The Airs of Earth

Sciame Stellare

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Introduzione

Elencare tutti i meriti che Brian Aldiss ha accumulato con la sua opera di valorizzazione e di divulgazione della fantascienza sarebbe impresa ben ardua, e certo oziosa, vista la sua vasta e riconosciuta popolarità. Personaggio eclettico, ma mai superficiale, curioso come lo può essere ogni sano intellettuale, ha lasciato — lascia tuttora — un’impronta determinante nel dibattito critico sulla sf, grazie all’incredibile mole di lavoro svolta, ad ogni livello e in varie sedi, dalle riviste ai libri alle conferenze, e alla solida preparazione culturale di base che sorregge in ogni caso i suoi interventi. Non è un mistero che Aldiss, insieme ad Harry Harrison, fu il primo a lanciare una rivista di sf esclusivamente dedicata alla critica, indicando la strada maestra di chi vuole «vivere» la fantascienza, e non solo «consumarla». In questa ottica, egli ha dato contributi di notevolissima tensione intellettuale, e splendidi esempi di acuta sensibilità esegetica. Ha elaborato, a forza di penetrarne le leggi, una sua personale concezione della sf, che si è poi riverberata nella sua stessa narrativa.

Pur non sminuendo l’importanza del suo lavoro, Aldiss è indubbiamente stato facilitato dall’appartenere storicamente ad una cultura letteraria che può vantare alcune tra le più lucide e profetiche anticipazioni della sf contemporanea, come i Gulliver’s Travels di Swift e il Frankenstein di Mary Shelley. Gli va comunque dato atto di non avere assimilato passivamente questo patrimonio, ma di averlo sottoposto ad un ‘analisi profonda e tenace, per capirne i meccanismi e arricchire così il suo modo di raccontare e la sf in genere. Sul secondo dei due capolavori citati si è incentrato soprattutto come è noto, il suo spirito indagatore, al punto da identificarvi il prototipo naturale di tutta l’odierna fantascienza.

Non è il caso, in questa sede, di confutare o meno la validità di tale tesi, che riconosce nel romanzo gotico l’antecedente logico della sf (un antecedente romantico!): ci preme qui sottolineare la corretta impostazione del suo metodo di ricercai che non si limita all’identificazione della struttura superficiale (come mi pare faccia chi va alla pesca della Storia vera di Luciano, o altri presunti precursori), ma penetra nelle funzioni, enucleandole dal contesto senza tuttavia renderle avulse dal loro originale ambito culturale. Inoltre, tutto questo lavorio ha avuto sbocchi anche nella creatività narrativa di Aldiss, visto che l’anno dopo la pubblicazione del suo Un miliardo di anni dove è contenuta la teorizzazione del suo convincimento circa il Frankenstein, è apparso il Frankenstein liberato (Frankenstein Unbound, 1973), una vivida testimonianza di quanto questo personaggio sia penetrato nella sensibilità dello scrittore non solo come tale ma anche come uomo.

Credo che pochi siano gli esempi di protagonisti della sf contemporanea la cui attività si sviluppi sui due filoni della narrativa e della saggistica, senza che emergano discrepanze qualitative tra l’uno e l’altro. Aldiss è tra questi: è difficile stabilire una netta distinzione tra lo scrittore e il saggista, sia che si osservi il valore del materiale da lui prodotto, sia che interessi la forma dello stesso. Stilisticamente, la coerenza di lui è esemplare, e ciò tanto più nella critica, che per la sua natura tende a farsi fredda, quando non pesantemente erudita, mentre nell’Aldiss è penetrante ma nello stesso tempo piena di calore umano, di partecipazione continua: si può al limite affermare che la sua produzione non-narrativa è tanto vicina al «romanzo», quanto quella narrativa lo è al saggio.

