Il Pericolo che viene dal Cielo
La concezione dei pianeti del Sistema Solare come oggetto d’impatti cosmici è affermata da tempo ma, fino a pochi decenni or sono, ancora si attribuiva alla Terra un ruolo di eccezione. Uno dei motivi di questa reticenza, forse il principale, risiede nella difficoltà di rilevare le tracce d’impatto sul nostro rispetto agli altri pianeti.
Luna a parte, l’indagine avente per oggetto le superfici planetarie ha potuto svilupparsi grazie al progresso tecnologico raggiunto nella seconda metà del XX secolo; pertanto fino ad allora risultava obiettivamente meno agevole stabilire se il meccanismo degli impatti fosse una caratteristica generale comune a tutti i corpi del Sistema Solare. Le indicazioni di ciò, in ogni caso, erano già tutte presenti.
L’osservazione sistematica della Luna (possibile fin da tempi dell’invenzione dei primi strumenti ottici), con la muta testimonianza incisa sulla sua superficie da un gran numero di formazioni crateriche più o meno imponenti, che in alcuni casi si sovrappongono o si intersecano, fornisce già un primo indizio. Qualcosa a riguardo potrebbe dirci Galileo Galilei, che nel 1609 rivolse verso la Luna il proprio telescopio e si rese conto di quanto il concetto d’immutabilità e di perfetta sfericità degli astri, fino ad allora fondamentale regola della scienza astronomica, naufragasse miseramente già sul corpo celeste a noi più vicino. Per lungo tempo, tuttavia, la formazione dei crateri lunari venne attribuita a situazioni endogene (una delle quali fu proposta già nel 1665, da R. Hooke, il quale suppose che i crateri lunari derivassero dall’esplosione di vapori o gas provenienti dal sottosuolo e raccoltisi presso la superficie in gigantesche bolle) come vulcanismo o fenomeni mareali (consolidamento sulla superficie di materiale proveniente dall’interno, sollecitato dinamicamente dall’attrazione gravitazionale terrestre). Neppure dopo che E.F.F. Chladni dimostrò, nel 1794, la possibilità della caduta sulla superficie della Terra di “sassi” provenienti dal cielo, ispirando così le ricerche di tali reperti, l’idea impattiva si diffuse come ci si sarebbe dovuti aspettare. Accanto ai sostenitori della visione endogena (e talvolta in acceso contrasto con essi) pochi erano coloro che sostenevano il legame diretto tra la morfologia superficiale del nostro satellite e l’azione dirompente di proiettili cosmici provenienti dallo spazio interplanetario; la paternità dell’ipotesi meteoritica è attribuibile a F. Von Gruithuisen (1829) e a R.A. Proctor (1873).
Nei primi anni del XIX secolo, con i fermenti suscitati dalla scoperta dei primi asteroidi e l’idea lanciata da Olbers del pianeta distrutto quale origine di Cerere e compagni, sembrò prendere consistenza la consapevolezza che ci si trovasse in una situazione tutt’altro che tranquilla, con l’ammissione che persino gli stessi pianeti potessero subire urti, anche di estrema violenza.
Quasi subito, però, all’ipotesi di Olbers venne preferita l’assai più rassicurante teoria che gli asteroidi fossero non i resti di un pianeta bensì i mattoni che avrebbero dovuto costruirlo. Nulla di strano, quindi, che fosse rigettata anche l’idea dell’Ing. D.M. Barringer, ossia quella di attribuire ad un’origine extraterrestre l’enorme buca di oltre 1 km di diametro presente nel deserto dell’Arizona (oggi nota con il nome di Meteor Crater o anche Barringer Crater), subito catalogata dagli scienziati come una struttura di genesi vulcanica. Facile allora capire come, analogamente, anche l’origine dei crateri lunari fosse ritenuta vulcanica.
Il vero colpo di grazia alle teorie endogene venne assestato dall’esplorazione spaziale: la scoperta di formazioni analoghe ai crateri d’impatto terrestri anche su altri corpi celesti (Mercurio, Venere, Marte, gli asteroidi e i satelliti “visitati” dalla sonda Galileo e dalla NEAR…), ha fornito peso ed autorevolezza alla teoria impattiva, accreditandone la validità per tutti i oggetti cosmici.
Di fronte alla presenza generalizzata nel Sistema Solare di crateri da impatto, già un semplice ragionamento statistico (prima ancora di mettere sul piatto della bilancia prove schiaccianti) conduceva ritenere che la stessa Terra dovesse essere potenzialmente soggetta al verificarsi di urti con altri corpi celesti. Col notevole incremento, a partire dagli anni ’70, dello studio dei Corpi Minori, l’intero Sistema Solare cominciava a mostrare sempre più i connotati di un grande biliardo cosmico, e l’urto tra i vari corpi orbitanti intorno al Sole (noti in numero ogni giorno maggiore grazie alle continue scoperte) un meccanismo relativamente (su tempi cosmici) frequente, tanto da potersi considerare uno dei fattori primari nell’evoluzione planetaria.
GLI IMPATTI NEL SISTEMA SOLARE
La quasi totalità degli scienziati considera fondamentalmente corrette le teorie cosmogoniche del Sistema Solare cosiddette nebulari, che fanno cioè riferimento a un’origine comune del Sole e dei pianeti, riconducibile a un’unica nebulosa primordiale. Tali teorie concordano nel prospettare un avvenuto accrescimento graduale, con ritmi evolutivi differenziati, sia del Sole che degli altri corpi del Sistema. Permangono invece difformità di vedute quando si tratta di dover identificare i meccanismi fisici responsabili dell’innesco e del rapido sviluppo del fenomeno dell’accrescimento.
Fino a qualche decennio fa, peraltro, era in voga una visione molto “tranquilla” dell’origine e dell’evoluzione del Sistema Solare. Il meccanismo di accrescimento era inteso come un aggregarsi progressivo di polveri che andavano a formare corpi di dimensioni via via crescenti: un quadro che approfondiva poco l’eventualità di violente interazioni tra gli oggetti che si andavano formando o che già si erano formati. Esisteva, fin dall’inizio del secolo scorso, la consapevolezza della natura extraterrestre del fenomeno meteoritico, ma esso veniva considerato secondario, una caratteristica degenerativa occasionale nell’ambito di un processo evolutivo.
In questa visione, i crateri che costellano la superficie lunare costituivano un vero e proprio mondo a parte, una sorta di “anomalia” che male si adattava all’idea del lento e graduale aggregarsi dei planetesimali. Tanto più che l’altra superficie planetaria conosciuta, quella della nostra Terra, di tali strutture ne presentava ben poche.
I primi dubbi sulla presunta rarità degli impatti si possono già intravedere, a mio parere, negli studi di K. Hirayama sulle famiglie dinamiche degli asteroidi (il suo primo lavoro sull’argomento fu pubblicato nel 1918), che spalancheranno la strada ad elaborazioni successive più complesse ed approfondite. Ma la concezione allora in voga nell’ambiente scientifico voleva che il meccanismo impattivo caratterizzasse unicamente la Fascia degli Asteroidi, vista come una zona particolarmente affollata e caotica; per il resto del Sistema Solare, invece, valeva il modello del perfetto congegno a orologeria, che si muoveva seguendo il rigore matematico racchiuso nelle leggi di Keplero.
Ad ogni modo, seppure lentamente, già emergeva il sospetto che l’accrescimento planetario non potesse reggersi sulla sola aggregazione di polveri, ma dovesse prevedere una formazione quasi “a gradini”, derivata dall’unione di corpi già “formati”. L’ipotesi di questa crescita gerarchica implicava che oggetti di dimensioni ormai consistenti potessero cozzare fra loro, con la concreta eventualità che un tale scontro risultasse distruttivo. Oggi questa idea costituisce un punto fermo e irrinunciabile della planetologia. Le conoscenze acquisite grazie alle missioni delle sonde spaziali e alle simulazioni numeriche al computer forniscono oggi la certezza che il meccanismo degli urti tra i planetesimali in via di formazione abbia giocato un ruolo cardine nei processi evolutivi dell’intero Sistema Solare. Ciò significa non solo accettare che l’accrescimento dei planetesimali sia avvenuto a seguito di “urti costruttivi”, in grado cioè di non disperdere nello spazio dopo l’impatto i materiali costituenti i corpi originari, ma ammettere la presenza di urti anche molto più energetici, in grado di compromettere la stessa stabilità fisica degli oggetti già formati.
In merito all’importanza delle missioni spaziali, e limitandoci unicamente a considerare i corpi celesti a noi più vicini, ricordiamo che la scoperta dei crateri su Marte è dovuta alle osservazioni del Mariner 4 nel 1965, mentre nel 1971 Mariner 9 mostrò la craterizzazione dei due satelliti marziani Phobos e Deimos. I crateri di Venere, da sempre nascosti sotto uno spesso strato di nubi, sono stati rivelati per la prima volta nel 1972, grazie ad osservazioni radar, mentre quella di Mercurio ci è nota in seguito alle fotografie inviate nel 1974 dalla sonda Mariner 10. E occorre citare anche i meravigliosi tour delle due sonde Voyager (lanciate nel 1977), le fantastiche immagini inviateci dalla Galileo (la cui missione è iniziata il 18 ottobre 1989) durante i suoi incontri ravvicinati con il sistema satellitare di Giove e con gli asteroidi Gaspra e Ida, e il panorama non meno spettacolare dell’asteroide Mathilde, mostratoci dalla sonda NEAR che, partita il 17 febbraio 1996 con destinazione Eros, è dal 14 febbraio 2000 in orbita intorno all’asteroide.
Constatare che la craterizzazione rappresenta un fenomeno globale significa includere in questo quadro da tiro a segno cosmico anche la Terra: e ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale, nella quale un posto preminente si ritiene debba essere riconosciuto all’opera del già citato ricercatore di Eugene Shoemaker. A lui si deve lo studio approfondito (fu l’argomento della sua tesi di laurea) del Meteor Crater in Arizona e la ricostruzione, ritenuta valida tuttora, della dinamica dell’evento e della composizione del corpo impattante.
Un elemento molto importante presente nello studio del cratere di Barringer effettuato dal Dr. Shoemaker è l’identificazione della coesite (una forma di silicio che si origina in presenza di elevate pressioni e temperature) quale prova incontrovertibile dell’origine da impatto, un segno distintivo che, unito a tutte le altre manifestazioni di metamorfismo da shock, porterà, dalla fine degli anni ‘60 in poi, a un esponenziale incremento del numero di identificazioni di crateri da impatto terrestri.
Esistono diversi elementi capaci di suggerire la presenza attiva e fondamentale del meccanismo impattivo nel Sistema Solare. Il primo di essi è certamente l’obliquità dei pianeti, cioè l’angolo tra il piano equatoriale e quello dell’eclittica.
Come si può notare dai dati riportati (nell’elenco manca Plutone, sia per la peculiarità della sua orbita e sia perché le recenti scoperte degli oggetti trans-nettuniani potrebbero suggerire per esso una differente e più consona classificazione), la condizione in cui si trovano tutti i pianeti è caratterizzata dall’inclinazione (in alcuni casi addirittura estrema) dell’asse di rotazione rispetto al piano orbitale. La particolarità non trova risposta plausibile nella teoria dell’accrescimento graduale da polveri, dovendo necessariamente prevedere la presenza di disomogeneità dinamiche locali, la cui origine, però, rimarrebbe un vero mistero. Come motivare, per esempio, il manifestarsi dell’anomala situazione di Venere, il cui senso di rotazione è opposto a quello degli altri pianeti? Per quale ragione e attraverso quale meccanismo fisico la porzione di nube primordiale collocata a quella distanza dal Sole avrebbe dovuto innescare un moto rotatorio invertito?
