La teoria della Relatività, il cui valore si accompagna ad una assoluta eleganza e bellezza, rappresenta indubbiamente uno dei vertici del pensiero scientifico. Altrettanto indubbio è che il fascino esercitato dalla Relatività si estende ben oltre la ristretta cerchia degli “addetti ai lavori”, essendo tale teoria – lo si può ben dire – entrata a far parte dell’immaginario collettivo.
La semplice menzione del termine “Relatività” è sufficiente a evocare un mondo in cui idee “fantascientifiche” (basti pensare alla “fusione di tempo e spazio”, o alla “curvatura spaziotemporale”, ai “buchi neri” e altri simili arcani) trovano piena accoglienza in una descrizione scientifica con tutti i crismi, nella quale il rigore non toglie spazio – anzi! – alla visione fantastica… Certo, al fascino esercitato da questa teoria contribuisce non poco la persona del suo ideatore, Albert Einstein, divenuto egli stesso una vera e propria icona dell’immaginario collettivo. Il genio creativo di Einstein e la sua capacità di pensiero autonomo dagli schemi consolidati possono dirsi fedelmente rispecchiati nella sua opera. Di fatto, con la Relatività è stata aperta una nuova via, ampia ed entusiasmante da percorrere: tale è la ricchezza della teoria che lungo il cammino incontriamo diramazioni sempre nuove, tutte da scoprire. Di queste diramazioni noi seguiremo una in particolare, senza naturalmente addentrarci nelle complessità matematiche ma cercando di illustrare un po’ il paesaggio in cui questo nostro sentiero si inoltra. Scopriremo così quello che delle “macchine del tempo” siamo oggi in grado di dire, basandoci sulla teoria della Relatività.
Per cominciare, va precisato che due sono in realtà le suddivisioni della teoria: vi è una “Relatività Speciale”, enunciata in forma compiuta da Einstein nel 1905, e una “Relatività Generale”, che ad essa fece seguito, nel 1916. Noi ci occuperemo di entrambe, in relazione al nostro argomento di discussione; per il momento, focalizziamo la nostra attenzione sulla Relatività Speciale, e sulle sue implicazioni per quel che riguarda i viaggi nel tempo.
La visione dello spazio e del tempo nella fisica prerelativistica era esattamente quella con cui abbiamo a che fare nell’esperienza quotidiana: esiste uno spazio a tre dimensioni, descritto dalla geometria euclidea, e un tempo “universale”, valido qui come ovunque (i fusi orari non c’entrano, stiamo parlando di un tempo che scorre con ritmo universale, identico in ogni luogo e per ogni osservatore). L’intervallo di tempo che intercorre tra due eventi è un invariante, non dipende cioè dal particolare osservatore che lo misura; di conseguenza, se due eventi sono simultanei per un osservatore, saranno tali anche per qualsiasi altro: la simultaneità è un dato su cui tutti i possibili osservatori concorderanno. Allo stesso modo, anche la lunghezza di un intervallo spaziale possiede questa caratteristica di invarianza: sulla lunghezza di un oggetto (o sull’estensione della sua superficie, o del suo volume) non possono che concordare tutti quanti. È questo che dice l’esperienza comune, e parrebbe assurdo fosse altrimenti… Ma stanno davvero così le cose?
Tutto sta nei limiti che sono imposti dal concetto di “esperienza comune”. Il fatto è che nella nostra vita quotidiana non abbiamo a che fare con oggetti che si muovono a velocità paragonabili a quella della luce (osservazione: in genere, parlando di “velocità della luce” s’intende la velocità della luce nel vuoto, indicata usualmente con la lettera c; le misurazioni dicono che c=299.997 km/sec). Per le velocità ordinarie valgono le regole di composizione “galileiane”: supponiamo di avere due osservatori, O1 e O2, e supponiamo che O1 si muova con velocità v (la notazione in grassetto denota la grandezza vettoriale) rispetto a O2. Se un oggetto si muove con velocità v1 rispetto a O1, la sua velocità misurata da O2 risulterà v2 =v1+v. Cosa succederebbe allora se l’oggetto in questione fosse un raggio di luce? Ovvio, troveremmo che la velocità della luce differirebbe da osservatore a osservatore (un comportamento analogo a quello delle onde sonore, dunque); alle velocità v ordinarie le differenze sarebbero comunque minime, e noi semplicemente non ce accorgeremmo – salvo il caso in cui compissimo misure molto accurate. Ebbene, nel 1881 due studiosi, Michelson e Morley, condussero un famoso esperimento a tale riguardo, il quale diede un risultato del tutto inaspettato: la velocità della luce era sempre la stessa, c, sia per O1 che per O2. Fu a partire da questo dato sperimentale che si avviò un processo di revisione critica delle “certezze” della fisica, il cui esito fu l’enunciazione di una nuova teoria, la Relatività Speciale appunto.
