PRESENTAZIONE
Walter Tevis, americano, non è certo uno scrittore molto prolifico. La sua produzione fantascientifica, iniziata nel 1957 con il racconto «The Ifth of Oofth» (La seezza della quasità, apparso su «Galaxy»), consta a tutt’oggi di una manciata di racconti e di due romanzi: «The Man who Fell to Earth» (1963), portato recentemente sullo schermo dal regista Nicholas Roeg, e questo «Mockingbird», uscito nel 1980, grosso successo letterario e già considerato un classico dell’utopia negativa.
Nonostante questa sua scarsa propensione per la letteratura «attiva», Tevis è indubbiamente uno scrittore molto valido e molto dotato: lo stanno a testimoniare i suoi racconti, tutti molto piacevoli e apprezzabili, che sono stati raccolti proprio di recente dalla casa editrice americana Doubleday nell’antologia «Far from Home», e soprattutto i due romanzi, due splendide opere che resteranno probabilmente nella storia della sf.
«The Man who fell to Earth» (L’uomo che cadde sulla Terra), celebre anche per la bellissima interpretazione cinematografica del cantante rock David Bowie, narrava la storia di un alieno che arriva sulla Terra, probabilmente dal vicino Marte, nel tentativo di ottenere un aiuto da parte dell’umanità per la sua razza morente. Divenuto umano fisicamente ed emotivamente quanto gli è permesso dalla sua elevata tecnologia e dai suoi enormi poteri empatici, l’alieno prova a ricostruire un’astronave che possa riportarlo al suo pianeta, ma l’ostile risposta xenofobica dell’uomo, che dovrà affrontare al momento di rivelare se stesso e il suo scopo su questo mondo, gli sarà impossibile da sopportare. Narrato con una prosa semplice ed efficace, composta e contenuta, che nasconde quasi la rabbia e l’amarezza della condizione dell’alieno, «The Man who Fell to Earth» rimane uno dei romanzi più significativi della fantascienza degli anni sessanta. Con sottile maestria Tevis vi anatomizza la condizione dello «straniero», un po’ alla maniera di Camus, condannando in maniera quieta ma inequivocabile la politica inumana della società tecnologica moderna, che respinge tutti coloro che non sono in grado di integrarsi nel sistema o di accettarne le regole implicite. È interessante notare come la figura del protagonista, Thomas Jerome Newton, sia resa eccezionalmente bene nella versione cinematografica dalla rock star David Bowie, con la sua incredibile figura androgina e il suo fragile pathos umano.
In questo splendido «Mockingbird», scritto a quasi vent’anni di distanza dall’« Uomo che cadde sulla Terra», ritroviamo la stessa prosa composta e lo stesso tema di fondo, anche se la storia e l’ambientazione sono completamente diverse. Siamo in un ‘America futura dove tutti i lavori e tutte le responsabilità sono stati affidati ai robot, mentre la razza umana, confortata dalle droghe e dalle tecniche di isolamento, coltiva l’apatia. Drogati e cullati da stimoli di beatitudine elettronica, gli esseri umani vagano in questo mondo, dove il sesso rapido e disimpegnato è la cosa più in voga; dove la gente preferisce «bruciarsi viva» a un ‘esistenza normale, dove le emozioni e le abilità si vanno atrofizzando. Perfino la produzione e la manutenzione dell’automazione sono neglette. Le arti letterarie sono state tanto scoraggiate che ormai sono praticamente scomparse, ma uno dei tre protagonisti, il prof . Paul Bentley è riuscito a imparare, da solo, a leggere. Paul è incapace di comprendere la natura di questa abilità, il suo potenziale valore sovversivo in questa civiltà stagnante e decadente; il suo carattere placido e tranquillo non lo spinge certo alla rivolta contro la società totalitaria. Sono i suoi dubbi, più che Il suo comportamento, a farne un possibile ribelle, e sarà fondamentale l’incontro con Mary Lou, una ragazza molto meno conformista di lui, per il risveglio della sua coscienza. Accanto a loro si muove la figura di Robert Spofforth, decano dell’università di New York, robot perfezionatissimo, anzi androide perfezionatissimo, con schemi cerebrali copiati da quelli di un ingegnere cibernetico morto ormai da moltissimo tempo. Asessuato e immortale, Spofforth è condannato a un’esistenza di frustrazione: la sua condizione, umana e «aliena» al tempo stesso, ne fa un eterno infelice, ossessionato da desideri umani, come l’amore e la voglia di morire, che la sua natura non gli consente di soddisfare.