Nella tabella, l’unico pianeta non inclinato è Mercurio, ma le sue modeste dimensioni e, soprattutto, l’estrema vicinanza con il Sole (solamente 0.38 U.A.) possono dinamicamente rendere ragione della sua specifica situazione orbitale, come dimostra anche il legame risonante tra periodo orbitale e rotazionale (stanno in un rapporto 3:2) e tra periodo rotazionale del Sole e analogo periodo di Mercurio (il rapporto è 7:3).
La spiegazione più semplice per l’obliquità orbitale richiede espressamente il verificarsi di colossali e violentissimi impatti, presenti e intensi in tutto il Sistema Solare, tanto nei momenti della sua formazione quanto nelle epoche successive. Scontri inimmaginabili, in grado di condizionare non solo la morfologia superficiale dei corpi coinvolti, ma la loro stessa integrità fisica e le loro caratteristiche dinamiche; il modello proposto nel 1989 da W. Benz e A.G.W. Cameron per giustificare la sorprendente condizione di Urano, ad esempio, ipotizza un impattore con dimensioni paragonabili a quelle della Terra!
Un secondo elemento riconducibile all’azione degli impatti è la strutturazione stessa del nostro pianeta (e analogo discorso può essere fatto per gli altri pianeti di tipo terrestre), nel quale si è verificata una drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti (fondamentalmente ferro e nickel) e quelli leggeri (vari composti silicati quali olivina e pirosseni), avvenuta in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati nella discesa verso il centro del pianeta dei pesanti, con la conseguente separazione tra nucleo e mantello. La spaventosa quantità di energia richiesta per simili eventi è compatibile con quella potenzialmente derivante da episodi di tipo collisionale, soprattutto se si considera l’alto tasso d’impatti che avrebbe caratterizzato le fasi iniziali del Sistema Solare.
Il quadro generalmente accettato per descrivere questi esordi (desunto in gran parte dallo studio della craterizzazione lunare) prevede infatti la presenza di un catastrofico bombardamento che coinvolse oggetti di dimensioni anche superiori ai 100 km, la cui intensità diminuì poi drasticamente circa 3.850 milioni di anni fa. Una testimonianza concreta della violenza degli impatti negli stadi iniziali della vita del Sistema Solare la individuiamo sulla Luna e su Mercurio.
Le superfici dei due corpi sono estremamente somiglianti, coperte da una fitta ed eterogenea craterizzazione, da piccole strutture a grandi bacini. È la conferma di un intenso bombardamento che deve aver interessato tutta la zona interna del Sistema Solare, e che si è protratto nel tempo non a ritmo costante ma con una graduale diminuzione sia per dimensioni dei corpi impattanti che per numero stesso degli impatti (lo si deduce analizzando le sovrapposizioni dei crateri).
Ulteriori considerazioni emergono se affiniamo la nostra analisi, prendendo in esame i valori delle densità di Mercurio e del nostro satellite. Se valutiamo le densità dei pianeti a pressione zero, cioè ipotizzando per essi una struttura sferica senza gli effetti della compressione, il valore attribuibile a Mercurio (5,3 g/cm3) appare superiore a quello di tutti gli altri pianeti di tipo terrestre, il che ci induce a ritenerlo formato da un nucleo ferroso avvolto da una sottile crosta composta prevalentemente da silicati. Mercurio, quindi, così simile alla Luna in superficie (anche come composizione chimica), avrebbe un nucleo interno uguale a quello della Terra, verosimilmente proveniente, come è avvenuto per il nostro pianeta, dal meccanismo della differenziazione nucleo-mantello. Eppure Mercurio manca del mantello.
La domanda cruciale, allora, è la seguente: basta l’alta temperatura causata dall’estrema vicinanza del Sole a spiegare la carenza di sostanze più leggere (ipotesi dell’evaporazione del mantello)? Oppure è necessario teorizzare un processo meccanico di asportazione dei materiali (ipotesi della rimozione collisionale)? Ambo i quadri potrebbero reggere, ma l’ipotesi che un gigantesco urto abbia privato Mercurio del suo mantello di silicati ha il pregio di poter spiegare anche l’inclinazione dell’orbita rispetto all’eclittica (7 gradi), maggiore di quella di tutti gli altri pianeti (escluso Plutone, alla cui particolarità abbiamo già accennato).
Le correnti simulazioni per il fenomeno ipotizzano un proiettile dotato di una massa pari a circa un quinto di quella del pianeta, e una velocità all’impatto di 20 km/sec.
Se il problema per Mercurio consisteva nel trovare una spiegazione alla sua elevata densità, per la Luna appare esattamente inverso. Poiché la sua densità (valore medio 3,34 g/cm3) è molto prossima a quella del mantello terrestre, è sempre parso logico ipotizzare per il nostro satellite una composizione di silicati e, necessariamente, la mancanza di quel nucleo pesante che può essere considerato peculiarità dei corpi planetari ubicati in questa zona del Sistema Solare. Quando le missioni americane e sovietiche riportarono campioni di rocce lunari, si scoprì però che la loro composizione chimica era assai diversa da quella riscontrabile nel mantello della Terra: risultavano del tutto prive d’acqua, e arricchite di elementi refrattari. Cadeva così la teoria della comune origine dei mantelli terrestre e lunare, e di una formazione del nostro satellite coeva alla Terra, come pianeta doppio. Altre ipotesi (ad esempio quella del satellite catturato e sradicato da una sua orbita indipendente, o quella della fissione in due di un unico corpo causata dalla rapida rotazione) erano già state abbandonate a causa delle loro incongruenze dinamiche; si rendeva quindi necessario trovare modelli alternativi che fossero in grado di giustificare sia il l’elevato contenuto di momento angolare del sistema Terra-Luna, sia la strana composizione chimica del nostro satellite.
Prende allora corpo la teoria di un catastrofico impatto della Terra con un planetesimale (i modelli propongono per il proiettile dimensioni dell’ordine di quelle di Marte), scontro di portata tale da conciliarsi col momento angolare del sistema Terra-Luna (non giustificabile con semplici impatti di minori dimensioni). Partendo dal presupposto che il corpo destinato a colpire la Terra fosse già differenziato in nucleo e mantello, quello stesso nucleo avrebbe potuto incrementare il terrestre, mentre il mantello, inizialmente disperso in un disco, si sarebbe successivamente riaggregato per originare la Luna. L’accrezione e la solidificazione della crosta lunare verrebbero collocate 4.440 milioni di anni fa, epoca nella quale iniziò, con una durata di circa 500 milioni di anni, il periodo di intenso bombardamento responsabile della creazione di quegli smisurati bacini d’impatto, in seguito colmati da colate basaltiche, che attualmente costituiscono i Mari lunari.
Ma nel Sistema Solare non ci sono solamente la Luna e Mercurio… Proseguiamo perciò il nostro cammino alla ricerca di testimonianze relative alla presenza e al ruolo degli impatti, e lo facciamo iniziando dai pianeti a noi più vicini.
– L’esame della superficie di Venere, nonostante la densa atmosfera che ricopre il pianeta, è stata resa possibile dalle osservazioni radar, effettuate sia con radiotelescopi terrestri (soprattutto Arecibo in occasione delle congiunzioni Terra-Venere, verificatesi negli anni 1975 e 1977) sia a mezzo di sonde spaziali (ricordiamo le sovietiche Venera 15 e 16 lanciate nel giugno 1983). In particolare, la sonda Magellan (lanciata il 4 maggio 1989) ha fornito, a partire dal 1990, una mappa topografica dettagliata di oltre il 98% della superficie venusiana, con risoluzione di 120 m nella zona equatoriale e 250 m ai poli.
Sono risultati riconoscibili crateri anche su Venere, con diametri compresi tra 3 e 280 km, distribuiti in modo abbastanza uniforme sull’intera superficie del pianeta. È stato inoltre possibile identificare bacini da impatto di enormi dimensioni (uno di essi presenta ben 1800 km di diametro). In oltre il 60% dei casi questi crateri non sembrano mostrare effetti di modificazione imputabili a processi geologici o climatici. L’assenza di crateri inferiori a 3 km è connessa alla potente azione di filtro giocata dalla densa atmosfera venusiana, in grado di distruggere i meteoroidi al di sotto di una certa dimensione, o di frenarne la caduta abbastanza da non permettere loro di produrre crateri al momento dell’impatto. In simili evenienze, in luogo dei crateri, si manifesterebbero al suolo particolari strutture, che sono state appunto identificate su Venere, dovute all’azione dell’onda d’urto trasmessa dal meteoroide all’atmosfera.
La maggior testimonianza lasciata dagli impatti su Venere è, però, il già accennato moto di rotazione retrogrado del pianeta (insieme a quello di Urano gli unici in tutto il Sistema), riconducibile a un poderoso urto avvenuto agli inizi della sua formazione, allorché le dimensioni dei planetesimali erano decisamente superiori agli impattori delle epoche successive, in cui le orbite s’erano ormai stabilizzate e le zone più “a rischio” quasi completamente svuotate.
– Marte presenta invece una strana conformazione superficiale, accomunando due emisferi (separati da un cerchio massimo inclinato di circa 35° rispetto all’equatore) con caratteristiche completamente differenti: uno (quello meridionale) ricco di crateri, canali e profonde depressioni la cui morfologia può richiamare gli altipiani lunari, e l’altro (quello settentrionale) caratterizzato da pochi crateri e dalla presenza di numerose strutture vulcaniche estinte.
L’analisi delle strutture da impatto ci suggerisce, riguardo la composizione del suolo marziano, un’abbondante presenza di acqua sotto forma di permafrost: gli ejecta dei crateri d’impatto, infatti, mostrano un contorno lobato (e non a raggiera come nei crateri lunari) interpretabile come un avanzare di fango, formatosi dallo scioglimento, ad opera del calore generato dall’impatto, del terreno ghiacciato, e dal suo successivo ricongelarsi dopo aver ricoperto la zona circostante.
Una possibile spiegazione sull’origine di queste grandi quantità di acqua è proposta da Christopher F. Chyba ricorrendo all’ipotesi di un intenso bombardamento di Marte ad opera di comete e asteroidi carbonacei, nell’epoca iniziale della formazione del Sistema Solare.
– Anche la morfologia dei corpi componenti la Fascia degli Asteroidi (rivelataci dalla sonda Galileo con le prime immagini di Gaspra e Ida e, successivamente, dalla NEAR con quelle di Mathilde e di Eros) presenta i segni lasciati dagli impatti. Non solo crateri più o meno fitti e di svariate misure, ma anche vere e proprie voragini, le cui impressionanti dimensioni lasciano talvolta perplessi sul fatto che i corpi abbiano retto all’urto senza disintegrarsi: veramente incredibile quella di oltre 20 km presente su Mathilde, un asteroide che ha un diametro di 52 km!
– Per quanto i riguarda i giganti gassosi (Giove e Saturno), privi di superficie solida, non ci si può aspettare un tappeto di crateri come quello dei pianeti rocciosi. In occasione dell’impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9 (luglio 1994) furono spettacolari ed evidentissimi i segni lasciati dai frammenti sulla superficie di Giove; nel volgere di un anno, tutavia, l’intensità delle tracce era già notevolmente diminuita, confermando come l’atmosfera gioviana fosse in grado di disperdere rapidamente le polveri e i gas originatisi nell’impatto e rimasti in sospensione.