Una narrativa che, in piena obbiettività, si può valutare tra le più prestigiose in assoluto che la fantascienza ci abbia dato. Gli appassionati, credo, saranno d’accordo con l’opinione che assai raramente Aldiss ha fallito o deluso, producendo una superba serie di opere {non molto sostanziosa quantitativamente, per la verità) di livello almeno dignitoso; dalle primissime, di impianto più tradizionale ma ricche di originalità, come Viaggio senza fine (Non-Stop, 1958), alla satira pungente de La lampada del sesso (The Primal Urge, 1961). Poi lo splendido Il mio mondo bruciato (Earth Works, 1963-65) che considero tra i primissimi esempi di new wave, e, fra le raccolte, Il lungo meriggio della terra (The long Afternoon of Earth, 1961) vincitore inconfutabilmente degno dell’Hugo; e Anonima intangibili (Intangibles Inc., 1970), che presenta racconti di fascino irresistibile.

La narrativa di Aldiss presenta una marcatissima vena umanistica {direi quasi umanitaria), e si è sempre posta di fronte alla fantascienza con l’atteggiamento di chi intende analizzare con coerenza i grandi problemi dell’umanità, i temi ricorrenti dell’uomo come individuo appartenente ad un tipo particolare di cultura, e come razza immersa nell’infinito crogiolo dell’universo. Il tono prevalente delle sue opere è improntato ad una amara mestizia. Aldiss è sempre apparso assai pensoso sui destini futuri dell’umanità, e non ha mai esitato a colpire ampiamente le degenerazioni più appariscenti del comportamento umano: ma lo fa con serenità, e con la consapevolezza che in fondo, colui che si fa oppressore e prevaricatore finisce per essere la vittima.

Si tratta dunque di una prospettiva chiaramente pessimistica, anche se non si tratta di epidermico catastrofismo, di cui Il lungo meriggio della terra resta la più classica rappresentazione. Di una sensibilità al mutamento, di cui la decadenza o la stasi non sempre sboccano come stadio finale, ma come tappe verso una più generale purificazione. Ovviamente, per enfatizzare meglio concetti così vasti, Aldiss ha preferito a volte dipingere affreschi di cosmica portata, perché lì più evidente risulta il ritmo elementare della vita. La vastità, tra l’altro, è tra gli elementi da lui individuati come impliciti della natura stessa della sf, derivanti appunto dal gothic novel. È anche notevole osservare che non di rado l’Aldiss adotta l’accorgimento strutturale di raccontare come già avvenuti eventi per noi futuri, in ciò riprendendo il grande modello di City. Ci troviamo di fronte, quindi, ad una vera e propria fenomenologia del «ricordo», singolarmente intrecciato con ciò che per noi contemporanei è «previsione», fino a creare una contaminazione del noto tratto romantico relativo alla «memoria», arricchito però dal moderno slancio illuministico verso un mondo migliore. Ed è proprio questa operazione, mi pare, a rendere così accattivanti e pregnanti i racconti e i romanzi di Aldiss: avviluppati in una continua tensione di rapporti temporali, più avvertibile è in essi il mistero del Tempo, con tutti i suoi paradossi e le sue leggi.

Sciame stellare è di quelle opere che diffondono un’inquietante sensazione di spazi incommensurabili, di avvenimenti ed esperienze nelle quali la nostra immaginazione quasi si perde; è in questo imparentato strettamente con il bellissimo Galassie come granelli di sabbia (Galaxies like Grains of Sand, 1960), cui lo accomuna anche l’appartenenza al genere dei «falsi romanzi» o romanzi ciclici, vale a dire la concentrazione di più episodi raccordati dalla stessa base tematica. Si tratta di una forma mediana tra quella del racconto e quella del romanzo, in cui la frammentazione dell’intreccio viene saldata da un contesto più generale cui fa riferimento ogni singola storia. Evidentemente, un buon amalgama dipende soprattutto dall’abilità del singolo autore, che deve adattare un genere di per sé sintetico e pregnante ad un altro costruttivamente più impegnativo.