Ricompare dunque, anche qui, l’esame della condizione umana, della condizione alienata dell’uomo nella società delle macchine, che era già presente nel precedente «The Man who Fell to Earth». Assieme a questo tema abbiamo lo studio dell’antiutopia. È facile riconoscere i vecchi, noti accenti contro la società umana che ha abbandonato tutti i veri valori individuali (la libertà, il contatto interpersonale, le stesse emozioni umane), abdicando in favore delle macchine, accenti già presenti nel classico «The Machine Stpos Stops» (1) di E.M. Forster. E ancora non è difficile distinguere certi riferimenti alla Diaspar, la città futura del celeberrimo «The City and the Stars» di Arthur Clarke, o certi accorati toni a favore della riscoperta della lettura, del culto della parola scritta, che erano alla base di un altro classico dell’utopia negativa, quel «Farhenheit 451» che rimane a nostro avviso il capolavoro di Ray Bradbury.
La vicenda narrata da Tevis segue le regole del romanzo antiutopistico, della critica sociale descritta da Bradbury e da Orwell in «1984»; alla ribellione dell’eroe fa seguito l’esilio, la scoperta della propria forza, la piena cognizione dei propri poteri attraverso la sofferenza, e infine la demolizione della società tirannica e l’instaurazione del nuovo ordine. Tevis tuttavia riesce a nobilitare cliché vecchi come il cucco con Il suo stile tranquillo e composto ma sempre pieno di pathos, di un accorato senso dell’umanità: la sua descrizione di questo mondo futuro è quieta e affascinante, credibile e corposa, e l’idillio di Paul e Mary Lou si distacca da tante stereotipate storie d’amore che compaiono nelle opere della sf moderna per le profonde, vibranti note d’angoscia da cui è permeato. Un romanzo, questo di Tevis, che celebra la gioia struggente della vita e dell’amore, la forza della speranza e che, soprattutto, trabocca di fiducia nelle capacità dell’uomo e nella magia della parola scrìtta: la morale che sta alla base è forse vecchia, ma sempre oltremodo valida.
Sandro Pergameno
Anteprima libro
La vita interiore di un essere umano è un reame immenso e variato che non riguarda soltanto lui stesso, con stimolanti aspetti di colore, forma e disegno. Edward Hopper
SPOFFORTH
Mentre percorre a mezzanotte la Quinta Strada, Spofforth incomincia a fischiettare. Non conosce il titolo del motivo, e non ci tiene a saperlo. È un motivo complicato, e lo fischietta spesso, quando è solo. È nudo fino alla cintola, e scalzo; indossa soltanto un paio di calzoni khaki; sente sotto le piante dei piedi la vecchia pavimentazione sconnessa. Sebbene cammini al centro dell’ampia strada vede intorno a sé alti ciuffi d’erba, dove il marciapiedi si è incrinato e spezzato da molto tempo e attende riparazioni che non verranno mai. Da quei tratti erbosi, Spofforth sente venire un coro di frinii d’insetti. I suoni lo mettono a disagio, come avviene sempre in questo periodo dell’anno, in primavera. Infila le grosse mani nelle tasche dei calzoni. Poi, impacciato, le toglie, e comincia a trottare, enorme e leggero, atletico, verso la sagoma massiccia dell’Empire State Building.
La porta dell’edificio aveva occhi e voce; il cervello era quello di un idiota, ostinato e insensibile. «Chiuso per riparazioni», disse la voce a Spofforth quando si avvicinò.
— Taci e apriti — disse Spofforth. E poi: — Sono Robert Spofforth. Un Nove.
— Chiedo scusa, signore — disse la porta. — Non potevo vedere…
— Si. Apriti. E di’ all’ascensore espresso di scendere.
La porta tacque un momento. Poi disse: — L’ascensore non funziona, signore.