Giove è dunque avaro d’informazioni circa gli impatti antichi, ma non i suoi satelliti.
La superficie di Ganimede racconta di un passato “violento”. Presenta numerosi crateri, eterogenei nella distribuzione probabilmente a causa delle differenti età dei terreni dovute a un’intensa e travagliata attività geologica; è ragionevole peraltro presumere che tale attività abbia inevitabilmente nascosto gli impatti più antichi, e questo potrebbe spiegare la sola presenza di crateri relativamente modesti e l’assenza dei giganteschi bacini d’impatto rilevabili altrove (cosa che pure non impedisce anche a Ganimede di fare sfoggio di una struttura di 550 km: il bacino Gilgamesh).
Callisto è, per dimensioni, uguale a Mercurio; proprio come quest’ultimo, presenta una una fitta craterizzazione, con larghi bacini d’impatto (i due maggiori sono Valhalla con diametro di 4.000 km e Asgard di oltre 1.600 km). A differenza di quanto è avvenuto per Ganimede, quindi, la sua superficie non è stata ringiovanita e rimodellata da attività geologica
Poco ci si può invece aspettare dall’analisi di Io: l’intenso riscaldamento interno, indotto dall’azione di marea generata dalla vicinanza di Giove, sfocia in fenomeni vulcanici che influenzano pesantemente la morfologia superficie del satellite.
Anche Europa fornisce scarse informazioni sul tasso d’impatti, ma per ben altri motivi. La superficie del secondo satellite galileiano è completamente ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e pertanto, in caso d’impatto, non sussistono le premesse ambientali perché una struttura craterica si possa conservare per lunghi periodi. L’analisi delle immagini inviate dalle sonde (soprattutto quelle scattate dalla Galileo nel corso del flyby effettuato il 6 novembre 1997) ci permetteno comunque di rilevare numerosi crateri, piccoli e grandi: si può senza difficoltà identificare l’evidente struttura a raggiera di Pwyll (un cratere recente con diametro di 26 km), e con altrettanta chiarezza si può notare, in una immagine del 4 aprile 1997, una struttura craterica multi-ring di 140 km di diametro.
– Una situazione tormentata, imputabile per alcuni aspetti al meccanismo degli impatti, viene offerta anche dal sistema di Saturno. Tralasciamo il discorso relativo agli anelli (peraltro non più esclusiva pertinenza di questo corpo, dopo le scoperte di analoghe strutture intorno a Giove, Urano e Nettuno), la cui formazione non necessariamente si spiega ricorrendo all’ipotesi di un impatto capace di sbriciolare un satellite, ma potrebbe invece chiamare in causa le intense forze mareali indotte dal pianeta, o meccanismi accretivi che possono aver interessato un disco di polveri originario.
Le informazioni che maggiormente interessano le fornisce il satellite Mimas, un oggetto di circa 390 km di diametro, sulla cui superficie spicca il gigantesco cratere Herschel. Le dimensioni di questa struttura (ben 130 km di diametro) c’inducono a ritenere che l’impatto che l’ha generato possa essere stato a un passo dal causare danni strutturali ben più disastrosi. La stessa inclinazione orbitale di Mimas (circa 1,5°) non è escluso si possa attribuire proprio a tale evento. Mimas, analogamente a Rhea e Giapeto, mostra inoltre una saturazione di piccoli crateri e una carenza di quelli maggiori di 30 km, indizio di un’epoca di formazione recente. Si può ipotizzare per tali satelliti un meccanismo di creazione-distruzione che possa essersi attivato più volte nel corso della loro storia.
– Passando a Urano, si è già accennato al suo asse di rotazione praticamente adagiato sull’orbita, traccia di un passato fatto di violenti episodi collisionali capaci d’influenzare pesantemente la formazione del pianeta. I suoi satelliti mostrano morfologie molto varie: Ariel e Titania presentano superfici abbastanza giovani, e rivelano di essere stati dei corpi geologicamente attivi; Umbriel ricorda Callisto, con una superficie praticamente immutata dal termine del periodo di intenso bombardamento iniziale; Miranda esibisce sia terreni molto antichi, e fitti di crateri, sia terreni più recenti. Quest’ultimo satellite, inoltre, mostra un’inclinazione orbitale di oltre 4 gradi.
– E siamo giunti a Nettuno. Anche qui le informazioni sugli impatti sono piuttosto scarse. Le immagini più recenti (inviate dal Voyager 2 nell’agosto 1989) mostrano un’enigmatica superficie verde-azzurra, con evidenti segni di complessi moti atmosferici, ma nulla ci è dato conoscere della superficie sottostante.
Più utili sono le immagini di Tritone, che evidenziano sia complesse strutture di difficile interpretazione che un più familiare bacino da impatto, quasi cancellato dal materiale effusivo che ha colmato la cavità iniziale (in tale fenomeno, e nella sua collocazione in epoca recente, potrebbe forse ricercarsi la spiegazione dell’assenza di altri crateri). Ma Tritone, indirettamente, ci può fornire un’indicazione molto più importante… Il sistema satellitare di Nettuno (troppo anomalo per essere quello originario) ha da sempre spronato i planetologi a identificare le cause della sua stranezza, e la teoria attualmente accettata è quella proposta da P. Farinella e dai suoi collaboratori nel 1980, che identificano nella cattura di Tritone lo sconvolgimento del primitivo sistema satellitare di Nettuno. L’ipotesi spiegherebbe non solo il moto retrogrado del satellite, ma anche l’esistenza delle complesse strutture superficiali a cui si faceva cenno, attribuibili alle forti sollecitazioni gravitazionali che avrebbero riscaldato l’interno del pianeta.
Dopo la scoperta degli oggetti trans-nettuniani, si è fatta strada l’idea che Tritone e molti altri corpi celesti (Plutone con il suo satellite Caronte, il satellite di Saturno Phoebe, Chirone e il gruppo dei Centauri) appartengano proprio a questa tipologia di oggetti, e dunque provengano dalla cosiddetta Fascia di Kuiper-Edgeworth.
Mentre Tritone è stato direttamente catturato da Nettuno e altri oggetti sono stati bloccati in un’orbita stabile (Plutone, ad esempio, insieme un gran numero di Kuiper Belt Objects, sono in risonanza orbitale con Nettuno), appare ragionevole supporre che altri “tritoni” possano essere entrati nella zona planetaria del Sistema Solare, terminando bruscamente il loro peregrinare contro la superficie di un pianeta, con evidenti drammatiche conseguenze (basti pensare che Tritone ha un diametro di 2.705 km). In quest’ottica appare possibile il verificarsi di impatti giganteschi anche in epoche successive al bombardamento iniziale che ha caratterizzato l’evoluzione del Sistema, al quale fin qui abbiamo fatto riferimento come periodo contrassegnato dagli impatti più energetici.
LA FORMAZIONE DI UN CRATERE DA IMPATTO
L’impatto di un oggetto proveniente dallo spazio esterno su una superficie planetaria, evento che porta alla formazione di un cratere, è solitamente un fenomeno rapido, che si compie in tempi che oscillano da frazioni di secondo a pochi minuti. Per descrivere efficacemente un fenomeno dal decorso così veloce, si è soliti ricorrere ad un artificio, una sorta di scomposizione degli eventi fatta a tavolino, identificando e separando nella genesi del cratere d’impatto varie fasi. Tale convenzione divide tuttavia, a scopo di analisi, momenti e fenomeni fisici che, nella realtà, non seguono una sequenza temporale rigorosa, ma si sovrappongono e si influenzano a vicenda.
Premesse queste indispensabili precisazioni, esaminiamo da vicino le quattro fasi dell’evento che, di solito, vengono indicate come le più rappresentative, vale a dire: compressione, escavazione, espulsione dei materiali e modificazione finale della struttura.
Compressione
Durante la prima fase, il meteorite colpisce la superficie planetaria e innesca un sistema di onde d’urto che trasferiscono energia cinetica (è infatti questa l’origine del contenuto energetico associato ad ogni evento impattivo) non solo dal proiettile al bersaglio, ma anche all’interno dello stesso corpo impattante. La pressione generata nel momento dell’impatto è elevatissima: si calcola, infatti, che nella formazione di un tipico cratere di 10 km prodotto da un oggetto dotato di velocità entro valori standard (dell’ordine, cioè, di 15 km/sec) si possono raggiungere picchi di 5.000-10.000 kbar (500-1000 Gpa). (Figura A).
Escavazione
Le onde d’urto generate dall’evento si propagano nel terreno (la loro velocità iniziale è di circa 10 km/sec); questa compressione (associata all’espulsione di materiali dal luogo dell’impatto) origina la cosiddetta “cavità transiente”, l’enorme voragine iniziale destinata, in seguito, a trasformarsi nel cratere vero e proprio (figura B).
Il cratere, pertanto (tranne nel caso d’impatti di basso livello energetico) non è mai identificabile come fenomeno di scavo meccanico originato da un oggetto solido (il meteorite) che, per così dire, si apre la strada all’interno di un altro oggetto (la superficie planetaria), cercando di mantenere la direzione del suo moto; si tratta, invece, del trasformarsi istantaneo, in una regione circoscritta, di enormi quantitativi d’energia cinetica in energia meccanica e termica.
Dal punto di vista fisico, l’evento è paragonabile all’esplodere di una bomba: le differenze risiedono fondamentalmente nel quantitativo di energia coinvolta, e nel tipo di energia iniziale (cinetica quella del meteorite, chimica quella dell’esplosivo) che origina lo scoppio. In un impatto astronomico, diventano irrilevanti sia la forma dell’impattore che la direzione di provenienza del suo moto: il risultato è, in ogni caso, un cratere circolare.
Unica eccezione: l’impatto radente, cioè angolato non più di qualche grado rispetto all’orizzonte, situazione che potrebbe originare un cratere ellittico (o una serie di crateri allineati a causa della disgregazione del proiettile in più oggetti distinti) dal momento che l’energia liberata interesserebbe una “linea” più che un singolo punto.
Espulsione dei materiali
Inizialmente, l’espulsione dei materiali avviene a velocità molto elevate (anche qualche km/sec), poi si attenua stabilizzandosi su valori dell’ordine di 100 m/sec. I materiali (ejecta) vengono scagliati verso l’alto e verso l’esterno, ricoprendo una vasta area circostante il luogo dell’impatto, e formando le caratteristiche raggiere (tipiche di alcuni crateri lunari, ad esempio Tycho), che sulla Terra verranno ben presto mascherate dalla vegetazione, o cancellate dai fenomeni atmosferici e geologici (figura C).
Modificazione
La fase di modificazione della struttura craterica iniziale creatasi a seguito dell’impatto (cavità transiente) può essere considerata in una duplice prospettiva: analizzando i fenomeni immediatamente successivi all’evento e ad esso direttamente correlati, o valutando processi che, sebbene estranei all’impatto e caratterizzati da tempi di azione spesso molto lunghi, sono cause di mutamenti non meno importanti per l’intera struttura (figura D).