I cardini della Relatività Speciale sono semplici da enunciare: invarianza della velocità della luce c; invarianza del “quadriintervallo spaziotemporale”; invarianza delle leggi della fisica per trasformazioni inerziali. Come si può intuire, è una teoria che attribuisce un certo rilievo all’idea di invarianza… Di che cosa si tratta, di preciso? Per quel che riguarda l’invarianza di c, ne abbiamo già parlato: è semplicemente il risultato, incontrovertibile, dell’esperimento. Per quel che riguarda l’argomento relativo ai sistemi inerziali, si tratta – non entriamo qui nei dettagli – di una generalizzazione che permette di includere nell’invarianza anche le equazioni di Maxwell (ovvero la teoria dell’elettromagnetismo classico, grande conquista della fisica del XIX secolo). Quello che ha maggiore impatto sull’immaginario è certamente però l’introduzione del concetto di “spaziotempo”, un mondo a quattro dimensioni in cui né lo spazio né il tempo hanno un’esistenza a sé stante, ma sono percezioni individuali, diverse da osservatore a osservatore. Affermare l’esistenza di una dimensione aggiuntiva rispetto a quelle comunemente percepite costituisce già di per sé una rivoluzione non da poco: basti pensare alla storia narrata dal Quadrato di Flatlandia. Ma qui ci troviamo di fronte a qualcosa che è persino più rivoluzionario di quel che possiamo leggere nel suo celebre trattato Dalla Flatlandia alla Thoughtlandia. Il continuo spaziotemporale ha infatti una geometria che, pur rimanendo piatta, non è più quella euclidea; l’unico intervallo invariante – sulla misura del quale cioè tutti gli osservatori si troveranno d’accordo – è quello che separa due punti (propriamente, “eventi”) di questo strano, nuovo mondo a quattro dimensioni. Le leggi di trasformazione galileiane, valide per la fisica prerelativistica, vengono sostituite da nuove regole, le famose “trasformazioni di Lorentz”. In base ad esse, la lunghezza degli intervalli – tanto spaziali quanto temporali – perde la proprietà di invarianza che era parsa tanto “ovvia” in precedenza; non esiste più un tempo “universale”, e neppure la simultaneità di due eventi è più un concetto assoluto: due eventi possono accadere contemporaneamente secondo un osservatore, ma non secondo un altro. Cominciamo a intravedere uno spazio per le macchine del tempo…
Come premessa, dobbiamo innanzitutto precisare che ciascuno di noi, così come qualsiasi cosa attorno a noi, sta viaggiando nel tempo. Quand’anche ce ne stessimo immobili in un medesimo luogo, ci troveremmo comunque a percorrere un cammino, una “linea di universo”, nello spazio quadridimensionale, e tale linea di universo è sempre diretta verso il proprio futuro locale. Ogni osservatore reca con sé, più o meno consapevolmente, un proprio orologio, ovvero un misuratore dello scorrere del tempo proprio (l’orologio “biologico”, ad esempio, anche se il termine suona improprio se applicato a una particella), e tale orologio non si arresta mai, né tantomeno inverte la sua marcia. Non è possibile percorrere a ritroso il viaggio nel tempo proprio: non c’è una macchina del tempo per ringiovanire; potrebbe tuttavia esistere una macchina del tempo per viaggiare nel proprio passato. Su questo argomento torneremo più avanti.
