Serial Experiments Lain

Serial Experiments Lain

A pochi giorni dal suicidio della studentessa Chisa Yomoda, alcune compagne di scuola ricevono una sua e-mail, nella quale la giovane afferma di non essere morta ma di vivere ‘senza corpo’ all’interno della rete informatica Wired. Il messaggio arriva anche alla riservata Lain Iwakura, che decide di indagare, dopo aver chiesto in regalo al padre un nuovo PC, un NAVI di ultima generazione con cui esplorare il Wired al massimo delle potenzialità. La ragazza inizia così a legare sempre più la propria esistenza alla navigazione in rete, in un mondo cosmopolita dove i rapporti sociali sono regolati da telefonini all’ultimo grido e chat virtuali. C’è però qualcosa di strano nel Wired, qualcosa che Lain non comprende ma che la attrae: entità enigmatiche come i Knights, che cercano continuamente di mettersi in contatto con lei, e due agenti segreti che sembrano controllare ogni suo movimento. Ma soprattutto c’è un’altra Lain, nel Wired, un’altra Lain uguale a lei: il suo avatar, sempre più diverso dal suo io reale, sembra prendere vita…

Il parere del Corà

A più di quindici anni dalla prima messa in onda, Serial Experiments Lain non ha perso un grammo della sua potenza critica; della profetica, devastante, spietata analisi della generazione informatica che, nel bene e nel male, stava nascendo in quel periodo. La rapida trasformazione sociale ci ha catapultati – rendendoci assuefatti, dipendenti – negli scenari immaginati dall’opera diretta da Ryutaro Nakamura, impedendoci forse, oggi, di rimanere spiazzati dalla brutalità con cui nel 1998 essi descrivevano l’evoluzione di Internet, ma non di continuare ad apprezzare un capitolo fondamentale dell’animazione cyberpunk e della fantascienza tutta. Basterebbe citare due singole scene, o meglio, due semplici linee di dialogo, per rendersi conto della cruda verità divinatrice, dialoghi ancora attuali e per nulla scontati: quando il padre di Lain, dopo averle regalato il NAVI, le dice sorridendo “Bene, ora non avrai più bisogno di uscire e vedere i tuoi amici”; o quando la ragazza, ormai totalmente rapita dal Wired, chiede al computer (al computer, non a una persona in carne e ossa) se lei esiste veramente o meno. Sono granate, granate capaci tutt’ora di annichilire.

Serial Experiments Lain non è un’opera per tutti; la glaciale, ossessiva regia e le atmosfere minimaliste svolgono il loro dovere disturbante nel dipingere l’era che sarebbe giunta, ma creano un prodotto freddo, avulso, di non sempre pulita assimilazione. Lo scopo non era certo sollecitare l’empatia dello spettatore verso i personaggi; anzi, la serie sfrutta il distacco emotivo per completare la propria desertica visione del futuro, una scelta che, seppur giusta, aumenta esponenzialmente il già ostico meccanismo narrativo e potrebbe allontanare i curiosi. Aiuta invece il gradevole, morbido character design dai volti tondeggianti di Takahiro Kishida, ideale nel suo contrapporsi agli incubi incomprensibili del Wired.

La progressione della storia è pachidermica, asfissiante, e spesso prende strade che lasciano storditi a causa dell’accumulo di sottotrame. Nulla è lasciato al caso, particolari in apparenza secondari o semplicemente oscuri guadagnano una spiegazione mentre la serie volge alla conclusione, ma ciò implica una visione eccessivamente cerebrale, cose da mani che premono sulle tempie per non perdere la concentrazione e non farsi distrarre da niente. Alla già ardua complessità strutturale si aggiungono momenti di puro delirio onirico, sterzate cyber-mistiche, gelidi simbolismi, il tutto mescolato con questa già citata direzione opprimente e angosciosa, che più di una volta si munisce di spezzoni di filmati reali e musiche dissonanti, schitarrate oblique e suoni martellanti (immancabili le sequenze in discoteca) per distruggere il cervello dello spettatore.

Questa serie richiede perciò sforzo di comprensione e un impegno mentale a chi vuole approcciarsi al suo mondo cacofonico, grigio, durissimo, e seguire una sceneggiatura fatta allo stesso tempo di dialoghi lunghi e articolati e silenzi abissali. Potenzialmente indigeribile, sicuramente pesante e faticosa, ma di notevole, forse irrinunciabile, suggestione.

Il parere del Mistè

È troppo facile cadere nella tentazione di abbandonare Serial Experiments Lain dopo i primi 2 o 3 episodi: è una serie talmente lenta e criptica da risultare fin da subito asfissiante; ma significherebbe abbandonare una delle visioni cyberpunk più avveniristiche che l’animazione dagli occhi a mandorla abbia mai prodotto in tutta la sua storia.