Il più importante tra i processi direttamente innescati dall’evento impattivo e che si manifestano negli istanti immediatamente seguenti al suo verificarsi è l’assestamento isostatico della struttura. Non appena diminuisce l’azione di compressione sulle rocce sottostanti la zona della caduta, queste tendono a ritornare nella posizione iniziale (un vero e proprio rimbalzo elastico), riducendo in parte la profondità della cavità transiente; tale fenomeno, nel caso di grossi impatti, può sfociare nella formazione di una struttura centrale al cratere (central peak), oppure in una più complessa, ad anelli concentrici sopraelevati (bacino multi-ring). Non è automatico, infatti, che i crateri da impatto abbiano la caratteristica forma “a scodella” come quella del Meteor Crater.
La ricaduta degli ejecta nella zona stessa dell’impatto, contribuisce ulteriormente a ridurre la profondità della struttura. Il miscuglio di rocce risultante dalla condensazione del materiale fuso e parzialmente vaporizzato lanciato in atmosfera al momento dell’urto, e poi ricaduto, viene solitamente indicato con il termine di suevite.
A evento impattivo terminato, la morfologia della struttura non può assolutamente considerarsi definitiva e duratura: occorre fare i conti con i successivi mutamenti indotti dai fenomeni atmosferici (venti, precipitazioni, azione dei corsi d’acqua, movimento dei ghiacci…) e da quelli geologici (bradisismi, terremoti, fenomeni di orogenesi, manifestazioni vulcaniche…). Modificazioni di questo tipo possono riguardare solo la Terra e i corpi celesti ancora geologicamente attivi (per esempio Europa, satellite di Giove) oppure dotati di una atmosfera (come Venere), mentre non sono evidentemente presenti sul nostro satellite o sugli asteroidi. Giorno dopo giorno, sebbene sia più corretto (ma meno poetico) dire “milione di anni dopo milione di anni”, la costante azione di livellamento da agenti atmosferici e gli sconvolgimenti superficiali da fenomeni geologici portano inevitabilmente alla cancellazione delle pur ciclopiche cicatrici lasciate dagli impatti. È infine opportuno ricordare che anche la vegetazione contribuisce non solo a mascherare un sito d’impatto (e questo deve essere messo in conto quando si cerca di rintracciare tali strutture sul nostro pianeta), ma anche a mutarne la morfologia.
Su corpi geologicamente morti e privi di atmosfera è attivo peraltro un modo tutto particolare di eliminazione delle tracce di un impatto, ed è la cosiddetta saturazione di craterizzazione: laddove il corpo sia stato bersagliato tanto frequentemente da risultare completamente coperto di crateri, ogni nuovo impatto finisce fatalmente per distruggere (parzialmente o completamente) le tracce di uno precedente.
NON SOLO CRATERI…
Il processo di craterizzazione non è però l’unico fenomeno indotto da un impatto; nonostante la brevità temporale dell’evento, si possono innescare conseguenze ben più gravi di quelle localizzate nell’area interessata dalla craterizzazione, in grado di coinvolgere anche l’intera superficie terrestre. Possiamo stimare le conseguenze di un impatto attraverso una scala di valutazione dei rischi, articolata su quattro livelli di gravità crescente, proposta da Andrea Carusi nel 1995.
I livello: eventi che non costituiscono alcun rischio significativo per la biosfera. Sono compresi in questo gruppo le interazioni con corpi le cui dimensioni variano dalla regione millimetrica (ed inferiore) fino a qualche metro. Un esempio particolarmente significativo è stato il bolide con dimensioni iniziali di 1,5-3,0 metri e massa di 104-105 kg esploso ad una altezza di circa 30 km sopra Lugo di Romagna il 19 gennaio 1993. Un dato certamente confortante è che, in generale, i corpi rocciosi di massa minore di 100 tonnellate si disintegrano durante l’ingresso o l’attraversamento dell’atmosfera: la maggior parte della loro energia cinetica viene dissipata in tempi dell’ordine del secondo (o anche meno) con la conseguente esplosione del corpo. Questi episodi vengono definiti fireball o bolidi.
Per rendersi conto dell’enorme contenuto energetico associato a fenomeni di questo tipo, basti sapere che l’energia cinetica posseduta da un meteoroide di 10 grammi lanciato alla velocità di 30 km/sec (il valore approssimativo della velocità orbitale della Terra) è superiore a quella liberata dallo scoppio di 1 kg di tritolo.
II livello: eventi che coinvolgono corpi con dimensioni comprese tra 10 e 100 m, la cui incidenza temporale è dell’ordine di un evento ogni secolo. Appartiene a questo secondo gruppo il ben noto evento-Tunguska, del 30 giugno 1908, un bolide di una sessantina di metri esploso a un’altezza di circa 8 km, la cui onda d’urto sconvolse oltre 2000 km2 di fitta foresta siberiana, con una potenza esplosiva stimata tra i 10 e i 40 Mton.
Simile in dimensioni (ma differente in composizione e struttura) il piccolo asteroide metallico di poche decine di metri che 50.000 anni fa, impattando con la Terra a una velocità di circa 20 km/sec, originò in Arizona (USA) il Meteor Crater, una voragine profonda 183 m e con diametro di 1,2 km.
III livello: in questo gruppo vengono annoverati impatti con oggetti aventi dimensioni dell’ordine di 1 km. I rischi, in un simile evento, iniziano a crescere a causa dell’elevata quantità di polveri sollevate e immesse nell’atmosfera: i cambiamenti climatici derivanti potrebbero estendersi nel tempo. La soglia che separa il secondo dal terzo livello corrisponde approssimativamente a un evento la cui potenza esplosiva può essere quantificata dell’ordine di 1 milione di megatoni.
IV livello: è il caso estremo, e comprende gli impatti con piccoli asteroidi aventi dimensioni dell’ordine della decina di km; la situazione descritta in precedenza assume un carattere globale. L’impatto stesso, e i fenomeni da esso scatenati, comporterebbero per il nostro pianeta conseguenze apocalittiche, uno scenario spesso ipotizzato anche come conseguenza di un conflitto termonucleare su scala planetaria. La sequenza temporale delle letali conseguenze imputabili ad un impatto di questo livello può essere così sintetizzata:
1. Verificarsi dei fenomeni puramente meccanici ascrivibili direttamente all’impatto, quali la formazione del cratere e il conseguente terremoto ad esso associato, con effetti catastrofici entro un raggio di alcune centinaia di km (si stima che un oggetto con dimensioni di 10 km possa produrre un cratere di almeno 100 km di diametro). Nel caso di caduta in mare (evento certamente più probabile dato il rapporto terre emerse/mari sul nostro pianeta), si deve considerare il conseguente tsunami. Un oggetto di 200 metri (inquadrabile dunque ancora nel secondo livello) potrebbe dare origine in mare aperto ad onde alte 3,5 metri, che raggiungerebbero i 100 metri di altezza sulle coste. Parallelamente a questi fenomeni meccanici, sono da annotare quelli termici indotti sul luogo dell’impatto dall’energia liberata dall’urto stesso e, nelle zone limitrofe, dalla caduta dei materiali incandescenti, cause sicure dell’innescarsi d’incendi.
2. Compromissione del processo biologico di fotosintesi clorofilliana, per l’oscurità provocata dal permanere in sospensione nell’atmosfera delle polveri, dei fumi e delle ceneri.
3. Produzione nell’atmosfera di NOX (ossidi di azoto) e HNO3, a causa dello shock termico, e conseguente verificarsi del fenomeno delle piogge acide.
4. Diminuzione della temperatura ambientale, dovuta all’effetto-scudo provocato da polveri e ceneri.
5. Successiva e altrettanto drastica inversione del precedente fenomeno, con innalzamento nel lungo termine dell temperatura dovuto all’effetto-serra.
La soglia d’immissione nella stratosfera di particelle di polvere che possa dare inizio a un “inverno da impatto” è stato stimato in circa 1013 kg, 100 volte maggiore della quantità prodotta dalle più spettacolari eruzioni vulcaniche degli ultimi due secoli, comprese quelle del Pinatubo nel 1991 e quella del Tambora nel 1816 (responsabile di quello che fu definito “un anno senza estate”).
In un loro notissimo studio pubblicato su Nature nel gennaio del 1994, Clark R. Chapman e David Morrison definiscono “impatto catastrofico globale” l’evento impattivo capace di causare la morte di un quarto della popolazione umana, il che avverrebbe sicuramente nel caso di abbassamento globale della temperatura di 10 gradi per una durata di mesi o di anni, con l’avanzare dei ghiacciai fino alle medie latitudini e l’impossibilità di mantenere produttive le coltivazioni agricole. Tale soglia potrebbe essere superata a seguito dell’impatto con un asteroide roccioso del diametro di almeno 1,5 km, in grado di liberare un’energia equivalente a 200 miliardi di tonnellate di tritolo.
Un esempio rappresentativo è l’evento K/T, un impatto con un asteroide avente dimensioni di una decina di km, avvenuto 65 milioni di anni fa (periodo tra il Cretaceo ed il Terziario), al quale si attribuisce l’estinzione dei dinosauri. Finalmente, dopo molte traversie, lo scenario proposto da Luis W. Alvarez e dal suo staff (Extraterrestrial Cause for the Cretaceous-Tyertiary Extinction – Science vol. 208 – Giugno 1980) è stato unanimemente accettato dalla comunità scientifica, anche perché le prove addotte sono divenute schiaccianti: per esempio l’abbondanza d’iridio rilevata in strati geologici corrispondenti al confine tra il Cretaceo e il Terziario (difficilmente inquadrabile se non ascrivendola ad un apporto esterno alla Terra), o, nello steso periodo, l’inconsueta diffusione di quarzo compresso (la cui produzione richiede pressioni di circa 90 kbar), l’anomalo rapporto Sr87/Sr86 imputabile ai fenomeni di piogge acide (acido nitrico originatosi dall’azoto atmosferico al momento dell’impatto), o, ancora, la formazione di sferule.
La stima dell’energia associata all’impatto suggerisce un valore dell’ordine di 1023 joule, corrispondenti a 24 milioni di megatoni, circa un miliardo e mezzo di bombe di Hiroshima!
Dopo anni di ricerche, sembra ormai certa l’individuazione del luogo di collisione: nel nord della penisola dello Yucatan (Messico) è stata scoperta, grazie a misure gravimetriche confermate da immagini ottenute dallo Shuttle Endeavour, una depressione di circa 180 km di diametro (cratere Chicxulub) compatibile con l’impatto con un corpo di 10-20 km di diametro.
Ma non è certamente stata questa l’unica occasione di profondi mutamenti dell’ecosistema terrestre ascrivibili, secondo alcuni, alle conseguenze di impatti con corpi esterni. Si è potuto rilevare da osservazioni geologiche e paleontologiche l’esistenza di una serie di eventi che, quasi con cadenza periodica (alla stregua di un serial-killer), hanno coinciso con estinzioni di specie viventi sul nostro pianeta.
MORFOLOGIA E IDENTIFICAZIONE DEI CRATERI DA IMPATTO
Considerando i crateri terrestri ancora ben conservati, per i quali, cioè, l’erosione non ha ancora operato importanti modifiche morfologiche, si può notare che manifestano strutture analoghe ai crateri riscontrabili sulla Luna e sulle altre superfici planetarie: man mano che aumentano le dimensioni del cratere, si passa da strutture semplici, dalla caratteristica forma di scodella, a strutture sempre più complesse, la cui morfologia è estremamente variegata. Le strutture da impatto vengono quindi distinte in crateri semplici e crateri complessi.
