Sconfitta dei Semidei
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PARTE PRIMA: ALLA LUCE DEL SOLE
I – LE PRIME VOCI
Stacey respinse leggermente il cappello all’indietro. Il suo sguardo assorto si posò sulla moglie. Probabilmente non aveva udito nemmeno una parola di ciò che ella gli stava dicendo. Il suo viso asciutto aveva il colorito pallido, ma ricco e intenso di coloro che hanno vissuto a lungo sotto il sole dei tropici. Dietro gli occhiali di tartaruga, i suoi occhi erano d’un azzurro chiaro, penetranti.
«Ah!» disse gentilmente. «I giornali? Bene, grazie».
«Sì, Horace, eccoli! Torno adesso dal villaggio» disse Kathleen, una ragazza tanto bella, nel suo tipo, quanto il tramonto estivo che pennellava di vecchio oro quell’angolo di campagna inglese. I suoi capelli neri erano densi e cupi come l’ombra che si stendeva sul prato rasato e i suoi occhi riflettevano gli ultimi raggi del sole morente. Era una ragazza moderna e aveva l’abitudine, che molti giudicavano piuttosto sfrontata, di chiamare i propri genitori col loro nome di battesimo.
«C’è qualcosa, sui giornali, che t’interessa, Horace» soggiunse.
«Parlano di formiche?» egli chiese, con un lieve sussulto.
«Sì. In quarta pagina».
«Oh» continuò la signora Stacey.
«Sarà sempre la solita storia… Conosco la sinfonia! Qualcosa del genere: “In questa stagione dell’anno la Grande Termite Bianca Africana – forse il più feroce degli insetti noti – si prepara ad effettuare un attacco massiccio ai raccolti dei contadini del veld africano…”».
«No, non è così semplice» disse il marito che aveva aperto il giornale e cercato la notizia che lo interessava. «Si tratta di ben altro. Pare che si sia scoperta nel Sud Africa una specie di formica amazzone. Uno degli esemplari catturati misura parecchi decine di centimetri di lunghezza…
Singolare davvero, e molto interessante!»
«Oh, Horace» disse sua moglie.
«Io credevo che tu avessi abbandonato le formiche per dedicarti ai ragni e alle tignole. E ne ero davvero felice, caro. Da che siamo sposati, finalmente incominciavo a respirare! Dammi retta, non pensare più a quelle sinistre bestiole: hanno qualcosa di lugubre, lo sai che ho sempre dei presentimenti e delle intuizioni…»
«Non tormentarti, cara» le rispose il marito dolcemente. «Non ci penso più, infatti. I miei lavori sulle formiche sono terminati… sempre che non ci sia qualche cosa di veramente nuovo».
«Speriamo di no» disse Kathleen, decisa. «Mi hai fatto talmente paura, con quelle bestioline, quando ero piccola, che sognavo tutte le notti d’essere rapita e tenuta prigioniera in un formicaio. Non ricordo più i particolari, ma mi è rimasta una sensazione spiacevole d’incubo. Per fortuna hai una figlia piena di equilibrio, Horace, altrimenti avrei potuto crescere piena di complessi… Horace, angelo mio, non credere che sia molto comodo e piacevole essere la figlia del più noto entomologo del mondo!»
«Santo Iddio!» disse suo padre. «Starò più attento, in avvenire!»
Kathleen gli prese una mano.
«Ascolta, Horace. E se i sogni che avevo da bambina e gli altri incubi si dovessero realizzare, se davvero io fossi fatta prigioniera da una formica gigante o da una termite, come credi che mi tratterebbero? Pensa, caro, che mi si considera, in genere, una personcina piuttosto graziosa e attraente, dotata d’un certo fascino».
«Ebbene, signorina» disse solennemente Horace Stacey «tutta la vostra bellezza, tutto il vostro leggendario sex appeal, a cui sembrate tener tanto, voi e i vostri giovani amici, sarebbero lettera morta, per le formiche. Con la loro percezione acuta s’accorgerebbero fin dal primo momento che non siete adatta ad essere la loro regina! E dopo avervi nutrita e ingrassata, signorina, proprio come un pidocchietto delle piante, farebbero di voi una specie di Cenerentola da mensa aziendale. E se voi, cara signorina, vi mostraste incapace di resistenza fisica, non starebbero a pensarci su tanto e vi destinerebbero a servire da pranzo alle centomila operaie asessuate della loro classe inferiore. Ho detto!»
