INTRODUZIONE
Genialità e insoddisfazione: i “Supertoys”, da Stanley Kubrick a Steven Spielberg
Supertoys che durano tutta l’estate è la storia di un bambino che, qualunque cosa faccia, non riesce a soddisfare la madre. È perplesso per questo comportamento, perché non sa di essere un androide, un sofisticato prodotto di intelligenza artificiale, esattamente come il suo unico compagno, il suo orsacchiotto di peluche.
Questa storia ha molto colpito Stanley Kubrick, che avrebbe voluto farne un film; dopo avere passato qualche tempo a convincermi, riuscì ad acquistare da me i diritti cinematografici. Per qualche anno lavorai con lui per una possibile sceneggiatura. Cosa che non sorprenderà nessuno, lo trovai geniale, ma molto esigente.
Dopotutto, la sua indipendenza se l’era conquistata a duro prezzo. Stanley era esigente con se stesso come con tutti gli altri.
Ho visto un esempio di questa indipendenza quando gli alti papaveri della Warner Brothers vollero incontrare Kubrick. Accampando un odio dell’aeroplano, Kubrick riuscì a convincere gli alti papaveri, da cui si aspettava un finanziamento, di viaggiare fino a Londra. Una volta giunti, lo invitarono a raggiungerli al loro hotel. Kubrick disse che era troppo occupato. Perciò i Warner Brothers fecero un ulteriore viaggio fino a St Albans per incontrarlo.
Il trattamento dei suoi collaboratori era contrassegnato dalla stessa caratteristica: geniale ma esigente. Oltre a mantenere la sua indipendenza, doveva alimentare il suo mito di genioeremita, creativo ma eccentrico.
Il mio rapporto con Stanley fu sempre assai amichevole. Io avevo citato i suoi tre film di fantascienza nella mia storia della fantascienza Un miliardo di anni, osservando che Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica ne facevano “il grande scrittore di fantascienza della nostra epoca”. Kubrick aveva letto il libro e aveva apprezzato la mia osservazione.
Un giorno mi telefonò, verso la metà degli anni Settanta. Fu un po’ una sorpresa, per me. Iniziò un lungo monologo, presumibilmente per mettere alla prova i miei poteri d’ascolto. Qualunque cosa fosse, io evidentemente superai l’esame, perché mi invitò a fare colazione con lui. Ci incontrammo nel luglio 1976, in un ristorante di Boreham Wood.
A quell’epoca, Stanley assomigliava a Che Guevara, compresi gli stivali, la giubba mimetica, il berretto, i capelli ricci e il barbone. Parlammo di cinema, di fantascienza e di bevande. Fu una conversazione assolutamente godibile, che durò a lungo.
Il film di Stanley, Barry Lyndon, era apparso l’anno precedente. Anche se la sua fotografia è eccezionalmente bella, la sua freddezza da vetrata di cristalli molati l’aveva un po’ allontanato dal gusto più popolare. Forse Kubrick era incerto su quale doveva essere il suo prossimo film. Il nostro rapporto rimase sempre cordiale; nel corso degli anni ci incontrammo ancora una volta o due a colazione, e ogni volta discutemmo su quale fosse il tipo di film che aveva successo.
Gli raccomandai di trarre un film dal romanzo Noi marziani, di Philip K. Dick, che era apparso negli anni Sessanta. A Stanley non interessava; più tardi dedicai due anni della mia vita a cercare di portare sullo schermo quel romanzo, scrivendone a quattro mani una sceneggiatura col mio agente cinematografico di allora, Frank Hatherley.
Mia moglie Margaret e io raggiungemmo in macchina Castle Kubrick un paio di volte e pranzammo con Stanley e sua moglie, la pittrice Cristiane, le cui luminosissime tele coprivano numerose pareti. Stanley amava gli attori e li ammirava. Riteneva che Peter Sellers fosse un genio. Aveva un gruppo di attori di cui si fidava, come Sterling Hayden, Philip Stone, Norman Rossiter e Sellers.
“Questo brano di dialogo non serve a niente” mi disse una volta. “Taglialo. Un buon attore può trasmettere la stessa considerazione attraverso un’occhiata.”
Durante le riprese del film The Shining, tratto dal romanzo di Stephen King, rimase necessariamente irreperibile. Riemerse di nuovo nell’agosto 1982, con una lettera in cui parlava del nostro precedente incontro, quando “abbiamo passato gran parte del tempo a discutere di Guerre stellari e di come certe storie idiote potrebbero in realtà essere una forma d’arte”. Era stata indubbiamente una discussione interessante, in cui avevamo cercato di elencare gli elementi che potevano assicurare il successo a una favola cinematografica. Questi elementi includevano un ragazzo di umili origini che parte per sconfiggere un male mostruoso, un gruppo assortito di aiutanti, varie sfide da superare, e la vittoria nonostante tutte le opposizioni, vittoria che gli assicura la mano della principessa. Poi eravamo scoppiati a ridere: avevamo descritto Guerre stellari quasi brano per brano.