Crateri semplici: sono caratterizzati dalla tipica forma di depressione circolare, con bordi rialzati rispetto al terreno circostante provenienti dall’accumulo degli ejecta attorno al punto d’impatto. Il loro diametro, sul nostro pianeta, è contenuto entro circa 2-4 km. Il parametro che determina la morfologia finale di un cratere è il valore della forza di gravità sulla superficie: maggiore è tale valore e minore sarà il diametro di transizione. Sulla Luna, la cui gravità è circa un sesto di quella terrestre, il passaggio da formazioni semplici a complesse avviene per diametri dell’ordine di 15-20 km. Ruolo importante rivestono anche le proprietà dei terreni sedi della collisione, e il grado di resistenza dei materiali che li compongono. Ancora una volta si può menzionare il Meteor Crater, come esempio di cratere semplice.
Indicativamente, questi crateri presentano un rapporto tra profondità e diametro di circa 1:5 – 1:7, contro l’1:10 – 1:20 dei crateri complessi (le misurazioni di questi ultimi sono tuttavia più complicate, e spesso variano da studio a studio).
In merito alla profondità, occorre distinguere quella da considersi come reale, cioè la profondità della struttura al termine della sequenza impattiva, dall’apparente, ossia quella misurabile ai nostri giorni (influenzata dagli agenti erosivi).
Crateri complessi: un gruppo caratterizzato da una grande varietà nelle forme e nelle strutture, entro cui si possono comunque evidenziare alcuni tratti comuni. Già si è accennato al rapporto diametro/profondità inferiore rispetto ai crateri semplici, il che significa che tali strutture hanno, in proporzione, una minore profondità. Ma le caratteristiche fondamentali di un cratere complesso possono essere identificate nella presenza di un picco centrale e di bordi multipli concentrici (multi-ring) circostanti il punto d’impatto, riconducibili al rimbalzo elastico del terreno che tende a riprendere la sua posizione naturale dopo la violenta compressione iniziale.
Un fenomeno che può dare un’idea di ciò che accade è osservabile lanciando un sasso in acqua: si noterà il formarsi di una colonna ascendente centrale e l’innescarsi di onde concentriche intorno al punto d’impatto. Effettivamente, i materiali fusi a seguito dell’enorme quantità di energia sprigionata dall’impatto si comportano proprio come l’acqua, formando anelli concentrici che, con il successivo raffreddamento, si solidificano. Il crollo successivo delle pareti contribuisce, infine ad allargare la struttura portandola alle sue dimensioni finali.
Sebbene il picco centrale e la struttura ad anelli concentrici sono chiaramente visibili anche in molti crateri terrestri (Sudbury, Vredefort, Manicouagan, Clearwater Lakes, ecc.), gli esempi più significativi di crateri complessi s’individuano sul nostro satellite. Spettacolare è il cratere Tycho, una struttura del diametro di 85 km risalente a circa 100 milioni di anni fa: i raggi brillanti che si dipartono dal cratere e si estendono per buona parte dell’emisfero meridionale (molto appariscenti in occasione della Luna piena) sono gli ejecta dell’impatto che, non ancora arrossati dalla radiazione cosmica, spiccano sul fondo più scuro della superficie lunare.
Facilmente individuabili sul nostro satellite sono anche alcune gigantesche strutture, i cosiddetti bacini d’impatto. Tra i più grandi possiamo citare il Mare Orientale (diametro 900 km) e mostra evidentissima la sua struttura multi-ring, il Mare Imbrium (oltre 1.100 km) e, Polo Sud del nostro satellite, il Bacino Aitken (2.500 km).
Identificazione
La prova più lampante e definitiva dell’origine impattiva di una struttura craterica è naturalmente il rinvenimento in loco di frammenti meteoritici, situazione che tuttavia si verifica raramente visto che spesso ben poco rimane del proiettile (fuso, talvolta vaporizzato, destinato inevitabilmente a mescolarsi con le rocce terrestri già presenti). Solo nei crateri minori, formati da collisioni meno energetiche, è stato possibile ritrovare dei frammenti di origine non terrestre.
Esiste, però, tutta una serie di altri indizi, riuniti nella definizione di metamorfismo da shock, che riguardano i radicali cambiamenti prodotti nelle rocce terrestri dalle smisurate energie in gioco.
Le strutture più facilmente identificabili sul terreno come segni certi di un cratere da impatto sono senza dubbio gli shatter-cones, delle fratture coniche che si sviluppano, isolatamente o a gruppi, in rocce generalmente a grana fine, e che mostrano sulla superficie delle striature longitudinali richiamando vagamente la trama di una coda di cavallo. Si originano nel momento in cui l’onda d’urto dell’impatto attraversa la roccia.
Di norma non vengono rinvenuti coni completi ma solo frammenti; la loro altezza può variare da 1 cm a 5 metri, e l’angolo apicale è solitamente molto prossimo a 90°.
Il passaggio di un’onda d’urto nella massa rocciosa lascia tracce anche nella struttura cristallina di molti minerali: ad esempio il quarzo, che sviluppa formazioni piane dette lamine di shock, oppure il plagioclasio (una classe di minerali molto comune, che costituisce circa il 50% della crosta terrestre) che può venire parzialmente trasformato in vetro diaplettico (vetro di alta densità formatosi allo stato solido in seguito alla presenza di elevatissime pressioni), isotropo e uniforme in tutte le orientazioni.
Ulteriore tipologia rocciosa riconducibile all’azione di una collisione è la breccia d’impatto, struttura a conglomerato che si forma col ricementarsi disordinato dei frammenti rocciosi disgregati durante l’evento.
Il riconoscimento, da parte della comunità scientifica, dei criteri di metamorfismo da shock, avvenne ufficialmente durante la “Conferenza sul Metamorfismo da shock dei materiali naturali”, nel 1968.
I POSSIBILI IMPATTORI
Le tipologie di corpi celesti vaganti che, potenzialmente, costituiscono un rischio per la Terra sono notoriamente due: comete e asteroidi.
Si tratta di oggetti ben diversi, anche visivamente: all’aspetto “quasi stellare” degli asteroidi si contrappone la presenza nelle comete di una “chioma” e di una coda. Talvolta, tuttavia, distinguere il tipo di oggetto risulta meno immediato: può infatti accadere che una cometa, esaurito il materiale volatile superficiale o ricopertasi da uno strato di polveri che impediscano l’ulteriore fuoruscita di gas, assuma una fisionomia asteroidale, e può succedere che un asteroide, sottoposto ad un urto che ne scopra uno strato interno, possa liberare gas in grado di costituire una vera e propria chioma e una coda cometaria.
A quelle appariscenti si affiancano comunque differenze più profonde, che riguardano composizione (un miscuglio di ghiacci e polveri nel caso delle comete, composti rocciosi e metallici per gli asteroidi) e tipologia delle orbite.
1. Gli asteroidi
La ben nota Fascia di Asteroidi è quella zona di spazio che si estende tra l’orbita di Marte e quella di Giove, e in essa si collocano le orbite degli oggetti dai quali prende il nome. Gli asteroidi identificati sono oltre 90.000, ma il loro numero complessivo è assai più elevato, e s’ipotizza che i corpi con diametro superiore ad 1 km siano almeno mezzo milione.
La pericolosità degli asteroidi risiede nel fatto che la loro orbita non è così salda e immutabile; può capitare, ad esempio, che un asteroide modifichi gradualmente la propria, tanto da colpirne un altro, producendo detriti che se ne volano da tutte le parti, capitando magari (dopo aver girovagato per qualche milione d’anni) proprio sulle nostre teste.
I meccanismi di modifica graduale dei parametri orbitali vengono in gergo tecnico chiamati risonanze, e consistono, semplificando, nel ripetersi nel tempo di particolari situazioni geometriche tra corpi celesti, che alla lunga tendono a influenzarne gravitazionalmente i moti, fino a fare “impazzire” orbite in precedenza stabili. È proprio quanto avviene nella Fascia degli Asteroidi grazie all’azione di Giove: da tempo è infatti ben nota l’esistenza di lacune, vale a dire di zone completamente prive di asteroidi, costretti a cambiare aria per le continue “molestie” del pianeta gigante.
Succede allora che un asteroide o un detrito derivante da un impatto possa abbandonare la propria orbita e cominciare una nuova avventura vagabondando per il Sistema Solare. Gran parte di queste situazioni si risolve con la caduta dell’oggetto nel Sole, o col raggiungimento di un nuovo equilibrio e una nuova orbita non più risonante.
Particolare importanza per Terra hanno i cosiddetti N.E.A. (Near Earth Asteroid, asteroidi vicini alla Terra, talvolta chiamati Earth Grazing Asteroid, E.G.A., o Earth Crossing Asteroid, E.C.A. o ancora Earth Approacher), classe di oggetti celesti la cui orbite si avvicina o incrocia periscolosamente quella del nostro pianeta. Proprio sulle loro caratteristiche orbitali si basa la più utilizzata delle classificazioni, che identifica tre gruppi.
Aten: hanno orbite che li pongono internamente a quella della Terra e la incrociano nei pressi del loro afelio; vengono considerati una sottoclasse degli Apollo.
Apollo: sono asteroidi caratterizzati da un valore del semiasse superiore a 1 U.A. e dal perielio minore di 1,017 U.A. (afelio della Terra), dunque attraversano l’orbita terrestre.
Amor: il loro perielio è maggiore dell’afelio terrestre, quindi non possono impattare con essa, ma solamente avvicinarlesi.
2. Le comete
Riprendendo la definizione data negli anni ‘50 da F.L. Whipple, si può considerare una cometa alla stregua di quei mucchi di neve mescolati con ghiaia e polvere che si formano ai bordi delle strade dopo che uno spartineve ha pulito la carreggiata, e che, lentamente, si sciolgono al sole. Questo accumulo di ghiacci (non solo ghiaccio d’acqua, ma anche di altre sostanze) sotto l’influsso dei raggi solari subisce un processo di vaporizzazione; i gas prodotti si disperdono nello spazio circostante formando la chioma della cometa e, nel suo moto di avanzamento nell’orbita, la caratteristica e spettacolare coda.
Il fenomeno d’evaporazione diviene più intenso man mano che il nucleo cometario si avvicina al perielio; talmente intenso che eventuali fenditure aperte sulla superficie possono allargarsi e spezzare la cometa in due o più tronconi.
Dopo il giro di boa attorno al Sole la cometa ritorna da dove è venuta: il fenomeno dell’evaporazione gradatamente diminuisce fino a scomparire. La coda, essendo determinata dalla pressione esercitata dalla radiazione solare (vento solare), nella fase di allontanamento precede la cometa anziché seguirla.
Dal punto di vista dinamico si è soliti distinguere due categorie di comete: a corto e a lungo periodo. Le prime sono caratterizzate da un’orbita che le riporta nei pressi del Sole in tempi inferiori a 200 anni, mentre per le altre il viaggio risulta molto più lungo.
A differenza degli asteroidi, le comete sono caratterizzate da orbite fortemente ellittiche e (tranne nel caso di quelle a corto periodo, costrette a girare nelle immediate vicinanze dei pianeti del Sistema Solare) al loro afelio (che è il punto più distante dal Sole in un’orbita) si spingono ben oltre il limite planetario, andando a completare il loro giro nella Nube di Oort, un’enorme nuvola cometaria dalla struttura complessa posta a 40.000 U.A. dal Sole, e nella quale si muovono circa 10.000 miliardi di oggetti. Può succedere che questi corpi vengano disturbati nel loro moto (a quella distanza dal Sole il legame gravitazionale con la nostra stella è veramente flebile) e indotti a precipitarsi verso la zona planetaria del Sistema Solare.