Sorrise.
«Benissimo» disse Kathleen sullo stesso tono. «Sarei a posto, in qualunque modo mi trattassero, sembra…» Cambiò tono: «Spicciati a venire a mangiare, Horace, se vuoi che ti perdoni simili lugubri predizioni! Ho una fame infernale».
Mentre le due donne rientravano in casa, lo scienziato rimase assorto nella contemplazione del giornale che gli era scivolato ai piedi.
«Lunghe parecchie decine di centimetri…» mormorò fra sé. «Singolare, davvero singolare. E nella regione del fiume Hex, per giunta! Atta cephalotes, suppongo. Oppure, se sono sprovviste di pungiglione, Formica sanguinea… Bisogna proprio che m’informi un po’ meglio, su questo punto!»
Fu in questo modo fortuito e piuttosto scherzoso, che il mistero e il terrore fecero il loro ingresso nel tranquillo rifugio del Surrey: per mezzo di una dozzina di righe, anzi, per essere precisi, dieci righe di un giornale della sera! Probabilmente non ci fu in Inghilterra un solo lettore di quel giornale che accordasse a quella breve notizia la minima attenzione. In genere la gente non s’interessa di una nuova specie di formica trovata fra qualche cespuglio d’una montagna lontana, di cui soltanto qualche geografo o qualche esploratore conoscono il nome. Del resto, nemmeno Horace Stacey, membro della Società Reale, ex presidente dell’Istituto di Microbiologia e il naturalista più celebre dopo Lord Avebury, immaginò fino a qual punto la sua decisione di non occuparsi più di formiche fosse vana e nemmeno che due mesi più tardi sarebbe stato sulla banchina del porto di Southampton per sorvegliare l’imbarco dei suoi bagagli verso l’Africa del Sud, dove doveva recarsi, su invito del Governo del Sud Africa, per classificare un esemplare di formica di straordinaria grossezza che era stata sorpresa mentre inseguiva dei ragazzi nella regione sabbiosa semi-incolta di Cape Flat. E che questa singolare formica non misurava meno di un metro e venti di lunghezza…
II – CAPO D’AFRICA
«Benissimo» disse il professore Stacey al sorridente fattorino indigeno del Mount Nelson Hotel, che gli porgeva un biglietto da visita. «Potete dire al signor Kramer che lo riceverò immediatamente. Fatelo entrare nel mio salone».
Il ragazzo, incantato dal constatare che il sahib conosceva qualche parola della sua lingua, spalancò la bocca in un sorriso radioso e se ne andò.
Stacey riaccese la sua pipa e continuò a disfare, con metodo, le sue valige. Libri, libri, sempre libri. Non aveva proprio portato altro, con sé? Ah, sì, quella vecchia, stinta veste da camera. Respinse senza cerimonie l’Origine e le Metamorfosi degli Insetti, di Lord Avebury per tuffarsi nel baule. Che cosa diavolo conteneva quella scatola così accuratamente impacchettata da sua moglie? Ah, sì! Insettiere per conservare qualche esemplare delle nuove formiche. Ma c’era stato un leggero errore di calcolo, poiché le insettiere erano davvero troppo piccole se era vero che le formiche che l’avevano pregato di classificare misuravano da un metro e venti a un metro e cinquanta di lunghezza! Pensò che, se quanto si diceva era vero, sarebbe stato costretto a farsi costruire recipienti adatti.
Il ragazzo indigeno tornò dicendo che il signor Kramer lo aspettava. Stacey raggiunse il suo collega.
Il professor Philip Kramer voltava le spalle alla porta, con quel sovrano disprezzo di ogni formalità degli uomini d’affari americani, e stava fumando un lungo sigaro. Quando si voltò udendo entrare Stacey, questi vide un uomo giovane, come non immaginava dovesse essere un antico professore di Harvard, dal viso eccessivamente sottile e dorato dal sole, sormontato da un’abbondante capigliatura color bronzo leggermente impolverata di argento alle tempie.
