Realizzato a partire dal 2007 grazie all’interesse di Guillermo Del Toro, Splice è in realtà un progetto che il cineasta italo-canadese Vincenzo Natali cullava sin dalla fine degli anni Novanta, dopo il tanto acclamato Cube con cui raggiunse una certa notorietà internazionale. Distribuito nel corso del 2010 (dopo la prima assoluta, in Spagna, nel 2009), il film si presenta come un thriller in bilico tra fantascienza e horror che, nonostante la presenza di tematiche attuali e inquietanti e un discreto utilizzo di effetti speciali, non riesce a convincere del tutto.
La trama ruota attorno all’attività di Clive ed Elsa, due genetisti al soldo di un’importante multinazionale che lavorano alla sintesi di proteine e altre sostanze biologiche estraendole da creature ibridate. Queste vengono generate artificialmente per mezzo di sofisticate tecniche di manipolazione e innesti genetici, indicate nel film come “splicing” (“to splice”, letteralmente, significa “congiungere”). Nonostante il veto imposto loro dalle alte sfere dell’azienda, galvanizzati dai successi ottenuti in seguito alla creazione di “Ginger” e “Fred” (piccoli esseri informi e raccapriccianti), gli scienziati decidono di spingersi oltre: mescolando tra loro DNA umano e animale, danno vita ad una nuova specie, una creatura simile all’uomo ma al contempo aliena e disturbante, che chiamano Dren. I tratti che la accomunano agli esseri umani sono tali da rendere impossibile considerare Dren un semplice animale, e la sua natura, oltre a suscitare nei due ricercatori comprensibili dubbi etici, inizia a esercitare in loro anche un fascino che, col passare dei giorni, rasenterà il morboso.
I due decideranno infatti di crescere Dren segretamente, tenendola nascosta al mondo, educandola quasi fosse loro figlia. La creatura finirà però col rivelare un’indole estremamente pericolosa, e l’esistenza dei due genetisti, compagni nella vita e professionisti vincolati agli interessi della multinazionale per cui lavorano, ne risulterà drammaticamente stravolta.
Commento
Malgrado l’idea alla base della sceneggiatura, firmata dallo stesso Vincenzo Natali, sia più che discreta e conturbante, il risultato finale è molto meno coinvolgente di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Girato tra Francia e Canada, il film offre uno spettacolo che, in termini di effetti speciali, trucco e ricorso alla computer graphic, si assesta su buoni livelli, ma non riesce a mantenere la necessaria tensione: il regista dà l’impressione di perdere il controllo della vicenda, smarrendo talvolta anche i riferimenti spazio-temporali. In particolar modo, se la prima metà risulta discretamente costruita e tesa, permeata da un alone di mistero e da un carico di aspettativa che va gradualmente crescendo, la seconda risulta invece meno solida, più didascalica e disomogenea, sfociando in un finale tutto concentrato su improvvise aggressioni in stile horror, che impediscono all’opera di portare a compiuta conclusione le riflessioni e i quesiti accarezzati lungo l’intero arco narrativo.
Indubbiamente le tematiche proposte e gli elementi su cui verte il film sono notevoli e variegati, ma il prodotto finale si assesta sulla sola sufficienza, non riuscendo far scattare nello spettatore alcuna reale reazione riguardo le azioni compiute da Clive ed Elsa, quasi limitandosi a fornire della vicenda – e relative implicazioni – un punto di vista distaccato e neutrale. Un effetto appiattente a cui contribuisce la scelta di creare un mondo chiuso attorno alla coppia di genetisti, un’ambientazione e un background ridotti ai minimi termini, senza alcun elemento di stimolo, e senza altri personaggi veri. Eccettuata naturalmente Dren.
Da quest’ultima è in effetti difficile prendere le distanze: nato dalla mescolanza di geni di esseri viventi diversi – rettili, pesci, uccelli, mammiferi – quest’ibrido antropomorfo assume rapidamente le sembianze – si fa per dire – di una giovane donna, una somiglianza acuita dall’atteggiamento assunto da Clive ed Elsa, i quali, in un certo senso, tentano di plasmare la creatura in base alle proprie esigenze piuttosto che alle sue. La genesi di Dren richiama quelle dinamiche creazionistiche narrate all’inizio della Bibbia: esattamente come Adamo ed Eva, ai due scienziati viene conferito il potere di governare la natura, ma allo stesso tempo viene posto dinnanzi un limite da non violare.
Analogamente a Eva, Elsa (impersonata da Sarah Polley) si lascia indurre in tentazione, e supera quel limite: ambiziosa e ossessionata dal proprio lavoro, decide di includere geni umani nel suo esperimento scientifico, i suoi geni. Così facendo, oltrepassa ogni vincolo deontologico e morale, e finisce col trascinare con sé nell’abisso anche il suo Clive/Adamo (un Adrien Brody un po’ sotto tono). Il rapporto madre-figlia che instaura spontaneamente con Dren si rivelerà insano e deviato, tanto quanto quello padre-figlia a cui invece viene obbligato suo malgrado Clive.