Esiste anche un altro serbatoio di comete, molto più vicino della Nube di Oort, si chiama Fascia di Kuiper e si trova nella zona compresa tra l’orbita di Nettuno e le 100 U.A.; la sua esistenza ha avuto conferma osservativa solo in tempi recenti, da quando, cioè, D. Jewitt e J. Luu nel marzo 1992 hanno identificato il primo Kuiper Belt Object, 1992 QB1. Sembra ormai accettato da tutti gli scienziati che alle dinamiche interne alla Fascia di Kuiper (dove convivono oggetti con dimensioni di pochi chilometri e corpi molto più grandi, di raggio 50-200 km) siano da ricondurre le comete a corto periodo, la cui provenienza ha sempre costituito per gli astronomi un difficile enigma da risolvere.
Per completare il quadro, occorre mettere in conto anche quei nuclei cometari che hanno subito la stessa sorte orbitale degli asteroidi: catturati, durante il loro cammino, dall’azione gravitazionale di Giove (o di altri pianeti giganti).
Gli oggetti, comete e asteroidi, condotti dai meccanismi gravitazionali nei pressi della Terra, vengono riuniti nel più generico termine di N.E.O. (Near Earth Object) che comprende ambedue le classi.
INCONTRI RAVVICINATI
La storia “impattiva” della Terra non si ferma in epoche lontane, ma continua tuttora, come provato sia dalla persistente caduta di oggetti fortunatamente meno pericolosi (le meteoriti) che dal verificarsi di episodi più violenti, come il già citato evento di Tunguska del 1908, o altri meno noti ma talvolta ben più energetici, quali gli impatti che hanno originato il cratere di Rio Cuarto in Argentina, o il cratere di Wabar in Arabia Saudita o quello di Merna in Nebraska (USA): tre eventi verificatisi meno di 10 mila anni fa.
Nella tabella che segue sono elencati i dati (tratti da una prospetto curato dal Minor Planet Center e aggiornati alla data del 10 novembre 2001) riguardanti le occasioni di “impatto mancato” più recenti di cui siamo a conoscenza, più appropriatamente definiti “incontri ravvicinati” (close approaches).
Riguardo la valutazione delle probabilità d’impatto di un corpo celeste, occorre tener presente che ogni passaggio ravvicinato con la Terra (come con qualunque altro oggetto del Sistema Solare) è potenzialmente in grado di variare i parametri orbitali dell’oggetto, tanto da ridisegnarne l’orbita e renderlo da innocuo a possibile impattore (o viceversa).
Di seguito, una seconda tabella, tratta anch’essa dal sito del Minor Planet Center, elenca i passati incontri ravvicinati con alcune comete. La lista comprende tutte le comete scoperte dopo il 1700 e avvicinatesi entro 0,1020 Unità Astronomiche. Include anche alcuni precedenti passaggi ravvicinati ben documentati di comete periodiche. Non è invece inserito nella lista, a causa dell’estrema incertezza sull’orbita, il presunto passaggio della cometa C/1491 B, avvenuto il 20 febbraio 1491, a una distanza di 0,009 Unità Astronomiche.
I casi di 1997 XF11, 999 AN10 e 1950 DA
Università di Harvard – 11 marzo 1998
“Recenti calcoli dell’orbita di un asteroide scoperto lo scorso dicembre indicano che è virtualmente sicuro il suo passaggio nei pressi della Terra – ad una distanza inferiore a quella della Luna – tra una trentina d’anni. La probabilità di una effettiva collisione è piccola, ma non può essere esclusa del tutto.”
Iniziava così un comunicato dell’Unione Astronomica Internazionale rilasciato dal Dr. Brian G. Marsden (IAU Central Bureau for Astronomical Telegrams). L’asteroide menzionato era 1997 XF11.
Questo oggetto era stato scoperto il 6 dicembre 1997 da James Scotti dell’Arizona Spacewatch Program, utilizzando la strumentazione di Kitt Peak: moderni rilevatori CCD abbinati a un telescopio con apertura di 90 cm costruito circa 80 anni orsono. Il comunicato del Dr. Marsden proseguiva poi entrando nei dettagli relativi all’incontro ravvicinato, precisando che si sarebbe verificato il 26 ottobre 2028, verso le ore 13:30 (Eastern Daylight Time), e che la distanza tra i due corpi celesti sarebbe stata di soli 50.000 km.
Oltre alla pericolosa vicinanza, preoccupavano anche le dimensioni dell’oggetto, stimate dell’ordine di un 1,5 km, due validi motivi per inserirlo a buon diritto nella lista dei cosiddetti PHAs (Potentially Hazardous Asteroids = Asteroidi Potenzialmente Pericolosi) raccomandandone una osservazione continua al fine di definire con maggiore precisione lo sviluppo della sua orbita.
La notizia era troppo ghiotta: i mass-media di tutto il mondo, uno dopo l’altro, diffusero e naturalmente enfatizzarono il “tremendo rischio cui l’umanità stava andando incontro”.
Il polverone sollevato mise sotto pressione gli astronomi spingendoli a rovistare tra le vecchie rilevazioni alla ricerca di eventuali dati relativi a precedenti passaggi di 1997 XF11. Ben presto il gruppo di ricerca di Eleonor Helin del Jet Propulsion Lab riuscì a identificare l’oggetto su lastre risalenti al 1990, fornendo in tal modo una nuova serie di dati che permisero di ricalcolare in modo più preciso (e di gran lunga meno preoccupante) i parametri dell’incontro ravvicinato del 2028.
Il cessato allarme si diffuse con la stessa rapidità dell’annuncio iniziale, e col medesimo (quasi inesistente) spessore scientifico: si affermava, più o meno velatamente, che gli astronomi avevano sbagliato i conti gridando troppo precipitosamente “al lupo, al lupo!”. La scia di polemiche mise inevitabilmente in risalto, forse per la prima volta, il delicato problema del “se e come” rendere pubbliche le notizie su possibili rischi d’impatto.
Il dilemma si ripropose un anno più tardi. Non si era ancora spenta l’eco del caso di 1997 XF11 che l’attenzione dell’opinione pubblica venne indirizzata verso un altro potenziale impattore. Con una differenza non da poco: questa volta non si trattava di errori di calcolo prontamente ritrattati.
L’asteroide 1999 AN10, un oggetto appartenente per tipologia orbitale alla classe degli Apollo, venne scoperto il 13 gennaio 1999 dal telescopio MIT-USAF LINEAR del Lincoln Laboratory ETS (New Mexico, USA). Il suo diametro, grazie alle misurazioni di luminosità, venne stimato tra 0,8 e 1,8 km; l’intervallo proposto è diretta conseguenza di due ipotetici (ma comunque plausibili) valori di riflettività della sua superficie (albedo), la cui vera natura era sconosciuta.
Esistendo concrete possibilità di futuri incontri ravvicinati di 1999 AN10 con il nostro pianeta, Andrea Milani, Steven Chelsey e Giovanni Valsecchi (tre tra i maggiori esperti mondiali di dinamica orbitale) decisero di studiare con cura l’evoluzione della sua orbita.
Il 26 marzo 1999 i tre astronomi, dopo averlo inviato ad una rivista ed in attesa che passasse al vaglio di chi doveva giudicarne la validità e l’attendibilità scientifica, rendevano disponibile loro lavoro su Internet, con l’intento di sottoporre le loro teorie all’analisi dei maggiori esperti mondiali, prima di renderne pubbliche le conclusioni.
Per sapere a quali risultati fossero giunti i tre astronomi, e cosa vi fosse di tanto importante nell’evoluzione futura di 1999 AN10, è sufficiente leggere l’abstract della pubblicazione di Milani e colleghi:
“La Terra transita molto vicino all’orbita di 1999 AN10 due volte all’anno, ma la possibilità che avvenga o meno un incontro ravvicinato dipende strettamente dall’istante in cui l’asteroide attraversa il piano dell’eclittica. L’incertezza sulla determinazione di questo istante cresce con il passare del tempo: per il 2027 è di +/- 12 giorni. Tra le possibili soluzioni orbitali esiste anche la possibilità che nel 2027 si possa verificare un incontro ravvicinato: in nessun caso, comunque, tale circostanza potebbe trasformarsi in occasione di impatto. Tuttavia l’incontro potrebbe perturbare l’orbita dell’asteroide al punto da indurre nuovi incontri ravvicinati con la Terra nei successivi ritorni. Abbiamo sviluppato una teoria orbitale che prevede con successo i 25 possibili ritorni fino al 2040, e nel susseguirsi di questi ritorni futuri ne sono stati identificati 6 ancora più ravvicinati. Nessuno di tali incontri si concluderà con un impatto, tranne che per quello previsto dai calcoli nell’agosto 2039: la probabilità reale che l’asteroide possa in quell’occasione impattare la Terra è comunque inferiore a quella di essere colpiti entro qualunque data da un oggetto non ancora scoperto. È vero che il comportamento orbitale estremamente caotico non dà modo di predire tutti i possibili avvicinamenti per il futuro se non per pochi decenni dopo ogni incontro ravvicinato, ma la situazione orbitale di 1999 AN10 lo manterrà pericolosamente vicino all’orbita della Terra per circa 600 anni.”
Non rischio immediato, dunque, ma ammissione (eventualità certamente remota, ma da non trascurare) che il valzer orbitale tra la Terra e 1999 AN10 potesse (e possa) un giorno concludersi con il botto.
Dopo la “figuraccia” causata al mondo astronomico dalle errate previsioni su 1997 XF11, stavolta v’era tutta l’intenzione di gestire con più cautela la diffusione della notizia, e soprattutto di verificare con cura i dati. Ma la disponibilità sul Web dello studio, a scopo di analisi incrociata, ottenne il risultato opposto, rendendo di pubblico dominio la vicenda, e innescando nuove, roventi discussioni. Ancora una volta si evidenziava il problema sul come affrontare pubblicamente questo tipo di argomenti senza suscitare inutili allarmismi.
Riguardo a 1999 AN10, a rassicurare un po’ tutti giunse, nel luglio 1999, la notizia che calcoli orbitali più precisi effettuati grazie all’identificazione dell’asteroide su una lastra fotografica del 1955 avevano ridimensionato il rischio ad esso associato, escludendo l’eventualità di un impatto almeno fino al 2076. L’appuntamento è quindi stato posticipato, ma non del tutto cancellato.
Una minaccia-impatto che parrebbe invece proprio destinata a durare è quella di 1950 DA, un altro asteroide la cui orbita incrocia periodicamente quella della Terra, abbastanza vicino da poter risultare pericoloso, particolarmente in una occasione, già prevista. Il lato buono della faccenda è che questo appuntamento è fissato per il 16 marzo 2880.
Contrariamente agli altri due casi citati, 1950 DA non è un oggetto appena individuato ma si tratta di una vecchia conoscenza degli astronomi. Scoperto nella notte del 23 febbraio 1950 da C.A. Wirtanen (Lick Observatory, California), l’asteroide venne osservato con cura per 17 giorni, poi se ne perse ogni traccia. Quando, il 31 dicembre 2000 il programma di ricerca LONEOS (Lowell Observatory Near Earth Object Search) individuò un nuovo oggetto (inizialmente battezzato 2000 YK66) e fu possibile ipotizzarne l’orbita, risultò chiaro che si trattava proprio di 1950 DA. Recuperata l’identità dell’asteroide, fu possibile individuare la sua presenza anche su lastre fotografiche risalenti agli anni ’80, e, comparando tutte le osservazioni, stimarne l’orbita con una precisione straordinaria.