Versatilissima e duttile appare l’ispirazione di Aldiss in Sciame stellare, che raccoglie episodi a volte di antitetica ambientazione, ma sempre con esiti espressivi di indubbia classe. A Kind of Artistry, che apre il volume, è una soffusa storia d’amore, tanto più significativa (e ammonitrice), quanto più i suoi protagonisti sono esseri piuttosto spiacevoli alla vista. Di bella evidenza mi pare anche l’incontro tra la protagonista e la montagna pensante, «strano» apologo sulla comprensione e l’amicizia. In Hearts and Engines, che forse è il racconto più debole, proprio ovvio (ma non dimentichiamo che risale al i960), Aldiss elabora una spietata satira contro l’uso da parte dei soldati di droghe eccitanti. Qui la fantascienza entra in modo tangenziale, perché purtroppo quanto in esso descritto è già avvenuto e avviene ancora. Contro il razzismo appare invece The Under Priliveged, un sottile gioco dei silenzi e dei sorrisi, una struggente storia di speranze deluse e di identità perdute. Sebbene con toni meno truci del precedente, l’episodio è ugualmente mordace e pungente.

Quasi un romanzo breve è The Game of the God, dove molti motivi si sovrappongono e vengono presentati con bella evidenza narrativa. É la storia di un ‘esistenza perduta, di un uomo solo, debole, che per sopravvivere al suo dramma perpetua un’assurda illusione, nutrendo il proprio mito presso la razza che l’ospita. Risalta molto, qui, il valore simbolico della figura emaciata di Dangerfield, che nella sua completa perdita di se stesso e della realtà riflette purtroppo l’acuta sterilità e l’alienazione della nostra «civiltà» delle macchine. A tutto ciò viene accortamente intrecciato il tema del mistero, e in particolare della razza egemone, con la testa di caimano, la cui origine ed il cui comportamento sono inspiegabili per i tre ecologi incaricati di esplorare il pianeta. Finché, come in un puzzle, tutto si ricompone, svelando il mistero. Di folgorante bellezza è Shards, dove l’immaginazione di Aldiss raggiunge vette altissime: l’episodio ha un duplice interesse: come esempio di intelligente rivisitazione del tema canonico della invasione aliena, e come testimonianza delle eccezionali capacità linguistiche di Aldiss. Credo di non esagerare sottolineando l’incredibile novità insita nello stile di queste righe, che certamente deve considerarsi anticipatrice e ispiratrice del prossimo new wave. Su un piano diverso, ma non meno affascinante, Legends of Smith’s Burst ci guida in un mondo quasi fatato, che sembrerebbe uscito dalla penna di De Camp: un quasi-fantasy dove la ricchissima vena pittorica di Aldiss ci si dispiega davanti agli occhi con eccezionale fulgore, unita ad un magistrale umorismo. Di stampo quasi bradburiano mi sembra O Moon of my Delight, in cui la tematica del bambino assume, rispetto alla bellezza dell’idea centrale, una rilevanza particolare. Magnifica è la raffigurazione della ben nota attitudine animistica o fiabesca della mentalità infantile, per cui anche un evento scientificamente rilevabile e di notevole suggestione visiva riceve dal bambino (anzi, nel nostro caso dalla bambina) una interpretazione «ingenua» delicatamente trasfigurata. Ma il culmine di tutto il pathos aldissiano è espresso in quel gioiello che è Old Hundredth, un raffinato gioco della memoria, portato su toni di un lirismo a volte struggente perché composto di sensazioni semplici, elementari, direi popolari. Piena di suggestione l’ambientazione su una Terra dove l’uomo è scomparso da tempo, e sopravvivono animali e creature strane, alcune potenti altre delicate, come la pacata elefantina Dandi, bellissima creazione di Aldiss: un essere che vive tutta la sua solitudine e cerca di riempire i vuoti con l’amore per l’uomo e per il suo mito: finché, sublimando i suoi sentimenti, essa compie l’unico atto che può vincere il suo autoannientamento.

Il libro, dunque, si conclude su toni memorabili, con un personaggio indimenticabile, completando degnamente una raccolta in cui risaltano in tutta la loro evidenza l’ingegnosità di Aldiss e la sua abilità narrativa.

Giuseppe Caimmi

Anteprima testo

Settore vermiglio – Una sorta di elaborazione artistica

La più semplice osservazione possibile è anche la più profonda: il Tempo passa. E’ passato più o meno un milione di secoli da quando la Comunità umana ha’ cominciato a spostarsi da un pianeta all’altro.