— Merda — disse Spofforth. E poi: — Salirò a piedi.
La porta si aprì, Spofforth entrò e attraversò l’atrio buio, in direzione della scala. Fece tacere i circuiti della sofferenza nelle gambe e nei polmoni, e cominciò a salire. Non fischiettava più. La sua mente complessa era concentrata interamente sul compito annuale.
Quando arrivò al limitare della piattaforma, alla massima altezza sopra la città, Spofforth inviò il comando ai nervi delle gambe, e il dolore vi affluì. Si scostò leggermente, zoppicando, alto e solo nella notte nera, senza luna e con le stelle fioche. La superficie sotto i suoi piedi era liscia e levigata. Una volta, anni prima, Spofforth era quasi scivolato. E subito aveva pensato, deluso: Se accadesse un’altra volta, all’orlo. Ma non era accaduto.
Arrivò a mezzo metro dal limite della piattaforma e senza un segnale mentale, senza un atto di volontà, le sue gambe smisero di muoversi, e si trovò immobilizzato come sempre, rivolto verso la Quinta Strada, a trecento metri dalla superficie dura e agognata. Poi spronò il proprio corpo, con tristezza e disperazione, concentrando la volontà nel desiderio di cadere in avanti, di inclinare quel suo corpo forte e pesante, artificiale, lontano dal grattacielo, lontano dalla vita. Incominciò a urlare tra sé, invocando il movimento, immaginando di precipitare al rallentatore, con eleganza e sicurezza, verso la strada sottostante. Non desiderava altro.
Ma il suo corpo non era suo, e lo sapeva. Era stato progettato da esseri umani; solo un essere umano poteva farlo morire. Allora urlò a voce alta, tendendo lateralmente le braccia, mugghiando di furore sopra la città silenziosa. Ma non riuscì ad avanzare.
Spofforth restò così, solo sulla cima del grattacielo più alto del mondo, immobilizzato per il resto della notte di giugno. Ogni tanto diventavano visibili le luci di un autobus a pensiero, un po’ più grandi delle stelle, sotto di lui, e si muovevano avanti e indietro per le vie della città vuota. Negli edifici non c’erano luci accese.
E poi, quando il sole incominciò a illuminare il cielo sopra l’East River alla sua destra e sopra Brooklyn, che non era più raggiunta da ponti, la frustrazione incominciò a diminuire. Se avesse avuto i dotti lacrimali avrebbe trovato sfogo nel pianto; ma non poteva piangere. La luce divenne più intensa; vedeva le sagome degli autobus vuoti sotto di lui. Scorse una minuscola macchina del Rilevamento che percorreva la Terza Strada. Poi il sole, pallido nel cielo di giugno, apparve su una Brooklyn deserta e scintillò sull’acqua del fiume, limpida come agli albori del tempo. Spofforth indietreggiò di un passo, lontano dalla morte che cercava e che aveva sempre cercato in tutta la sua lunga vita, e la collera che l’aveva invaso incominciò ad attenuarsi via via che il sole si alzava. Avrebbe continuato a vivere, e l’avrebbe sopportato.
Scese la scala polverosa, dapprima lentamente. Ma quando arrivò nell’atrio i suoi passi erano vivaci, decisi, pieni di vita artificiale.
Mentre usciva disse all’altoparlante della porta: — Non lasciar riparare l’ascensore. Preferisco salire a piedi.
— Sì, signore — disse la porta.
Fuori il sole brillava fulgido e per la via c’erano alcuni umani. Una vecchia negra, in uno sbiadito abito blu, sfiorò il gomito di Spofforth e lo guardò con aria sognante. Quando vide il marchio del Nove, distolse immediatamente gli occhi e mormorò: — Chiedo scusa. Chiedo scusa, signore. — Restò lì, senza sapere che fare. Probabilmente non aveva mai visto un Nove e sapeva che esistevano solo perché l’aveva imparato in gioventù.
— Vada — disse lui, gentilmente.
— Sì, signore — disse lei. Frugò nella tasca della giacca, tirò fuori un sopor e lo prese. Poi si voltò e si allontanò trascinando i piedi.