La lettera di Stanley continuava parlando della mia storia, Supertoys. Dietro sua richiesta, gli avevo mandato due o tre dei miei libri, compresi The Malacia Tapestry e The Moment of Eclipse, una raccolta di miei racconti pubblicata da Faber & Faber, contenente Supertoys che durano tutta l’estate. Stanley diceva nella lettera: “Quella che rimane in me, però, è la persistente convinzione che quel racconto breve è un buon inizio per una storia più lunga, anche se, purtroppo, non ho idee su come possa svilupparsi. Comunque, comincio a pensare che il vecchio subconscio non voglia realmente mettersi al lavoro su qualcosa che non abbia già dentro…”.
La storia era stata originariamente pubblicata su “Harper’s Bazaar” del dicembre 1969, un numero curato in parte dal compianto dottor Chris Evans. Nel 1982 ebbi alcuni grossi problemi di tasse e così, con riluttanza, vendetti a Kubrick la mia storia. Lui comprò la maggior parte dei diritti; ricordo che la frase “in perpetuo” compariva con una notevole frequenza nel contratto. Col senno di poi, vedo che la proprietà della storia non comportava molta differenza per i processi creativi di Stanley. Non riusciva ancora a trarne un film.
Dopo un po’ di andirivieni tra gli agenti, il contratto venne firmato nel novembre 1982, e da allora cominciai a lavorare con lui sulla sceneggiatura.
Ogni giorno un’auto di rappresentanza veniva a prendermi a casa mia, a Board Hill, e mi portava a Castle Kubrick, la tenuta di Stanley, grossa come Blenheim, fuori St Albans. Stanley era rimasto in piedi gran parte della notte, girando nelle sue grandi stanze deserte, piene di apparecchiature. Quando arrivava, dava sempre l’impressione di essersi alzato da pochi minuti. Mi diceva: “Andiamo a prendere un po’ d’aria fresca, Brian”.
Aprivamo una porta che dava sul giardino. Stanley si accendeva una sigaretta, e ci inoltravamo sull’erba, per una distanza pari a circa la lunghezza di un campo da tennis, con Stanley che aspirava una boccata dopo l’altra. “Come aria fresca, è già sufficiente” diceva, e per quella giornata non uscivamo più. Era una sorta di gioco. Anche la nostra amicizia era una sorta di gioco.
A un certo punto inserimmo un nuovo personaggio nella sceneggiatura. Stanley mi chiese: “Brian, che cosa fa la gente che non gira film o non scrive romanzi di fantascienza?”. Era un uomo così intelligente, così dedito al suo lavoro. Purtroppo, la sua impazienza non permetteva alcuna discussione delle idee che, al primo contatto, non gli fossero piaciute.
All’inizio non riuscivo a immaginare come quella storia potesse diventare un lungometraggio. Poi, un mattino, a colazione, all’improvviso lo capii. “L’ho trovato!” dissi a Margaret.
Telefonai a Stanley.
“Vieni da me” mi rispose.
Io ci andai. Gliela dissi.
Non gli piacque.
E lì la questione si chiuse. Non accettava mai a metà una proposta, per poi esaminarla, controllare se non avesse qualche merito. Anche se questo indicava un uomo che sapeva il fatto suo, forse era un approccio che conteneva una sua debolezza intrinseca.
Forse un po’ profeticamente, quando andai a lavorare con lui, Stanley mi regalò una bellissima copia illustrata di Pinocchio. Io non riuscii a vedere, o non volli vedere, il parallelo tra David, il mio androide di cinque anni d’età, e il burattino di legno che diventa umano. Col senno di poi, negli anni seguenti finii per capire che Stanley voleva che David diventasse umano, e voleva anche che avesse una sorta di Fata dai capelli turchini. Probabilmente, all’epoca ero contrario a riscrivere consapevolmente una vecchia favola.
Lavorare con Stanley fu certamente istruttivo. Il guaio era che mi ero goduto la mia indipendenza per trent’anni; non avevo molto desiderio di lavorare con, e soprattutto sotto, qualcuno. Il nostro rapporto era ottimo. Se ci bloccavamo su qualche punto, ci alzavamo e andavamo a salutare Cristiane, che in genere era intenta a dipingere, in una enorme stanza vuota da cui si vedeva il prato kubrickiano. Stanley amava cucinare il pranzo, che di solito era costituito di bistecca e fagiolini.