Scarse sono le fonti dirette sugli antichi uomini primitivi o sui mondi che essi conquistarono, mentre le nostre conoscenze indirette sono più abbondanti. La classica Teoria della Superannuazione Multigrada ci aiuta.

La Teoria fu formulata nell’Era 80 di Starswarm, e grazie ad essa noi, dopo quarantaquattro ere da essa, siamo in grado di dedurre, sia sul passato sia sul presente, molto più di quanto avremmo potuto.

Il quinto postulato della Teoria afferma che «i fattori di progresso che gli esseri intelligenti provocano, così come i fattori che stimolano la loro intelligenza, sono entro certi limiti, entrambi indipendenti dal fattore di progresso universale». Questi limiti sono definiti nei rimanenti postulati, ma l’affermazione, così espressa, è sufficiente.

Posta in termini semplici, significa che l’Universo è simile a un orologio cosmico, e che le civiltà dell’uomo non sono semplici ruote d’ingranaggio, ma orologi infinitamente più piccoli, che segnano il tempo secondo regole proprie.

Priva del suo involucro intellettuale, l’idea ci appare eccitante, nella sua essenzialità. Essa ci dice che, qualsiasi momento scegliamo, i sistemi solari abitati della Starswarm, la nostra galassia, riveleranno tutti gli stadi evolutivi attraverso cui può passare una civiltà.

Così è giusto che in questo anniversario del volo stellare noi prendiamo in esame un piccolo gruppo fra le miriadi di civiltà, in un senso contemporanee e in un altro isolate, che costituiscono il nostro sciame galattico. Riusciremo forse a trovare un indizio che ci mostri perché gli antichi lanciarono le loro fragili spore metalliche nelle distese dello spazio.

La nostra prima indagine viene da quella remota parte di Starswarm denominata settore Rosso. Là, lontano dalle rotte delle nostre società interstellari, troviamo una cultura dotata di una certa omogeneità, comprendente duecentoquindicimila pianeti.

Fra quei pianeti c’è Abrogan, un mondo con una lunga storia, abitato oggi soltanto da alcune famiglie che vivono come eremite. Fra quelle famiglie…

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Un gigante che fosse emerso dal fiordo, dal grigio braccio di mare del fiordo, avrebbe potuto spiare di là dalla corona delle rocce a picco, e scoprire sull’orlo Endehabven, adagiata proprio nella parte iniziale dell’isola.

Derek Flamifew/Ende riusciva a vederla in buona parte, dalla sua alta finestra; in verità, era come se un’irrequietezza crescente, forse la paura di una lite, lo costringesse a osservare con particolare chiarezza, come quando un paesaggio prima di un temporale, assume una intensa percepibilità attinica. Benché caldo-guardasse con la faccia, l’immaginazione spaziava sopra l’intero panorama.

Tutto era tetro e pulito, a Endehabven, e io che mi occupavo della pulizia lo sapevo bene. I giardini sono costituiti da sempreverdi e, da arbusti che non fioriscono mai, secondo il desiderio di Mia Signora, che predilige l’austerità, intonata con la linea graziosa della costa. Il palazzo, tetro come Endehabven stessa, è alto, sottile e severo; in tempi remoti la sua struttura sarebbe parsa impossibile: le sue mille unità paragravitazionali garantirono che colonne, contrafforti, archi e pareti reggano una muratura la cui massa era largamente illusoria.

Tra il palazzo e il fiordo, dove il giardino si trasforma in viale, ci sono il laboratorio di Mia Signora, i suoi animali domestici, e certo, a quest’ora, la stessa Mia Signora, le lunghe mani affaccendate attorno ai castorini e alle nutrie squittenti. Io stavo con lei, occupandomi delle gabbie degli animali, passandole gli strumenti, mescendo le vasche, eseguendo sempre tutto quello che lei chiedeva. Gli occhi di Derek Ende si volsero giù a guardarci, anzi, a guardarla.