In base alle trasformazioni di Lorentz, un orologio in moto visto da un osservatore fermo appare rallentare il proprio ritmo (“dilatazione dei tempi”) – così come, del resto, un regolo in moto apparirà al medesimo osservatore schiacciato nella direzione del moto stesso (“contrazione delle lunghezze”). Concentriamo la nostra attenzione sul primo fenomeno: immaginiamo due gemelli – due orologi identici – uno dei quali decida di compiere un bel viaggio di andata e ritorno a bordo di un’astronave relativistica (in grado cioè di muoversi a velocità prossime a c), mentre l’altro rimane a terra ad aspettarlo. Questo secondo gemello vedrà l’orologio del primo rallentare rispetto al proprio; quando il gemello astronauta farà ritorno alla base, troverà il gemello “terrestre” e tutto il suo mondo decisamente invecchiati. Il tempo sulla Terra è trascorso più rapidamente, e il ritorno dell’astronauta si configura a tutti gli effetti come un viaggio nel futuro. È sufficiente muoversi a velocità relativistiche per percorrere in un breve intervallo di tempo proprio un lungo intervallo di tempo di un altro osservatore. Ecco dunque un modo semplice, anche se per il momento di difficile praticabilità, per viaggiare nel futuro di qualcun altro: farsi un giretto a velocità relativistiche su di una macchina adeguata – una DeLorean, magari. Lo svantaggio di questo giochetto, naturalmente, è che non si può fare marcia indietro nel passato: non si può invertire il procedimento per ritrovare alla fine il proprio gemello, rimasto a terra, più giovane. Il viaggio nel futuro è ammesso; il ritorno al passato, no.
La possibilità per un osservatore di interagire con il passato di un altro – o anche con il proprio – sarebbe fornita dall’esistenza di ipotetiche particelle superluminali, i cosiddetti tachioni. In effetti, il viaggio “più veloce della luce” è uno degli espedienti fantascientifici tradizionali… L’idea che vi possano essere particelle superluminali non è affatto in contrasto – come pure usualmente si crede – con la teoria della Relatività. I tachioni sono particelle assolutamente lecite, in linea di principio. Ciò che invece non è ammissibile è la possibilità di attraversare la barriera imposta dalla velocità della luce. Vediamo di chiarire. In base alla teoria, la velocità c è una velocità limite – e non la massima possibile. Possono esistere solo tre classi di particelle: quelle che si muovono sempre a velocità inferiori a c, quelle che si muovono solo alla velocità c, e quelle che si muovono sempre a velocità maggiori di c. Alle prime due categorie appartengono tutte le particelle conosciute, da quelle costituenti la materia ai fotoni, le particelle di luce; alla terza categoria corrispondono i tachioni. Non è possibile un oggetto che faccia il “salto di categoria” (e dunque non è possibile che un’astronave venga accelerata alla superluminale “velocità smodata”, nonostante gli ordini di Lord Casco). Se anche i tachioni sono ammissibili dalla teoria, questo non significa tuttavia che la loro esistenza ne consegua di necessità; vi sono in realtà alcuni buoni motivi per ritenere che per essi nell’Universo non vi sia in effetti spazio alcuno. Innanzitutto, se fossero possibili comunicazioni per via tachionica si potrebbe influire dal futuro sul proprio passato, violando il principio di causalità (che ammette solo l’influenza inversa). È possibile poi dimostrare che l’esistenza dei tachioni violerebbe la positività dell’energia; inoltre, un universo contenente tachioni risulterebbe instabile. A queste controindicazioni va aggiunto infine il non trascurabile dettaglio che nessun tachione è mai stato osservato. Tutto ciò porta all’ipotesi conservativa che i tachioni, in realtà, non esistano proprio.
Fin qui ci siamo mossi nell’ambito della Relatività Speciale; vediamo ora di ampliare la nostra inchiesta al mondo più vasto della Relatività Generale – nel quale, come vedremo, c’è anche maggior spazio per i viaggi nel tempo. Se con la prima teoria si era introdotta la nozione di un continuo quadridimensionale in cui spazio e tempo perdono le loro identità separate per fondersi nello “spaziotempo”, geometricamente piatto, con la Relatività Generale assistiamo ad un nuovo mutamento nelle basi della scienza: lo spaziotempo quadridimensionale non è in realtà piatto, ma curvo, e la sua curvatura è determinata dalla distribuzione di massa-energia presente nell’Universo. A superamento della consolidata visione newtoniana, viene ora affermato che la gravitazione non è una forza, ma semplicemente la manifestazione della curvatura spaziotemporale. Le traiettorie dei corpi in presenza di gravitazione sono curve semplicemente perché seguono il cammino più naturale in uno spaziotempo curvo. Da notare, in particolare, un’altra novità: anche i fotoni – che pure hanno massa nulla, e dunque non sarebbero accoppiati alla gravità in base alla teoria newtoniana – rispondono alla curvatura spaziotemporale; una sorgente gravitazionale deflette i raggi luminosi. Questa predizione della teoria venne spettacolarmente confermata dalle osservazioni compiute da Eddington in occasione di un’eclissi solare avvenuta nel 1919; fu questa conferma sperimentale che consacrò definitivamente la fama di Einstein, elevando – letteralmente – ad astra la sua teoria.