Nel 2001, primi giorni di marzo, l’asteroide transitò nei pressi della Terra fornendo al team del ricercatore Steve Ostro l’occasione per puntargli contro le antenne radar di Goldstone e Arecibo. Il passaggio fu sufficientemente ravvicinato (circa 7,8 milioni di km, poco più di 20 volte la distanza Terra-Luna) da consentire accurati rilievi e permettere di determinare dimensioni e forma dell’asteroide.
Alla valutazione di quanto posse essere pericoloso l’appuntamento cosmico del 16 marzo 2880 ha collaborato una squadra di scienziati di primo piano, coordinati da Jon Giorgini. Lo studio è stato pubblicato su Science il 5 aprile 2002. Il risultato più appariscente della ricerca è senza dubbio la stima della probabilità di impatto con la Terra, compresa tra lo zero (assenza di impatto) e lo 0,33% (una probabilità su 300). Il fatto da sottolineare, però, è che questa volta l’incertezza non dipende da carenza di dati astrometrici, ma dall’inadeguatezza delle nostre conoscenze dei parametri fisici dell’asteroide. Questo rende il caso di 1950 DA completamente diverso dai precedenti.
Il punto cruciale che emerge dallo studio è che la previsione e i calcoli relativi a futuri possibili rischi d’impatto è subordinata alle conoscenze delle caratteristiche fisiche del potenziale proiettile, che diventano fondamentali per poterne determinare il comportamento dinamico nel lungo periodo.
Di 1950 DA alcune cose già le si conoscono: ha una forma grosso modo sferica, il suo diametro maggiore è di 1,1 km e sta ruotando su se stesso piuttosto velocemente, completando un giro in poco più di due ore, un valore che lo pone al secondo posto nella classifica dei rotatori della sua stazza. Ignoriamo però come sia orientato nello spazio, il suo asse di rotazione, il valore della sua massa, la composizione interna e come la sua superficie rifletta la luce. Tutte caratteristiche che, nel corso dei secoli, possono far sentire la loro influenza perturbando l’orbita e rendendo incerta ogni previsione.
Per ottenere questi ulteriori dati, e valutare meglio i vari elementi perturbativi, come ad esempio il disturbo arrecato dall’effetto Yarkovsky (una sorta di effetto-razzo causato dall’emissione termica della faccia più calda dell’asteroide) potrebbe risultare indispensabile una specifica missione spaziale.
Il primo importante appuntamento con 1950 DA sarà il passaggio ravvicinato del 2032, occasione che si presta molto bene ad una nuova analisi radar.
ENERGIA DI UN IMPATTO
È veramente difficile riuscire anche solo a immaginare l’enorme energia rilasciata al verificarsi di un impatto cosmico. Volendola calcolare, la formula fisica di partenza è quella che ci permette di determinare l’energia cinetica del corpo impattante partendo dalla sua massa (m) e velocità (v):
ECIN=½ • m • v2 (1)
Applicando la (1) al caso di una piccola cometa (diametro di 1 km e densità di 1 g/cm3) che giunge all’impatto con una velocità di 40 km/sec (valore in sintonia con la media delle possibili velocità di un proiettile di questa natura), e trascurando eventuali variazioni di questi parametri imputabili all’azione disgregatrice dell’atmosfera o agli effetti mareali dovuti all’azione gravitazionale del bersaglio, si può calcolare un contenuto energetico di 4,2 x 1020 Joule.
In sé questo numero dice poco, ma si può considerare, come termine di paragone, il contenuto energetico (si tratta di energia chimica) di 1 kg di un esplosivo tradizionale quale il tritolo (TNT), in grado di sviluppare allo scoppio un’energia di 4,2 x 106 Joule. Per rendere più chiare le grandezze, aumentiamo le dosi di esplosivo (dai chili alle tonnellate, poi alle migliaia, infine ai milioni di tonnellate di TNT): passiamo al kiloton (kton), cioè la quantità d’energia associabile all’esplosione di 1.000 tonnellate di tritolo (4,2 x 1012, esprimendola in Joule) e il megaton (Mton), energia liberata dall’esplosione di 1 milione di tonnellate di tritolo (4,2 x 1015 Joule). Ricordiando che la bomba esplosa nel ’45 ad Hiroshima generò una potenza pari a 15 kton, possiamo allora stimare che, se la nostra piccola cometa fosse un bombardiere americano della II Guerra Mondiale, ebbene porterebbe al suo interno circa 6.700.000 di quegli ordigni (100.000 Mton di potenza) pronti a esplodere all’unisono!
COME DIFENDERCI?
Nell’ultimo decennio si è acquisita una certa coscienza in merito ai rischi possibili derivanti dai N.E.O., e si stanno predisponendo efficaci scelte operative per valutarne la portata e le eventuali contromisure. Lo stesso mondo politico-istituzionale si è fatto carico di questa preoccupazione, come traspare dalla risoluzione del 20 marzo 1996 del Consiglio d’Europa:
Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa
Risoluzione in merito all’individuazione di asteroidi e comete potenzialmente pericolosi per il genere umano.
Vi sono due vaste categorie di oggetti celesti che possono avere un potenziale impatto con il nostro pianeta: le comete e gli asteroidi. Generalmente sono conosciuti tra i planetologi con il nome di Near-Earth Objects (NEOs). A quanto ammonti il loro numero complessivo non è noto, ma si stima che il numero degli Asteroidi Earth-Crossing con dimensioni superiori a 1 km sia circa 2000. Tali oggetti sono i più pericolosi e di essi soltanto una piccola frazione è stata finora scoperta.
Considerando che l’esplosione nei pressi della superficie terrestre di un qualunque oggetto con diametro di 50 m può avere gli stessi effetti di un’arma nucleare di 10 megaton, le conseguenze di un impatto più grande potrebbero essere disastrose su scala globale. Gli esempi più recenti e più noti sono l’evento-Tunguska (causato dall’esplosione di un NEO con dimensioni di circa 60 metri al di sopra della tundra Siberiana nel 1908, con la conseguente distruzione di oltre 2000 km quadrati di foresta in gran parte disabitata) e il violento impatto su Giove dei frammenti della cometa Shoemaker-Levy nel luglio 1994; questi frammenti avevano all’incirca dimensioni di appena 500 metri, ma causarono devastazioni su aree vaste molto più della Terra. Continuamente, poi, si rinvengono sul nostro pianeta tracce di impatti minori, e anche testimonianze fossili di eventi catastrofici avvenuti in passato.
Il complesso di informazioni ormai rilevante acquisito negli ultimi anni in merito alla collisione con comete e asteroidi indica come essi siano in grado di innescare catastrofi ecologiche su larga scala e persistenti nel tempo, culminanti talvolta persino con estinzioni di massa delle specie viventi; impatti di questo tipo rappresentano dunque una minaccia alla stessa civiltà umana.
Benché, statisticamente parlando, il rischio di un impatto di grandi dimensioni nel prossimo futuro sia basso, le conseguenze sono talmente vaste che si deve incoraggiare qualunque ragionevole sforzo destinato a minimizzarlo.
Per questi motivi l’Assemblea accoglie di buon grado le varie iniziative – il rapporto Spaceguard Survey pubblicato dalla NASA, la creazione di un Gruppo di Lavoro sui NEO dell’Unione Astronomica Internazionale, e la recente decisione di promuovere una Fondazione Spaceguard per coordinare gli sforzi a livello internazionale – come passi importanti in grado di aprire la strada allo sviluppo di un programma di sorveglianza a livello planetario con l’intento di scoprire tutti i NEO potenzialmente pericolosi e simulare con il computer le loro orbite nel futuro in modo da prevedere con l’anticipo di qualche anno qualsiasi impatto, consentendo così di intraprendere quelle azioni preventive che si rendessero necessarie.
L’Assemblea invita i governi degli stati membri e l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) a stimolare il sorgere e lo sviluppo della summenzionata Fondazione Spaceguard e dare il necessario supporto ad ogni programma internazionale che si prefigga di:
1) fare l’inventario il più possibile completo dei NEO, con maggiore riguardo agli oggetti con dimensioni superiori a 0.5 km;
2) favorire le nostre conoscenze delle caratteristiche fisiche dei NEO e nello stesso tempo approfondire i fenomeni associati ad un possibile impatto, al mutare del livello di energia cinetica e composizione dell’impattore;
3) tenere regolarmente sotto controllo gli oggetti scoperti per il periodo di tempo necessario a renderci capaci di calcolare con sufficiente precisione le loro orbite, affinché ogni possibile collisione possa essere prevista con largo anticipo;
4) assicurare il coordinamento delle iniziative nazionali, la raccolta e la diffusione dei dati, e una giusta distribuzione di osservatori nei due emisferi;
5) partecipare a programmi osservativi dal suolo e a quelli che più efficacemente possono essere svolti dallo spazio;
6) contribuire ad una strategia globale a lungo termine per trovare i rimedi al verificarsi di possibili impatti.
Strasburgo, 20 Marzo 1996.
Possiamo far risalire al 1979 il primo tentativo di pianificare una ricerca dei N.E.O., quando i già citati E. Shoemaker ed E. Helin utilizzarono il telescopio Schmidt (46 cm) dell’Osservatorio di Monte Palomar in California, per fotografare il cielo in direzione opposta al Sole, posizione nella quale gli eventuali oggetti raggiungono la massima luminosità. Fu proprio E. Helin a scoprire nel 1976 il pianetino 2062 Aten, capostipite dell’omonima famiglia.
Nel 1981 T. Gehrels cominciò a sviluppare e a utilizzare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie di ripresa costituite dai CCD e, a partire dal 1989, esplorò il cielo con il telescopio Spacewatch (90 cm) dell’Osservatorio Kitt Peak, Arizona, sul quale era installato un CCD di 2048×2048 pixels.
Per quanto riguarda l’emisfero Sud, dobbiamo segnalare la sorveglianza fotografica ad opera di D. Steel iniziata nel 1990, dall’Osservatorio di Siding Spring nel Nuovo Galles del Sud (Australia), utilizzando un telescopio Schmidt di 1,2 metri.
Entro breve termine negli USA entreranno in servizio tre nuovi telescopi progettati proprio per la ricerca dei N.E.O. e dotati di sofisticatissimi CCD: lo Spacewatch II di 1,8 m (Kitt Peak), la camera Schmidt LONEOS (Lowell Observatory Near-Earth Object Survey) di 60 cm in Arizona e il telescopio GEODSS, installato alle Hawaii, di proprietà dell’aeronautica militare statunitense e usato fino ad ora per inseguire i satelliti artificiali. Si sta dunque gradatamente cercando di raggiungere l’obiettivo prefisso dalla Spaceguard Survey: grazie ad una rete internazionale di telescopi attrezzati con CCD dell’ultima generazione (in grado di raggiungere una magnitudine V=22), catalogare in 25 anni il 91% degli asteroidi potenzialmente pericolosi per la Terra.
Una curiosità: il nome Spaceguard Survey è tratto da una analogo progetto suggerito in un racconto (Rendez-vous con Rama) da Arthur C. Clarke, noto scrittore di racconti di fantascienza.