Lain nasce nel 1998 da un soggetto scritto a due mani dall’illustratore Yoshitoshi ABe e dal produttore Yasuyuki Ueda, trovando poi effettiva forma sotto la regia del promettente Ryutaro Nakamura, la sceneggiatura di Chiaki J. Konaka e le animazioni della Triangle Staff. L’opera si staglia dunque, sul finire del decennio, come uno dei figli più rappresentativi ed estremi della rivoluzione d’autore inaugurata da Neon Genesis Evangelion (1995) e da La Rivoluzione di Utena (1997), da posizionare soprattutto nel solco tracciato dalla seconda. Ormai avvezzi all’uso di computer, chat, community online ed MMORPG, e consci di tutte le conseguenze sociali che questi media comportano (alienazione, rarefazione dei rapporti sociali, perdita dei valori più semplici, costruzione di maschere e identità lontane dalla vita reale), è specialmente oggi che scopriamo in Lain quanto avessero ragione le tragiche intuizioni di ABe, Ueda e Konaka, nel dipingere una favola oscura e colma di simbolismi dove trovano sfogo tutti i timori più oscuri di una generazione che viveva l’avvento di Internet.

La sinossi iniziale bene esemplifica il tenore enigmatico delle atmosfere della serie, tanto che già andare oltre è difficile, vista la coltre di misteri evocata dalla storia, tra oscuri Knights che agiscono dietro le quinte di un Wired che si rivela substrato della realtà, divinità che dimorano nella rete, sequenze visionarie e metafore grafiche che provvedono più e più volte a mandare fuori strada lo spettatore, inducendolo a chiedersi cosa stia effettivamente guardando.

Scontato dirlo: nel suo cervellotico stile, il racconto non offre mai una traccia chiara e lineare da seguire, chi la cerca probabilmente non riuscirà mai ad apprezzarlo. Offre invece, come Utena, tanti piccoli indizi disseminati qua e là (frasi-chiave soprattutto), che aiutano, a mano a mano che prosegue la visione, a contestualizzare sempre più il senso della storia, che non è realistica o terrena bensì una semplice fiaba dallo stile postmoderno. Un’allegoria dove riflessioni e timori sulla tecnologia sono trattati con l’ausilio di scene simboliche: che presentano magari utenti incapaci di staccarsi dalla rete e addirittura posseduti dal PC, in senso letterale, catturati da fili e cavi (scena che ricorda le visioni infernali di Shinya Tsukamoto nella trilogia di Tetsuo); oppure che mostrano una tresca fra allieva e insegnante scoperta nel Wired, e ivi rappresentata tramite una simbolica soggettiva, come se una spia entrasse furtiva nella stanza dove si consuma il fatto; o che descrivono l’introversa protagonista e i suoi familiari così isolati dalla realtà da dubitare addirittura sulla loro reciproca esistenza, negandosi a vicenda la parentela.

Non è tanto importante la successione principale dei fatti, la semplice fabula che, anzi, viste le onnipresenti atmosfere lisergiche del racconto, diventa elemento secondario (forse quello meno interessante dell’opera), quanto comprendere cosa vogliano dire gli autori, che snocciolano decine e decine di spunti di riflessione. È possibile rinvenire addirittura echi di filosofia politica e sociale nell’assunto che il mondo, come le poleis elleniche, è un ‘cosmo ordinato’/‘sistema operativo’ di cui tutti gli individui rappresentano ramificazioni/applicazioni, giusto a testimoniare la ricchezza di intuizioni che portano l’opera a porgersi come un ideale precursore della trilogia cinematografica di Matrix (1999), similarmente a Megazone 23 uscito tredici anni prima di Lain. Se è palese che il messaggio finale non può che essere una ferma condanna del condizionamento determinato da Internet e dalla tecnologia, sono presenti molti interrogativi su cui poter meditare: la distanza tra scienza e religione (chi ha inventato il Wired?), le potenzialità psichiche dell’individuo, il significato dell’esistenza nella vita reale, priva di avatar…

Serial Experiments Lain è una visione indubbiamente pesante perché densa, densissima di spunti, o anche solo per il connubio tra la lentissima regia di Nakamura e la sceneggiatura di Konaka che si esprimono in animazioni e disegni minimalisti, poche linee di dialogo, lunghissimi silenzi, uso preponderante e pietrificato di volti in primo piano per sottolineare le sensazioni di distacco e alienazione degli attori, e un’estetica sonora impressa da suoni elettronici intermittenti o martellanti che comunicano la lenta trasformazione di Lain in un software, umano o virtuale che sia. È onesto dire che l’opera è un notevole mattone, con un ritmo che tarpa subito le ali allo spettatore occasionale, e solo una mente attiva e paziente potrà godere delle prelibatezze che offre la trama. Riuscire a reggere la visione significa più volte stupirsi dell’intelligenza con cui i realizzatori hanno anticipato tutti i pericoli – di grande attualità – insiti in una società cosmopolita tecnologica, lanciando un inquietante monito sul prezzo da pagare per una simile universalità di comunicazione.

È un’opera sinceramente e devotamente di nicchia, ma quantomeno da provare.