Quest’ultimo, inizialmente più distaccato, cerca di mantenere lo spirito razionale e oggettivo caratteristico del suo ruolo di scienziato. A differenza della compagna, egli riconosce nell’aberrazione da loro creata un imperdonabile errore, a cui occorrerebbe porre rimedio, e a lui la sceneggiatura riserva il compito di esternare dubbi e considerazioni etiche: fin dove è lecito spingersi? Deve la scienza imporsi dei limiti? Alti ideali possono giustificare certi esperimenti? E si tratta davvero di ideali o piuttosto di riprovevoli capricci? Chi si farà carico della responsabilità derivante dall’aver dato la vita a un abominio?
Domande più che comprensibili che però Elsa schiva rapidamente, determinata, carismatica, e forte dell’ascendente che esercita sul proprio compagno, come quello di Eva su Adamo. Nello sviluppo di Dren lei vede una sfida da vincere, una conquista imprenditoriale e scientifica da ottenere a tutti i costi e prima degli altri. Dren per lei non rappresenta un errore ma un’occasione di carriera, e poi un’opportunità per essere madre, un modo per affermare il proprio controllo sulle leggi naturali che governano il mondo, o per riscattarsi da un trauma familiare che rimane solo vagamente accennato.
Con il trascorrere del tempo, mentre la chimera cresce e si evolve, il film sposta l’attenzione su aspetti meno biologici e più legati alla sua emotività. In essa si potrebbero scorgere richiami a celebri creature letterarie, come il mostro descritto nel Frankentein di Mary Shelley o gli ibridi frutto di esperimenti genetici che popolano L’isola del dottor Moreau di Herbert George Wells; in realtà, Dren si prefigura come un essere originale: non si tratta di un animale mutato, di un uomo stravolto da folli esperimenti o di un cadavere rianimato, ma è una forma di vita nuova, capace di bruciare le tappe dell’evoluzione e diventare qualcosa che trascende la fisicità dei suoi stessi creatori. Per la sua particolare struttura genetica, la si potrebbe considerare una sorta di evoluzione forzata dalle razza umana, prestando il fianco a considerazioni in materia di eugenetica. Dren è quindi uno specchio che riflette l’immagine dell’uomo futuro, al quale potrebbero venire innestati geni selezionati da altri organismi.
Altrettanto immediate sono le differenze/analogie che proiettano su Dren l’ombra delle precedenti creature “progettate” da Clive ed Elsa, quei Ginger e Fred informi, cresciuti in laboratorio solamente a fini di produzione farmaceutica, meri “oggetti viventi” usa e getta, funzionali alle sole logiche del mercato. Dren dimostrerà in fondo la loro stessa aliena imprevedibilità, nonostante le esigenze e comportamenti più evoluti e gli atteggiamenti da adolescente umana, tra cui il desiderio di amare e di essere amata. Tutto però viene presentato in modo troppo rapido e superficiale, quasi che lo scopo fosse arrivare a proporre originali scene di amplessi non convenzionali più che occasioni di reale approfondimento.
Molto infatti si gioca sul piano dell’attrazione dettata da impulsi meramente fisici, amplificati dal corpo snello e sinuoso di Delphine Chanéac, modella e attrice francese scelta per impersonare Dren da adulta, dotata di una discreta espressività che le permette di risultare credibile sia nelle parti feroci che in quelle innocenti. Una duplicità che poi ricalca se stessa anche nei rapporti quasi “incestuosi” che Dren ha con i suoi genitori adottivi, prima seducendo Clive e poi violentando Elsa.
Purtroppo, a causa della fretta con cui si sviluppano le ultime sequenze del film, più violente e concitate ma decisamente sconclusionate, il finale risulta cupo e glaciale, quasi smorzato e depauperato di ogni profondità. Il fascino di una creatura contemporaneamente aliena e umana, sana e malata – non va sottovalutato l’eco che la testa rasata di Dren può produrre nell’immaginario dello spettatore, che lega inevitabilmente quel tipo di visione a ben note condizioni di sofferenza –, viene di fatto polverizzato, e cede il posto al “mostro” conclamato, all’incubo banale che invece il volto, gli occhi grandi e le forme effeminate di Dren in qualche modo mitigavano e rendevano assai più sottile e angoscioso.
Seppure innegabilmente inquietante nelle sue implicazioni, difficilmente gli spettatori riusciranno quindi a cogliere appieno il significato del finale. Ancora frastornati dal sangue, dalle uccisioni e dalle metamorfosi viste solamente qualche istante prima, che sbilanciano parecchio l’ultima parte della stoia, la scelta conclusiva compiuta da Elsa (e con essa il film) passa troppo velocemente per potersi imprimere in modo davvero significativo.