L’interesse per il comportamento della luce è più che comprensibile, sulla base di quanto abbiamo detto poco sopra. La velocità massima a cui si può propagare un’informazione (stabilendo così un nesso di tipo causale tra due eventi) è c; la luce rappresenta lo strumento più diretto per indagare la struttura dello spaziotempo. Laddove un’elevata curvatura gravitazionale riesce a intrappolare anche i fotoni, impedendo loro di sfuggire, ci troviamo di fronte a una zona buia dalla quale nessuna informazione trapela: un vero e proprio “buco nero”. E proprio i buchi neri sono tra gli oggetti più attraenti (in più di un senso!) descritti dalla teoria della Relatività; vale la pena dedicargli qui un po’ di attenzione, perché al loro interno scopriremo delle cose piuttosto interessanti.
Innanzitutto dobbiamo premettere un’osservazione che si scontra con le convinzioni comuni: l’idea di un oggetto capace di non far sfuggire dalla sua presa gravitazionale neanche la luce non è una “creazione” della Relatività. È infatti noto che per ogni pianeta esiste una velocità di fuga, che rappresenta la velocità minima necessaria affinché un corpo, partendo dalla superficie, possa riuscire a vincere l’attrazione gravitazionale del pianeta stesso; nel caso della Terra, ad esempio, tale velocità è circa pari a 11,2 km/sec. La velocità di fuga cresce all’aumentare della massa del pianeta e al diminuire del suo raggio; un oggetto sufficientemente massiccio e compatto potrebbe dunque esser tale che la velocità di fuga da esso risulti superiore a c. In tal caso, è evidente, neppure la luce potrebbe sfuggire, e l’oggetto in questione avrebbe buon diritto alla qualifica di “nero”. Non occorre la Relatività per consentirlo – e infatti un tale oggetto era stato previsto già alla fine del Settecento da Laplace, nell’ambito della fisica newtoniana. L’ingrediente essenziale è che la velocità della luce sia finita (e non già infinita, come pure un tempo si era creduto); ma questo era un fatto ben noto, tanto che Römer era stato in grado di misurala, e con ottima precisione, già nel 1676.
Altra concezione diffusa, ed errata, è quella secondo cui un buco nero è una specie di gigantesco aspirapolvere cosmico che risucchia inesorabilmente tutto ciò che si trova alla sua portata. A parte il fatto che un buco nero non necessariamente è gigantesco – anzi, possono esservene di microscopici, e sono proprio quelli da cui è bene tenersi lontani – l’attrazione gravitazionale esercitata su di un corpo esterno da parte di un buco nero è del tutto analoga a quella esercitata da una stella di pari massa. Il fatto che esistano buchi neri supermassicci (parliamo di milioni o miliardi di masse solari) al centro di molte galassie – compresa la nostra – non implica certo che tali galassie vengano inghiottite e scompaiano nel nulla… tanto è vero che esistono e continuano ad esistere: questi buchi neri se ne stanno tranquilli, “quiescenti”, danno il loro contributo alla dinamica galattica e non si comportano affatto come mostri distruttori.
