Quello immaginato da Lino Aldani nel romanzo Quando le Radici è un futuro incolore e profondamente triste. Gran parte delle persone vivono in condomini sterminati, veri e propri alveari. Molte svolgono lavori inappaganti, concepiti dai potenti pur di occupare il corpo e la mente dei cittadini. Il potere è in mano a politici indolenti a cui interessa solo conservare la poltrona e ammansire il popolo. Ogni aspetto della società è organizzato in modo da rendere passivi gli individui, indurre bisogni fittizi e ostacolare qualsiasi forma di pensiero autonomo o di rivolta. Il salario serve per acquistare beni spesso superflui, i rapporti interpersonali sono ridotti allo stretto indispensabile, il cibo è sintetico, la sessualità si esprime all’interno di club che programmano incontri.
Il protagonista della storia, Arno, è un giovane profondamente infelice, stanco di controllare schede perforate, deluso dai rapporti superficiali con le donne e con i colleghi. Legge molto, rifiuta di stordirsi con le droghe e lo shopping compulsivo. Sogna di far ritorno al paese in cui è nato, Pieve Lunga, una cittadina della Bassa Padana distesa lungo il Po, un tempo piccolo centro agricolo, prima che arrivassero ruspe e ingegneri, togliessero acqua e corrente elettrica, e molti cittadini fossero così indotti ad andarsene. Un giorno finalmente Arno lascia Roma e torna a rifugiarsi tra quella gente semplice, che vive di pesca e agricoltura e che deve percorrere molti chilometri prima di trovare una farmacia o un ufficio postale. Lì la vita è dura, eppure si invecchia con serenità, i rapporti umani sono sinceri, la saggezza contadina e le stagioni regolano la vita, scandita da ritmi più naturali. Ogni tanto si assiste al passaggio delle carovane di zingari, accolte come una festa: i Rom hanno abbandonato le brutte abitudini a cui erano stati costretti dalla forzata urbanizzazione e sono tornati a viaggiare sui carrozzoni di legno dipinto, vendendo oggetti utili e si esibendosi suonando, proprio come nelle poesie di Garcia Lorca. Un mondo idilliaco, quello di Pieve Lunga, minacciato però dalle decisioni del governo: c’è l’intenzione di abbattere le ultime case, scacciare i ‘trogloditi’ e costruire un’autostrada. Davanti alla ruspa che minaccia il suo microcosmo, Arno trova il coraggio di reagire, per poi unirsi ai Rom.
Il romanzo di Aldani ha alle spalle una lunga genesi, è stato pubblicato nel 1977 ma la prima parte è stata scritta dieci anni prima, a Roma. L’autore traspone nelle pagine la sua esperienza personale, di quando insegnava matematica e non apprezzava la vita della metropoli. La sua passione era la letteratura e, appena riuscì a usufruire dei baby pensionamenti se ne tornò al suo piccolo paese di campagna, San Cipriano Po. Per tutta la vita si dedicò alla scrittura, a tempo pieno. Il suo stile, asciutto e verosimile, fonde temi di attualità e fantasia. È realismo magico, oppure fantasy, più che fantascienza vera e propria: sfugge a categorie di genere e ricorda Dino Buzzati e Italo Calvino. Lino Aldani lascia poco spazio al senso di meraviglia suscitato dalla tecnologia, il suo futuro è quello immaginabile negli anni Sessanta. Non ha previsto l’avvento della rete, e il potere dei mass media resta una minaccia in sottofondo, eppure l’umanità sconfitta è proprio la stessa che oggi trascorre le feste comandate nei centri commerciali e dà sfogo alla solitudine frequentando le chat.