Derek Flamifew/Ende era intento a leggere sulla ricevente il messaggio proveniente da Stella Uno. La ricevente proiettava lievi ombre e luci sulla sua fisionomia e sulle boscidi della sua fronte. Benché guardasse, di là dalla finestra, quella scena così dolorosamente familiare della sua vita, riusciva lo stesso a caldo-guardare chiaramente la comunicazione. Quando questa terminò, annullò il ricevitore, vi premette contro il viso e fletté indietro il proprio messaggio.

«Farò come comunichi, Stella Uno. Andrò subito su Festi XV, nella Nebulosa del Velo, ed entrerò in contatto con l’essere che chiami la Rupe. Obbedirò anche al tuo ordine di prelevare un campione della sua sostanza per portarlo su Pyrylyn. Grazie dei saluti, che ricambio sinceramente. Arrivederci».

Si distese e massaggiò la faccia: caldo-guardare attraverso grandi distanze luce era sempre faticoso. Era come se i muscoli sensibili del volto sapessero di cedere le loro delicate cariche elettrostatiche a parsec di vuoto, e fossero sgomenti. Lentamente, anche le sue boscidi si rilassarono, mentre altrettanto lentamente raggruppava tutto l’equipaggiamento. Sarebbe stato un volo lungo, fino alla Nebulosa del Velo, e il compito che gli era stato assegnato avrebbe scoraggiato il più temerario dei cuori. Ma la ragione per cui indugiava era un’altra: prima di partire, doveva salutare la sua padrona.

Dilatata la porta, uscì nel corridoio, lo percorse con passo fermo, coprendo con i piedi quei mosaici i cui disegni aveva cominciato a conoscere molto tempo prima, nella sua infanzia, ed entrò nel fusto paragravitazionale. Pochi attimi dopo, lasciava l’atrio del palazzo e si avvicinava a Mia Signora, che stava ritta, magra, mentre i roditori le correvano davanti, all’altezza del petto, con le vette del Vatya Jokatt che si innalzavano dietro di lei, rese grigie dalla distanza.

«Vai dentro e portami la scatola dei collari col nome, Hols», mi disse; così io passai vicino a Mio Signore, che stava andando da lei. Lui la guardava e non fece caso a me più di quanto non facesse caso a qualunque altro parteno.

Quando tornai, lei gli voltava le spalle, benché lui le stesse parlando con insistenza.

«Tu sai che ho il mio dovere da compiere, Padrona», udii che diceva. «A nessuno, tranne che a un Abroganniano nato normale…

Sciame Stellare - Copertina

Tit. originale: The Airs of Earth (aka Starswarm)

Anno: 1963

Autore: Brian W. Aldiss

Edizione: Armenia (anno 1978) collana “I Libri di Robot” #7

Traduzione: Laura Serra

Dalla copertina:
Immaginate la nostra splendente Galassia, l’immenso grumo di stelle che ruota lentamente nello spazio infinito; immaginate un futuro remotissimo, quando l’azzurro pianeta su cui e nato l’uomo sarà quasi dimenticato e pochi esseri ne tramandano la gloria; poi, immaginate un viaggio lunghissimo, sulle rotte della vita, alla ricerca dei figli dell’uomo e della sua storia; scoprirete i luoghi e le creature piu incredibili, le eterne vicende dell’odio e dell’amore, l’instancabile battito della vita, incorruttibile come la Galassia… Finché, tornati sul nostro dolce pianeta-madre, incontrerete gli eredi dell’uomo, i frutti della sua intelligenza e del suo orgoglio, creature oppresse dalla solitudine, tese a risvegliare le antiche glorie e a sostituire i loro creatori, che pure rispettano e amano da millenni. Sciame stellare è opera di profonda suggestione, ricca di esperienze intellettuali e di struggente malinconia, nella migliore tradizione di chi, come Brian Aldiss, ha creato una serie di opere indimenticabili, di qualità eccezionale. Aldiss, giudicato recentemente come il miglior scrittore di fantascienza mondiale, riesce a produrre una fantascienza superbamente adulta, sorretta da una solida preparazione culturale. E, con questo romanzo, ci ha dato un vastissimo e affascinante affresco del nostro futuro, una serie di fulminanti sequenze sull’evoluzione della nostra razza, sulle sue illusioni e le sue speranze.