Sfatati questi luoghi comuni, precisiamo che secondo la Relatività Generale un buco nero è un oggetto completamente racchiuso da una superficie, generata da raggi di luce, con caratteristiche di membrana semipermeabile: si lascia attraversare in un verso, ma non permette a nulla di attraversarla nel verso opposto. Stiamo parlando del cosiddetto “orizzonte degli eventi”, che costituisce la superficie virtuale del buco nero; attraversandolo nell’unica direzione permessa (ossia verso l’interno), non incontreremmo alcunché di solido: non c’è materia ma solo geometria, curvatura gravitazionale che raggiunge al centro della configurazione un valore infinito. Il buco nero è dunque una “singolarità di curvatura” mascherata da un orizzonte degli eventi. Di per sé, le singolarità di curvatura, le regioni cioè ove la curvatura diverge (e che, propriamente, non appartengono allo spaziotempo, ma ne marcano i confini), possono esistere indipendentemente dalla presenza di un orizzonte degli eventi che le racchiuda: parliamo in tal caso di “singolarità nude”. Ora, avendo a disposizione una singolarità nuda sarebbe possibile indagare direttamente regioni di spaziotempo in cui l’enorme curvatura è origine di fenomeni decisamente esotici, tipo – paradossalmente – manifestazioni di antigravità, o violazioni della cronologia (un “tempo circolare”). La perplessità di fronte a simili strani oggetti ha portato all’ipotesi che nella realtà le singolarità nude non esistano, ossia che tutte le singolarità eventualmente esistenti nell’Universo debbano trovarsi rigorosamente avvolte da un orizzonte degli eventi che le sottragga totalmente all’osservazione diretta. La loro “nudità” dev’essere pudicamente protetta da sguardi indiscreti, per così dire; tanto è vero che quest’ipotesi, formulata da Penrose nel 1969, va sotto il nome di “postulato del censore cosmico”. Ora, tenendo presente che di un’ipotesi si tratta, e non di un teorema dimostrato, bisogna riconoscere l’esistenza di indizi che la rendono plausibile: ad esempio, pare non esser possibile distruggere un orizzonte per mettere a nudo la singolarità celata al suo interno. Va d’altra parte osservato che, almeno a livello classico, una singolarità senza orizzonte dovrebbe pur esistere: parliamo ovviamente del cosiddetto “Big Bang”, l’origine dell’Universo. E potrebbero esistere singolarità tali da poterci passare arbitrariamente vicino, senza per questo esser poi costretti a caderci irrimediabilmente dentro. In realtà, oggetti di questo tipo sono effettivamente previsti dalla Relatività Generale, e in relazione ad essi possono trovarsi associate – guarda caso – delle macchine del tempo.
Facciamo un passo indietro. Le equazioni di Einstein (così si chiamano le equazioni fondamentali della Relatività Generale) ci permettono di calcolare come lo spaziotempo si incurva in presenza di una data distribuzione di massa-energia. Possiamo così ad esempio determinare la struttura dello spaziotempo all’esterno di una stella sferica, e scoprire che quella stessa soluzione prevede anche l’esistenza di corpi collassati in una singolarità puntiforme, sempre schermata da un orizzonte: i famosi “buchi neri di Schwarzschild”. Il problema della singolarità nuda qui non si pone: l’orizzonte c’è sempre, e impedisce a qualsiasi tipo di informazione di sfuggire dal buco nero. Un osservatore curioso – e decisamente imprudente – potrebbe tuttavia decidere di entrare attraverso l’orizzonte, per rendersi conto di persona di quel che c’è all’interno. Lo può fare, senza impedimenti; naturalmente, si tratterebbe di un viaggio di sola andata… Comunque, se lo facesse scoprirebbe una cosa davvero “fantascientifica”: scoprirebbe di poter entrare in contatto causale (scambiare informazioni, cioè) con un altro universo! In effetti, la soluzione di Schwarzschild estesa descrive un sistema di due universi paralleli, distinti ma identici, connessi da un cunicolo spaziotemporale (il termine tecnico è wormhole, o “ponte di Einstein-Rosen”). Questo tunnel non è però attraversabile, non si può cioè passare da un universo all’altro: se uno ci prova, il cunicolo si strozza. L’esistenza di wormholes non è però proprietà esclusiva dello spaziotempo di Schwarzschild, tutt’altro. E questi varchi spaziotemporali potrebbero essere ottime macchine del tempo, se non fosse che… Vediamo un po’ di chiarire come stanno le cose.