Philip Kramer gli tese la mano con la violenza di un pistone automatico.
«È un onore fare la vostra conoscenza, professor Stacey» disse.
Dopo i primi convenevoli il professor Kramer entrò subito nell’argomento che gli stava a cuore.
«I due esemplari che il dottor Du Maine, dell’Università di Capetown, ha trovato, superano ogni vostra aspettativa, vedrete» disse. «Una bestia spaventosa, credetelo. Polyergus rufescens o Formica rufa. Non avrei mai creduto che ne potessero esistere di simili, prima di venir qui. Color vino, dotate di antenne lunghissime e neutre, tutte e due le formiche. Una deve essere una formica operaia, l’altra una formica guerriera, direi. L’intelligenza di quest’ultima è addirittura stupefacente, ancor più del suo sviluppo fisico».
L’interesse di Stacey stava aumentando considerevolmente.
«Personalmente, la questione dell’intelligenza delle formiche mi interessa molto di più della loro grossezza… Le studierò a fondo».
«Sì. Ma vi avverto che il professor Du Maine è molto geloso degli insetti che ha catturato e si ostina a non lasciarli uscire dalla loro gabbia».
«Credo che sia un timore piuttosto comprensibile».
«Ma niente affatto!» esclamò Kramer, riscaldandosi. «La formica guerriera non scapperebbe. Non ne ha nessuna voglia. Vedrete voi stesso, professor Stacey, sono creature da incubo, ma l’orrore che incutono non dipende dalla loro gigantesca statura. È la loro intelligenza, che fa inorridire. Vi dico che è pari a quella umana. Il dottore Du Maine s’immagina che esse vogliano evadere. Ma allora perché si sarebbero lasciate catturare? Quando un agente segreto si lascia prendere premeditatamente, perché poi dovrebbe tentare di scappare?»
«Non capisco bene…» disse Stacey.
«Già. E nemmeno Du Maine riesce a capire ciò che io suppongo. Ascoltate, ho visto la formica guerriera. Non solo, ma ho visto dove l’hanno catturata e ho sentito il racconto della sua cattura. Du Maine, aiutato da due indigeni, ha teso una rete e la formica si è lasciata tranquillamente prendere».
«Senza dibattersi?» chiese stupito Stacey.
«Neanche un po’. Ha camminato verso la rete con perfetta calma, senza neanche cercare di emettere la minima dose di acido formico, né di rompere la rete. E così la sua compagna. Vi dico che parevano felici d’esser prese e, di più, che parevano interessarsi vivamente all’esperienza. Ora stanno pacifiche nella loro gabbia di legno e paiono dispostissime a divertirsi col vecchio scienziato…»
«I loro occhi come sono?» interrogò Stacey. «Immagino siano eccessivamente sviluppati».
«Sì, proprio come avete detto: eccessivamente. Invece di averne uno per lato, ne hanno quattro. Credo che questo punto sia importante. Ma sarebbe meglio che le vedeste voi stesso».
«Bene. Ci troveremo alle tre in laboratorio. Avvertirò Du Maine».
«D’accordo» disse l’americano.
Stacey stava immobile davanti alla gabbia di legno su cui si intersecavano i fili elettrici collegati ai potenti riflettori poggiati su treppiedi e a un quadro pieno di manopole, fissato al muro. Dimentico della presenza dei suoi colleghi accanto a sé, Stacey era molto pallido: nemmeno nelle sue più audaci fantasie aveva immaginato che potesse esistere un essere così grottescamente terribile.
La formica prigioniera misurava esattamente un metro e settanta. La sua enorme testa triangolare aveva la sagoma di una grossa pala da carbone, l’addome gelatinoso somigliava in un certo senso a una gigantesca palla da bambini. Le sue zampe erano articolate e quasi grosse quanto le braccia di Stacey; erano ricoperte di ruvido, rigido pelo fra il quale scintillavano goccioline di sudore, proprio come se il fiabesco insetto traspirasse. La sua ligula – o labbro inferiore – pendeva aperta e sembrava un cucchiaio teso in avanti; la gola era una strettoia tortuosa dal riflesso fosco e rossastro, e le…