddizione è a sua volta una caratteristica dell’animo umano. Il Bene e il Male non sono due schieramenti granitici, come invece accade in molta narrativa fantasy: sono il prodotto di scelte compiute dai personaggi, e non sempre razionali. Pensiamo ancora a Il Signore degli Anelli; in un world-building mediocre, la divisione tra le razze sarebbe tranchant: qui gli Uomini, lì gli Elfi, laggiù i Nani e così via. In Tolkien, le divisioni sono invece relative. C’è un’evidente distanza tra gli Elfi di Galadriel e quelli di Elrond. Ci sono differenze tra le diverse tribù dei Nani. Gli Uomini stessi sono divisi in due regni, tra loro rivali. E la spiegazione può non essere del tutto ‘logica’, ma del resto quanta logica c’è nella Terra reale, dietro il fatto d’essere frazionata in quasi 200 Stati diversi?
Nel definire gli aspetti ‘geografici’, coerenza e complessità sono più intuitive da prevedere, ma richiedono ugualmente attenzione. È preferibile evitare di ipotizzare, per esempio, pianeti abitabili ma con un unico ecosistema. Dune rispecchia solo in parte questo canone: è completamente desertico ma la sua ecologia è ugualmente variegata: vi sono città ai poli, zone aride, oasi, sistemi di caverne… In Guerre Stellari la costruzione dei pianeti è invece eccessivamente semplificata: Hoth è un globo totalmente ghiacciato; Tatooine è un mondo desertico; Dagobah sembra un’unica immensa palude. Nella seconda trilogia, George Lucas sembra cercare di aggiustare un po’ il tiro, presentando un Naboo con più ecosistemi e abitato da due diverse razze senzienti, una delle quali, anfibia, occupa i fondali marini.
In un recente articolo sul celebre sito io9, Charlie Jane Ander confronta proprio le due diverse trilogie di Guerre Stellari alla luce del loro modo di affrontare il world-building. Apparentemente, La Minaccia Fantasma e i suoi seguiti possiedono una maggiore attenzione al dettaglio. Mentre il primo Guerre Stellari si apriva accennando genericamente di una guerra civile, e poche battute di Obi-Wan Kenobi nominavano poi le Guerre dei Cloni, l’oscurantismo e l’avvento dell’Impero, nella nuova trilogia si forniscono parecchi dettagli sulle origini della complessa vicenda, a partire dalla vertenza tra la Federazione dei Mercanti e la Repubblica Galattica riguardo la tassazione delle rotte commerciali periferiche. Fin dall’inizio allo spettatore vengono forniti i principali tasselli per ricostruire l’intricato puzzle di complotti e giochi di potere che si dipana nel corso della trilogia.
Eppure, sebbene nella nuova trilogia il world-building sia evidentemente ‘migliore’ rispetto a quella classica, l’effetto finale non lo è. Ne La Minaccia Fantasma, lo scenario politico viene descritto in dettaglio: ascoltiamo Palpatine sostenere che il Senato Galattico è debole e indeciso, che il cancelliere Valorum è invischiato in generiche accuse di corruzione; che la Federazione dei Mercanti detiene un potere superiore a quello della Repubblica… Ma tutti questi elementi, pur contribuendo a spiegare gli eventi, sono solo descritti, non mostrati. La regola d’oro ‘show, don’t tell’, ossia mostrare anziché dire, è invece osservata nella trilogia classica dove non c’è bisogno di descrivere il potere dell’Impero e la sua oppressione, basta mostrare i soldati che assaltano Tatooine o Bespin, la spietata disciplina a bordo degli incrociatori, gli agghiaccianti discorsi nella sala riunioni sulla Morte Nera, il timore reverenziale all’arrivo dell’Imperatore.