Un cunicolo spaziotemporale è un ponte tra due universi, ma può connettere anche due regioni lontane di uno stesso universo. Infilarsi in un cunicolo per sbucarne all’altro capo potrebbe equivalere a “prendere una scorciatoia” nello spaziotempo, dato che la distanza attraverso il tunnel potrebbe essere molto più breve della distanza che separa le due entrate del tunnel nella regione esterna. Ci si potrebbe insomma spostare di molto, in un tempo molto breve (un po’ come avviene nei film di fantascienza con il “salto nell’iperspazio”). Sarebbe anzi addirittura possibile organizzare le cose in modo da sbucar fuori dal tunnel ad un valore di tempo coordinato (di un osservatore esterno) antecedente a quello di ingresso, ossia utilizzare il wormhole per viaggiare indietro nel tempo (naturalmente, non per ringiovanire: il tempo proprio avanza sempre). Tutto ciò è estremamente suggestivo, tanto più che questi tunnel non sono creazioni della fantasia, ma saltano fuori dalle equazioni… Allora, tutto sistemato? Abbiamo finalmente trovato la nostra macchina del tempo? In effetti, c’è un inghippo: come abbiamo già visto nel caso di Schwarzschild, i varchi spaziotemporali hanno la brutta abitudine di chiudersi non appena uno tenta di attraversarli. L’unico modo per renderli praticabili sarebbe quello di impiegare un’opportuna distribuzione di energia negativa: solo così si potrebbe impedire al tunnel di collassare. Ora, al di là del fatto che il concetto stesso di “energia negativa” è piuttosto esotico, la densità di energia negativa richiesta sarebbe talmente elevata, e bisognerebbe riuscire a confinarla in regioni talmente ridotte che, a quanto pare, la Natura si rifiuterebbe comunque di concedere il nullaosta a questo tipo di viaggi.
Lo stesso inconveniente, legato alla necessità di disporre di energia negativa, lo si incontra quando si prendono in esame i “motori di curvatura”. Anche in questo caso, un’idea “fantascientifica” – quella cioè di poter viaggiare racchiusi in una bolla di spaziotempo opportunamente distorto, a velocità che appaiono superluminali nell’universo esterno – trova una descrizione rigorosa nell’ambito della Relatività Generale. Vale la pena di sottolineare che questo tipo di viaggi non violerebbe comunque il postulato relativistico in base al quale la velocità della luce non può essere superata (in effetti, nemmeno raggiunta, se non nel caso di massa nulla) da alcun oggetto reale. Lo scopo della distorsione spaziotemporale è infatti quello di far sì che all’interno della bolla la velocità locale sia sempre minore di c, pur permettendo velocità apparentemente superluminali rispetto a un osservatore esterno. Il motore di curvatura crea nello spaziotempo, distorcendolo, una scorciatoia che può essere percorsa con effetti analoghi a quelli del cammino attraverso un wormhole. Ma anche in questo caso, come preannunciato, il problema è sempre lo stesso: se vogliamo ottenere la bolla di curvatura, l’energia negativa – tanta, ed estremamente concentrata – è condizione indispensabile. Con quello che ne segue, per quel che riguarda la realizzabilità…
Insomma, wormholes no, motori di curvatura no, tachioni neanche a parlarne… Ma non c’è proprio nessun modo per riuscire a farci un giretto nel passato?
Be’… Ricordate quello che avevamo detto sopra, riguardo alle singolarità e agli orizzonti degli eventi? Il “censore cosmico” e i buchi neri di Schwarzschild? Ebbene, esistono altre soluzioni esatte delle equazioni di Einstein, e tra di esse ce n’è una che ci coinvolge direttamente. Si tratta della cosiddetta “soluzione di Kerr”. Tale soluzione descrive lo spaziotempo generato da un oggetto con simmetria assiale: ad esempio, da una stella sferica che ruota (la soluzione di Schwarzschild corrisponderebbe in tal caso ad una stella ferma). Come nel caso di Schwarzschild, anche in quello di Kerr è prevista la possibilità che esistano buchi neri – ruotanti, in questo caso – e quindi la presenza di un orizzonte degli eventi che ricopra completamente (come richiesto dal censore cosmico) la singolarità centrale. Se però in Schwarzschild l’orizzonte esiste sempre, e la singolarità è puntiforme, in Kerr le cose non stanno affatto così: se la sorgente ruota abbastanza rapidamente, può accadere che l’orizzonte non esista, e la singolarità sia dunque “visibile”; in più, tale singolarità non è un punto, ma un anello. E un anello lo si può attraversare…
Cosa succede dunque? Innanzitutto, che ci si può avvicinare arbitrariamente alla singolarità senza per forza finirci dentro: per evitarlo, è sufficiente scostarsi dal piano equatoriale, dove tale singolarità giace. Scopriamo poi che, avvicinandoci all’anello, l’attrazione gravitazionale decresce, al contrario di quanto sarebbe stato “logico” aspettarsi. Giunti al centro dell’anello, scopriamo che nulla ci impedisce di attraversarlo; attraversiamolo, dunque: che mai ci potrà capitare? Semplicemente, che ci troveremo proiettati in un altro universo! Un universo curioso, per di più: un mondo del tutto simile a quello da cui proveniamo, con la trascurabile differenza che qui la gravitazione risulta repulsiva! E il bello è che questi due universi paralleli, quello “fuori” e quello “dentro” l’anello di Kerr, non sono distinti come i due universi di Schwarzschild, ma si compenetrano… Ricordate il fatto curioso che avevamo registrato, avvicinandoci all’anello dal nostro universo? Il fatto cioè che la gravità andava stranamente indebolendosi? Ebbene, questa altro non era che una manifestazione dell’influenza esercitata dall’universo repulsivo sul nostro; il quale, a sua volta, causa un’indebolimento dell’antigravità nell’altro, sempre nella regione vicina all’anello. Questi due mondi paralleli hanno influsso diretto l’uno sull’altro, e interagiscono apertamente – non come in Schwarzschild, dove devono nascondersi sotto l’orizzonte per farlo.