Il futuro immaginato da Lino Aldani è un domani fin troppo verosimile, afflitto dall’apatia e dall’incomunicabilità. L’umanità ha raggiunto il benessere, si appresta a esplorare Marte, ma si ha la netta impressione che gli ‘alieni’ siano già sulla Terra. Estranei sono i condomini, di cui il protagonista ignora i nomi e le abitudini, o le donne che avvicina. La stessa Milena, ragazza che segue Arno al piccolo paese, si rivela ‘aliena’, perché il suo amore per la natura, per i gitani o per il tramonto lungo il fiume è un sogno intellettualoide. Ama quelle cose, finché restano nelle pagine dei libri. Davanti all’aspettativa di una vita tanto dura, priva delle più elementari conquiste del progresso, crolla miseramente e fugge, tornando alla ‘civiltà’. Per gli abitanti delle megalopoli, i ‘trogloditi’ della campagna sono alieni. E alieni, ma in senso positivo, sono i Rom, capaci di conciliare tradizioni antiche e post moderne. Il rifiuto della modernità ha reso loro la dignità perduta, permettendogli di abbandonare l’accattonaggio e il furto per tornare a praticare antichi mestieri e a viaggiare. Chi può conoscere realtà diverse ha la possibilità di confrontare abitudini e scegliere le soluzioni più funzionali adattandole con creatività alle proprie esigenze.
Arno si unisce alla carovana dopo aver compiuto il suo piccolo, grande gesto di ribellione. Di certo lascia Pieve Lunga per sfuggire a eventuali indagini della polizia, o forse l’episodio è solo un pretesto per potersi allontanare in cerca di una sua via per la felicità. Il protagonista matura nel corso del romanzo. Il suo ritorno al paese è motivato dall’insoddisfazione ma, col tempo, confrontando i due mondi che ha conosciuto, comprende che la vita ascetica del piccolo borgo, con le sere a veglia, le sbronze prese in un’osteria che funge anche da chiesa, i sentimenti espressi con rude franchezza, è sicuramente preferibile all’universo globalizzato. Ma è quello il migliore dei mondi possibili? Gli abitanti di Pieve Lunga sono tutti anziani, il più giovane ha cinquantanove anni, e probabilmente nessuno di loro ha mai conosciuto altro modo di vivere. La fuga con i Rom è dunque il concretizzarsi di una nuova consapevolezza. Il mondo perfetto ancora deve venire, e tutti abbiamo il diritto e il dovere di impegnarci a realizzarlo, ribellandoci se occorre, e sfuggendo le soluzioni precostituite. Di certo Pieve Lunga non è Puerto Escondido o l’isoletta greca del Mediterraneo di Gabriele Salvatores, e neppure è il villaggio di baracche di Miracolo a Milano. La fuga verso un paese dove buongiorno vuole dire buongiorno è un percorso individuale, che costa sacrificio, la decisione di chi conosce come sconfitta la rinuncia, la delega ad altri delle proprie scelte e dei propri sentimenti.
Per molti versi, la narrazione ammicca al grande cinema, non solo per lo stile, lineare e diretto, capace di definire ambienti e situazioni con pochi tocchi essenziali. Parecchie pagine sembrano uscite da un film di Michelangelo Antonioni, anche come tematiche e ambientazioni. Le righe scorrono simili a una sceneggiatura, e ogni situazione è assimilabile a un’inquadratura. Come nelle pellicole del grande Maestro, ci sono sempre dettagli che lasciano intravedere particolari in apparenza secondari. Squarci di una realtà ‘altra’, effimera, che incrocia lo sguardo e subito scompare. Impermanente, proprio come la felicità di Arno. Non è un caso, forse, se le pagine di ambientazione urbana ricordano La Notte e L’Avventura, e la celebrazione della campagna padana è sempre velata da un impalpabile pessimismo. La stessa campagna de Il Grido; e la riva del Po, ancora oggi abitata da piccole comunità hippie che vivono di agricoltura e piccolo artigianato.
Se, come ha recentemente affermato Jovanotti sulle pagine de La Repubblica, credete che certi temi siano roba da vecchi, superati e fuori moda, la fantascienza di Dino Aldani ha davvero poco da offrirvi.