Uno degli obiettivi di una subcreazione raffinata è evitare il cosiddetto infodump, la cascata di informazioni di background fornite dall’autore tutte in una volta. Il mondo subcreato deve poter fare a meno di questa sorta di manuale di istruzioni, lasciando invece al suo fruitore il compito di esplorarlo e di ricostruirne i contorni. Nel film Guerre Stellari ci vuole tempo prima di acquisire tutti gli elementi della storia: l’esistenza dell’Impero, della ribellione, dei cavalieri Jedi, della caduta della Repubblica. Queste informazioni fondamentali sono distribuite nel corso della storia (che a sua volta rappresenta solo una piccola parte del tutto), e lo spettatore le apprende insieme a Luke Skywalker, il classico ragazzo di periferia che si trova coinvolto in eventi più grandi di lui. Lo stesso capita a Frodo Baggins ne Il Signore degli Anelli. Attraverso gli occhi increduli dell’uomo comune è possibile introdurre gradualmente tutti gli elementi dell’ambientazione. Un ulteriore esempio è Harry Potter, che a 11 anni inizia a frequentare il mondo della magia e ne scopre le caratteristiche passo dopo passo, con l’iniziale inesperienza del ‘babbano’. Nella nuova trilogia di Guerre Stellari, invece, i protagonisti sono tutt’altro che uomini comuni: troviamo regine, senatori, Jedi d’altro rango, cancellieri… Loro conoscono perfettamente ogni aspetto della vicenda, senza doverla scoprire strada facendo.
Il processo di scoperta graduale lasciato al fruitore è insomma il marchio di fabbrica del migliore world-building. Se poi la complessità di una subcreazione e il numero delle opere che le ruotano attorno crescono a punto tale da rendere difficoltoso l’orientamento, è possibile mettere a disposizione del lettore delle guide all’ambientazione.
Ne Il Signore degli Anelli, Tolkien inserisce un gran numero di accenni a una realtà assai più vasta. Non si sofferma a spiegarli, li dissemina qua e là per fornire profondità agli scenari. Il lettore che proseguirà nella scoperta della sua opera avrà poi modo di conoscere la provenienza di quelle leggende e di quei brevi accenni, attraverso Il Silmarillion e le storie pubblicate postume ma scritte precedentemente a Il Signore degli Anelli, che raccolgono il background storico e mitologico della subcreazione tolkieniana. Molte informazioni Tolkien le fornisce anche nelle Appendici. Simili complementi si trovano pure in Dune. Manuali tecnici e vere e proprie enciclopedie sono comuni prodotti di supporto nell’universo di Guerre Stellari e in quello di Star Trek, in alcuni casi a opera degli stessi creatori. J.K. Rowling aveva in mente di scrivere un’enciclopedia di Harry Potter, prima di optare per un veicolo di informazioni più interattivo come il sito Pottermore. E prima di ciò aveva già scritto, Gli animali fantastici: dove trovarli e Il Quidditch attraverso i secoli, due libri che vengono accennati nel corso della saga e che la Rowling trasforma brillantemente da pseudobiblia a opere reali.
Occorre però evitare che l’enciclopedismo e il nozionismo contaminino la stessa opera narrativa. Kevin J. Anderson, autore dei romanzi prequel della saga di Dune, è il classico scrittore da infodump che fornisce una marea di informazioni nel corso delle storie, allontanandosi dallo stile di Herbert. Autore anche di famosi romanzi ambientati nell’expanded universe di Guerre Stellari, pure lì non disdegna di trascurare la norma del ‘show, don’t tell’. Richiamando la differenza espressa nell’articolo ‘Quando un solo mondo non è abbastanza’ (Terre di Confine Magazine n. 1), possiamo dire che Anderson è un bravo world-builder, ma un pessimo subcreatore. L’impronta ‘enciclopedica’ nelle sue opere dedicate all’universo di Dune e a quello di Guerre Stellari è evidente.
Nel mondo reale accade che usi, costumi, popoli, storie, leggende, vicende politiche, accordi economici vengono appresi gradualmente nel corso delle esperienze vissute, non attraverso la lettura di un’enciclopedia: una buona subcreazione deve imitare una ‘esperienza’, deve permettere questo processo di scoperta, incessante e continuo, se vuole davvero produrre un universo fantastico ‘realistico’ e indimenticabile.