Tutto ciò è indubbiamente curioso e suggestivo; ma per i nostri viaggi nel tempo, come la mettiamo? Be’, la mettiamo così: una volta attraversato l’anello ed entrati nell’altro universo, scopriamo che in esso vi sono delle regioni, molto prossime alla singolarità, nelle quali è possibile l’ “inversione del cono di luce” rispetto ad un osservatore lontano. Cosa significa quest’espressione? Significa che se un osservatore riesce ad entrare in una di queste regioni, il suo orologio personale risulterà viaggiare all’indietro rispetto a quello che accade fuori, nel resto dell’universo. Questo non vuol ovviamente dire che il nostro osservatore abbia scoperto la fonte dell’eterna giovinezza: il suo tempo proprio continua ad avanzare, come avevamo già notato in precedenza; il fatto è che qui avanza in direzione opposta a quella del tempo proprio di qualsiasi osservatore esterno. Ma questo, ora, non vi suggerisce qualcosa?
Immaginiamo che un giorno degli astronomi scoprano una singolarità di Kerr nuda; un astronauta potrebbe allora salpare per dirigersi verso di essa, attraversarla ed entrare così nell’universo parallelo. A questo punto, individuata la regione di inversione temporale, non gli resterebbe che parcheggiare – letteralmente – la sua astronave lì dentro: in tal modo potrà percorrere delle orbite spaziotemporali che, rispetto ad un osservatore esterno, risulteranno svolgersi all’indietro nel tempo. Dopo una sosta adeguata, l’astronauta potrebbe uscire da tale regione e poi dall’universo parallelo attraverso l’anello di singolarità, per rientrare nell’universo di partenza e far infine ritorno alla base. Lì potrebbe scoprire che – se la sua permanenza nella regione di inversione temporale si è protratta sufficientemente a lungo – gli orologi della base segnano un tempo antecedente a quello segnato al momento della partenza. Durante il viaggio, il tempo dell’astronauta è trascorso normalmente; egli ritorna dunque a terra invecchiato, e si ritrova in un mondo più giovane (esattamente l’inverso di ciò che capitava al gemello astronauta della Relatività Speciale, ricordate?): per il nostro astronauta il viaggio compiuto ha le caratteristiche di un “ritorno al passato”. La regione di inversione temporale nell’universo repulsivo è dunque il generatore della macchina del tempo che cercavamo.
Resta ora da chiederci se un dispositivo del tipo di quello che abbiamo illustrato possa davvero esistere in Natura. La principale obiezione all’esistenza delle singolarità nude – quella che ha condotto all’ipotesi del censore cosmico – è la possibile violazione del principio di causalità. Sostanzialmente, l’obiezione è questa: se fosse possibile viaggiare nel passato, sarebbe anche possibile interferire con esso, scombinando la catena degli eventi in maniera tale da poter alterare, anche drasticamente, la struttura stessa del presente. Immaginate ad esempio un Edipo dei tempi moderni che, viaggiando nel passato, sia condotto lì a compiere il suo destino di parricida, uccidendo Laio prima di essere da lui generato: un tale atto porterebbe all’impossibilità dell’esistenza stessa di Edipo – e dunque di quel viaggio da cui un tale absurdum avrebbe avuto origine. L’obiezione è, come si vede, assai ben fondata. Non rimane nessuna speranza, allora?