Spofforth si avviò a passo vivace, nel sole, verso Washington Square, verso l’Università di New York, dove lavorava. Il suo corpo non si stancava mai. Solo la sua mente, complessa, intricata e lucida, capiva il significato di stanchezza. La sua mente era sempre, sempre stanca.
* * *
Il cervello metallico di Spofforth era stato costruito, e il suo corpo era cresciuto dai tessuti viventi in un tempo molto lontano, quando l’ingegneria era in declino ma la costruzione dei robot era un’arte superiore. Presto anche quell’arte sarebbe declinata: Spofforth era stato il risultato più perfetto. Era l’ultimo d’una serie di cento robot designati come Nove, gli esseri più forti e intelligenti mai costruiti dall’uomo. Ed era l’unico programmato per restare vivo contro la propria volontà.
Esisteva una tecnica per registrare tutti i nervi, tutti i modelli d’apprendimento di un cervello umano adulto, e per trasferire la registrazione nel cervello metallico di un robot. Questa tecnica era stata usata solo per la serie Nove; tutti i robot di quella serie erano stati dotati di copie modificate del cervello vivente di un unico uomo. Quell’uomo era un ingegnere geniale e malinconico che si chiamava Paisley… anche se Spofforth non lo sapeva. La rete delle informazioni e di interconnessioni che formavano il cervello di Paisley era stata registrata su nastri magnetici e custodita in un sotterraneo blindato di Cleveland. Nessuno sapeva che ne fosse stato di Paisley dopo che la sua mente era stata copiata. La sua personalità, la sua immaginazione e la sua conoscenza erano state tutte registrate su nastri quando aveva quarantatre anni; e dopo era stato dimenticato.
I nastri erano stati riveduti e corretti. La personalità era stata eliminata per quanto era possibile senza danneggiare le funzioni «utili». Ciò che vi era di «utile» in una mente era stato deciso da ingegneri molto meno fantasiosi di Paisley. I ricordi della vita erano stati cancellati, e con essi gran parte della conoscenza, sebbene sui nastri rimanessero la sintassi e il vocabolario dell’inglese. I nastri contenevano, anche dopo la revisione, una copia quasi perfetta di un miracolo evolutivo: un cervello umano. Erano rimasti alcuni dettagli indesiderati di Paisley. Nei nastri c’era la capacità di suonare il piano, ma richiedeva un corpo con braccia e mani per manifestarsi. E quando il corpo era stato creato, non c’era un pianoforte da suonare.
Indesiderati dagli ingegneri che avevano effettuato la registrazione, e tuttavia inevitabili, c’erano frammenti di vecchi sogni, di aspirazioni, di ansie. Non era possibile cancellarli dai nastri senza danneggiare altre funzioni.
La registrazione venne trasferita elettricamente in una sfera d’argento di ventidue centimetri di diametro, formata da migliaia di strati di nichel-vanadio, filati e plasmati da macchine automatiche. La sfera venne collocata nella testa di un corpo clonato appositamente.
Il corpo era cresciuto in una vasca d’acciaio in quella che un tempo era stata una fabbrica d’automobili, a Cleveland. II risultato era perfetto: alto, potente, atletico, bello. Era un negro nel fiore della vita, con muscoli splendidi, cuore e polmoni potenti, capelli neri crespi, occhi limpidi, una bella bocca carnosa, e grandi mani robuste.
Alcuni dettagli umani erano stati modificati: il processo d’invecchiamento era programmato per arrestare lo sviluppo fisico a trent’anni, l’età che il corpo aveva raggiunto dopo quattro anni nella vasca. Era attrezzato in modo da poter controllare le proprie reazioni al dolore, ed entro certi limiti era in grado di rigenerarsi. Per esempio, poteva continuare a farsi crescere denti nuovi, o nuove dita, se era necessario. Non sarebbe mai diventato calvo, non avrebbe mai avuto difetti della vista o cataratte o…
Tit. originale: Mockingbird
Anno: 1980
Autore: Walter Tevis
Edizione: Editrice Nord (anno 1983) Collana “SF Narrativa d’Anticipazione” #36
Traduttore: Roberta Rambelli
Pagine: 221