La fase di controllo del cielo è quindi di primaria importanza… dopodiché occorre iniziare a ipotizzare quali possibili contromisure si debbano adottare nel malaugurato caso in cui si giungesse un giorno a stabilire la certezza di un impatto.
A grandi linee possiamo suddividere le misure difensive in due grandi categorie: da un lato quelle volte a distruggere il proiettile in marcia di avvicinamento alla Terra, dall’altro quelle che mirano a variarne l’orbita. Alla prima categoria possiamo grosso modo ricondurre i progetti di E. Teller (uno dei padri della bomba atomica statunitense) che prevedono esplosioni finalizzate alla polverizzazione del proiettile e che hanno trovato applicazione pratica nelle sceneggiature di Armageddon e Deep Impact. Questo tipo di soluzione lascia tuttavia diversi dubbi:
1. anzitutto bisogna notare che l’esplosione non scongiurerebbe completamente il pericolo, dal momento che i frammenti prodotti dalla frantumazione continuerebbero la loro corsa verso il nostro pianeta, e ben conosciamo i gravissimi danni che anche un oggetto dal diametro di un centinaio di metri può provocare;
2. è una contromisura che mal si accorderebbe col percorso che la nostra società, faticosamente e con molti tentennamenti, sembra aver finalmente intrapreso, ossia quello della riduzione e del graduale smantellamento degli arsenali nucleari;
3. per ottimizzarne l’azione, la carica esplosiva dovrebbe essere collocata in profondità, ricorrendo cioè all’azione di astronauti-minatori, ma tale scenario è oltremodo carico di difficoltà oggettive legate alla debole azione gravitazionale dell’oggetto da trivellare.
Per quanto riguarda invece la seconda categoria di misure protettive, concretamente sono state avanzate molte proposte: si va dal banale “tamponamento cosmico” (mandare un razzo a sbattere sulla superficie dell’asteroide in modo da cedergli energia cinetica in quantità sufficiente da modificarne la traiettoria) all’uso di “lanciatori di massa” (una sorta di motore a reazione da collocare sulla superficie dell’impattore che, scagliando nello spazio materiale estratto in sito, apporterebbe le opportune correzioni di rotta), o al più fantascientifico impiego di “vele solari” che, applicate all’asteroide, sfrutterebbero l’azione del vento solare, emulando in questo gli antichi velieri che solcavano i nostri mari. Non si esclude neppure, nel caso di asteroidi dall’elevato contenuto ferroso, di poter ricorrere a potenti generatori di campo magnetico, gigantesche calamite in grado di attirare il corpo celeste al di fuori della sua orbita o, nel caso di oggetti cometari, all’utilizzo di potentissimi fasci laser in grado di originare, vaporizzando il materiale cometario, getti di gas che si comporterebbero in tutto e per tutto come motori a reazione.
La scelta della strategia da impiegare, naturalmente, è subordinata alle caratteristiche dell’eventuale impattore (dimensioni, massa, composizione, geometria, ecc..), e non tutti i metodi elencati sono attualmente alla nostra portata, resta quindi l’assoluta necessità di affrontare la questione considerando il più ampio ventaglio di possibili interventi.
Il bisogno di dotarsi di una scala oggettiva per indicare chiaramente il grado di pericolosità di un corpo celeste scoperto sul cammino della Terra è molto sentito dai ricercatori che si occupano di tali problematiche, e proprio da uno di essi, Richard P. Binzel (docente di scienze planetarie al prestigioso Massachusetts Institute of Technology), è stata proposta l’adozione di una scala con codifica numerica e a colori chiamata Torino Impact Hazard Scale (in onore della città italiana che ha ospitato, nel giugno 1999, un Workshop internazionale sui NEO). Qui sopra, la versione pubblicata sul n. 203 de l’Astronomia (novembre 1999, pag. 10).
La Scala Torino impiega i numeri da 0 a 10. Un oggetto classificato con lo 0 non ha praticamente alcuna probabilità di collidere con la Terra, mentre il 10 indica la collisione certa. In realtà vengono classificati di grado zero anche i possibili impatti di oggetti troppo piccoli per riuscire a superare lo scudo dell’atmosfera terrestre.
Un evento viene classificato valutando due fattori: la probabilità che avvenga la collisione e l’energia cinetica posseduta dall’oggetto. È importante sottolineare che la classificazione di un evento non è mai un fatto stabilito una volta per tutte. Un oggetto in grado di avvicinarsi più volte alla Terra potrà, per esempio, avere distinti valori nella Scala, uno per ciascuno dei suoi passaggi.
Esiste poi una seconda classificazione del rischio, denominata Scala Palermo (Palermo Technical Impact Hazard Scale), strumento degli addetti ai lavori nel campo dei NEO. La sua introduzione si è resa necessaria per poter assegnare un grado di priorità di osservazione e analisi agli eventi che nella Scala Torino erano classificati allo stesso livello.
La Scala Palermo esprime il rapporto tra la probabilità che avvenga un evento specifico e la probabilità media che un oggetto di uguali dimensioni possa colpire la Terra negli anni che separano dall’evento considerato. A questo rischio medio ci si riferisce con il nome di background risk. La Scala Palermo è logaritmica, e i suoi valori non sono discreti come quelli della Scala Torino, ma continui (sono consentiti sia valori positivi che negativi); inoltre dipendono strettamente dalla distanza nel tempo del potenziale impatto, nonché dall’energia ad esso associabile. Pertanto le due scale non sono convertibili l’una nell’altra.
Il valore di un evento nella Palermo (PS) è dato dall’espressione:
PS = log10 (Pi / (fb • DT))
dove Pi indica le probabilità del suo verificarsi, DT è il tempo (in anni) che ci separa dal potenziale impatto, ed fb è la frequenza d’impatto di background. Quest’ultima grandezza esprime la probabilità che nell’anno si verifichi un impatto con energia E (espressa in Mton) almeno equivalente a quella dell’evento considerato, e si calcola attraverso la seguente relazione:
fb = 0,03 • E– 4/5
La presenza della frequenza di background nella Scala Palermo è fondamentale per valutare probabilità e pericolosità di un dato evento rispetto al normale rischio al quale la Terra è costantemente esposta.
C’è stato anche chi ha voluto quantificare il rischio di decesso imputabile ad un evento impattivo, relazionandolo ad altre cause di morte tristemente comuni per i nostri tempi. Si tratta di C.R. Chapmann (del Planetary Science Institute di Tucson, Arizona) e D. Morrison (del NASA Ames Research Center di Moffet Field, California). La loro ricerca fu pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica Nature nel 1994 (n. 367 pag. 33) dal titolo Impact on the Earth by asteroids and comets: assessing the hazard.
L’approccio al problema è quello tipicamente utilizzato dalle compagnie assicurative. La valutazione del rischio avviene prendendo in esame i casi verificatisi durante un certo intervallo di tempo, e rapportandoli al totale della popolazione campione. Il limite, nel considerare in quest’ottica l’evento-impatto, è legato non tanto all’assenza di casistica, quanto al fatto che si tratta di circostanze a minima probabilità ma di elevatissime conseguenze. Un impatto cosmico viene da Chapman e Morrison definito “da catastrofe globale” quando provoca la morte di 1/4 della popolazione mondiale (si tratta chiaramente di un valore arbitrario, che va comunque fissato per poter proseguire nella valutazione); se un evento di questo tipo è in grado di verificarsi ogni 500.000 anni, si conclude che ciascuno di noi, ogni anno, ha una probabilità su 2.000.000 di morire per tale causa, ossia 1/(4×500.000). Se poi s’ipotizza che una persona viva 100 anni, le probabilità salgono a 1 su 20.000! Numeri che acquistano un preoccupante significato se confrontati con le probabilità assegnate ad altri sinistri (i dati di Chapmann e Morrison, presentati nella tabella a destra, si riferiscono a statistiche U.S.A.).
Occorre naturalmente precisare che in nessun caso converrebbe stipulare polizze assicurative su tali eventualità: si correrebbe il rischio di non poter essere mai liquidati dalla compagnia assicurativa, o di ritrovarsi in una situazione nella quale il denaro riscosso non avrebbe più alcun valore.
Nella tabella della pagina successiva vengono riportati, oltre agli eventi meteoritici più famosi e normalmente citati, anche gli episodi meno noti che hanno comunque avuto conseguenze letali, e quelli (pure non gravi) che hanno interessato la nostra penisola. Questo elenco è quasi completamente tratto da “Rain of Iron and Ice” di John S. Lewis (Editore Addison-Wesley, 1997) al quale si rimanda per una panoramica completa nonché per la citazione delle fonti originali dei fatti elencati.
EVENTI PASSATI: VERITÀ O FANTASIA?
Ricerche storiche affiancate da analisi fisico-astronomiche fanno emergere dalle più svariate fonti storiche un gran numero di racconti che parlano di persone e animali uccisi o feriti, e di costruzioni incendiate, distrutte o gravemente danneggiate da cadute meteoritiche. Troppo sbrigativo classificare tutti questi episodi come frutto dell’ignoranza o dell’immaginazione dei nostri avi, parto di secoli bui nei quali credenze e superstizioni costituivano certezze inappellabili.
Un elemento che ha sempre giocato a sfavore delle testimonianze del passato è sicuramente il linguaggio usato per riportarle: similitudini e accostamenti troppo infantili… per i nostri giorni. Ma ogni racconto è figlio della propria epoca, della propria cultura, del proprio ambiente; ecco allora che immagini come “rombi di tuono”, “fuoco dal cielo”, “grandine infuocata”, “fragore di carri”, per quanto curiose agli occhi del mondo moderno, rappresentano solo lo sforzo di riferire fatti straordinari attraverso il linguaggio quotidiano di gente comune. Non stupisce certo il racconto, fatto da un testimone, della caduta del meteorite di Fermo (in provincia di Ascoli Piceno) alle 17,30 del 25 settembre 1996, descritta come caratterizzata da un forte rumore “simile a quello che fa un elicottero”; perché sconcertarsi, dunque, di narrazioni molto più antiche…
“Mentre essi fuggivano dinanzi ad Israele ed erano alla discesa di Bet-Oron il Signore lanciò dal cielo su di essi come grosse pietre fino ad Azeka e molti morirono. Coloro che morirono per le pietre della grandine furono più di quanti ne avessero ucciso gli Israeliti con la spada.”
(Sacra Bibbia, Giosuè 10, 11)
Redazione “Terre di Confine” – Articolo elaborato compendiando il materiale presente nel sito “Impact Page”, su autorizzazione e supervisione di Claudio Elidoro:
http://www.geocities.com/elidoro/impactpage.html
http://www.geocities.com/elidoro/index.html
Intervento conclusivo di CLAUDIO ELIDORO:
“Dettare un pensiero conclusivo dopo questa lunga scorribanda nelle problematiche relative agli impatti cosmici è piuttosto complicato. Mi limiterò dunque a una semplice osservazione. Parlando di impatti di corpi celesti sulla Terra, la prima cosa da evitare è sicuramente l’allarmismo. Ma subito al secondo posto dobbiamo mettere il disinteresse. Solo un’attenta politica di “prevenzione” può metterci (forse) al sicuro. Nel gioco contro il destino bisogna scovare l’asteroide killer prima che prenda la mira. Nel confronto con i dinosauri – 65 milioni di anni fa – ai mammiferi è andata di lusso (a T-Rex e soci un po’ meno), ma non sarebbe affatto piacevole se i prossimi “dinosauri” a scomparire dalla faccia del pianeta Terra fossimo proprio noi.”