È necessario compiere una distinzione tra violazione della causalità e violazione della cronologia. Quest’ultima avviene, come abbiamo già detto sopra, quando è possibile avere un “tempo circolare” – esattamente quello che accade nelle regioni di inversione temporale previste dalla soluzione di Kerr. Tuttavia, si può dimostrare che la violazione della cronologia non implica la violazione della causalità; anzi, laddove è possibile violare la cronologia, la Natura impedisce comunque di violare la causalità: le traiettorie spaziotemporali permesse sono comunque “autoconsistenti”, tali cioè da evitare paradossi del tipo di quello che abbiamo illustrato. A quanto pare, dunque, l’obiezione causale è già stata prevista, e superata, dalla Natura stessa; le macchine del tempo di Kerr non sono, insomma, delle eresie logiche. L’esistenza di tali macchine del tempo dipende però da quella delle singolarità nude; sappiamo qualcosa a riguardo?
Bisogna innanzitutto dire che l’esistenza delle singolarità nude potrebbe non trovarsi in contrasto con l’ipotesi del censore cosmico, seppure in una sua formulazione più debole: quella, cioè, secondo cui le singolarità nude possono tranquillamente esistere, a patto però di non essere osservabili. Ciò che importa, ai nostri fini, è infatti poter accedere alle regioni vicine alla singolarità, non alla singolarità in sé: vogliamo poterci infilare attraverso l’anello, non andare a sbatterci contro (guai!). Se le cose stanno effettivamente così, se cioè la Natura prevede questo tipo di censura cosmica, ne conseguirebbe anche che l’esistenza di singolarità nude nell’Universo non avrebbe necessariamente effetti catastrofici, anzi potrebbero starsene tranquille, un po’ come i buchi neri galattici di cui abbiamo parlato. Di fatto, la dinamica gravitazionale attorno a una singolarità nuda non si discosterebbe sostanzialmente da quella attorno a un buco nero; a distinguere queste due sorgenti potrebbero essere solo i fenomeni peculiari – manifestazioni di antigravità e di violazione della cronologia – associabili al primo tipo di oggetti, e non al secondo. Sotto quali forme tali fenomeni possano concretizzarsi, ancora non lo sappiamo: non abbiamo a disposizione una teoria che ci permetta di associare un dato fenomeno celeste all’esistenza di una singolarità nuda. Per il momento, quello che possiamo dire è che non sembrano esserci ostacoli logici alla realizzabilità effettiva, in Natura, di quella che è comunque una predizione della teoria. In assenza di tali ostacoli, e con il consenso della Natura, non sarebbe dunque vietato pensare di organizzarci, nel futuro, un bel viaggio nel passato…
Un’ultima annotazione, prima di concludere: noi ci siamo sempre mantenuti nell’ambito di una teoria classica, quale è la Relatività einsteiniana; non abbiamo cioè fatto riferimento alcuno ai fenomeni di natura quantistica che possono aver luogo in spaziotempi curvi. In effetti, quando tiriamo in ballo la meccanica quantistica è pressoché garantito che qualcosa di curioso debba sempre saltar fuori; nello specifico, ad esempio, che i buchi neri “non sono poi così neri”, tant’è vero che emettono radiazione e finiscono, prima o poi, per evaporare del tutto; o che al di sotto della scala di Planck (10-33 centimetri) la struttura stessa dello spaziotempo viene alterata da fluttuazioni che la rendono simile a una schiuma ribollente… Tutto ciò potrebbe avere consistenti implicazioni sul nostro modo di vedere le cose, anche in relazione alle macchine del tempo. Dico “potrebbe” perché, in effetti, una teoria quantistica della gravità non esiste, e quindi si tratta di un mondo tutto da scoprire. Ma questa è un’altra storia…
Bibliografia
Edwin A. Abbot, Flatlandia, Adelphi, Milano (1966).
Fernando de Felice, Gli incerti confini del cosmo, Bruno Mondadori, Milano (2000).
Lawrence H. Ford e Thomas A. Roman, in Fisica estrema – dall’energia negativa al teletrasporto quantistico, Frontiere Le Scienze n.11, Roma (2006).
James B. Hartle, Gravity. An Introduction to Einstein’s General Relativity, Addison Wesley, San Francisco (2003).
Abraham Pais, “Sottile è il Signore…”. La scienza e la vita di Albert Einstein, Bollati Boringhieri, Torino (1986).
Roman Sexl e Herbert K. Schmidt, Spaziotempo, Boringhieri, Torino (1980).
Robert M. Wald, Teoria del big bang e buchi neri, Boringhieri, Torino (1980).