Io non riuscivo a vedere il mio racconto sotto forma di un lungometraggio, ma Stanley mi rassicurò dicendo che era più facile allargare un racconto breve, invece di ridurre un romanzo per fare un film. Un film conteneva al massimo sessanta scene, mentre un romanzo poteva contenerne centinaia, dato che una sfumava nell’altra senza dover spendere soldi per le scenografie.
Inoltre, mi disse, aveva preso il racconto breve di Clarke, La sentinella, che aveva la stessa lunghezza di Supertoys, e ne aveva fatto un lungometraggio. Potevamo fare lo stesso con la mia storia. Solo più tardi arrivai a vedere l’errore in quel ragionamento: il racconto di Clarke guardava all’esterno del sistema solare, la mia storia guarda all’interno dell’uomo.
Passammo a lavorare sul serio. Ogni giorno annotavo i nostri progressi in una grossa rubrica dalla copertina rossa. La sera, quando tornavo a casa, io e Margaret ne parlavamo davanti a un cocktail. Cenavamo, poi sedevo nel mio studio e prendevo note, in forma di copione, e senza dialogo, come voleva Stanley. Infine gli mandavo le pagine per fax. A quell’epoca il fax era ancora una novità; non avremmo potuto lavorare così in fretta, se non l’avessimo avuto.
Fatto questo, scrivevo nel mio diario privato i fatti e i misfatti del giorno. Ci fu per esempio la settimana in cui pareva che il mondo piombasse nella recessione. Stanley teneva accuratamente d’occhio i mercati finanziari. Un giorno arrivò nella stanza dove lavoravo e mi annunciò, con aria cupa: “Brian, devi vendere tutte le azioni in tuo possesso e comprare lingotti d’oro”. Se l’avessi fatto, il mio unico lingotto d’oro sarebbe stato grosso pressoché come una tavoletta di chewing-gum.
L’indomani, quando tornavamo a lavorare insieme, a volte prendeva tutto il lavoro del giorno precedente e lo rifiutava in blocco. Non c’era da stupirsi che fumasse come una ciminiera e bevesse litri di caffè…
Ma per qualche tempo tutto andò per il meglio. Nell’83 scrissi un episodio di collegamento chiamato Taken Out (Portato fuori). Glielo mandai per fax, nella notte, e lui mi telefonò pieno di entusiasmo: — È davvero brillante. Sono proprio emozionato. Il modo migliore di scrivere fantascienza dev’essere quello di raccontare le cose come se fossero qualcosa di normale, senza parti che debbano essere spiegate.
Io: “In altre parole, trattare il lettore, o lo spettatore, come se anche lui facesse parte del futuro che descrivi”.
Stanley: “Credo di sì; semplicemente, non bisogna immergersi in tutti quei truculenti particolari scientifici”.
Io: “Più spiegazioni dai, meno convincente diventa la storia”.
Stanley: “A quanto vedo, hai due modi di scrivere: brillante e non così maledettamente buono”.
Questa conversazione viene dai miei appunti. Ne ho tre grossi quaderni.
Abbiamo avuto anche i nostri momenti di scarsa creatività. Non riuscii mai a vederlo altrettanto soddisfatto quanto la sera di Taken Out. Anche se spesso scoppiavamo a ridere mentre lavoravamo, non facevamo alcun progresso. Un soggetto dopo l’altro finì per arenarsi.
Stanley non accettava la mia fiducia nella letteratura. Partendo dall’idea che un film può contenere al massimo sessanta scene, diceva che un film ha bisogno di otto “unità inaffondabili”, come le chiamava lui. (Prima di abbandonarle, arrivammo a tre, adattando due delle mie vecchie storie, I millenni sterili: tutte le lacrime del mondo e Blighted Profile, al racconto breve originale.)
Questo metodo delle unità inaffondabili si vede in 2001. Una parte del mistero del film deriva dal contrasto fra le sue diverse parti. Il metodo si vede nella maniera migliore in The Shining. Qui, alcuni cartelli che annunciano concisamente “Un mese più tardi”, o semplicemente “Martedì, ore 16”, avvertono gli spettatori che qualcosa di brutto sta per succedere e che Jack Nicholson si avvicina di un altro passo alla follia.
Stanley amava mantenere il segreto sulle sue attività: non discusse mai con me gli altri film su cui lavorava. The Shining apparve nel 1980 ed è certamente un film orrorifico. Nel più approfondito commento all’opera di Kubrick che sia finora apparso, Kubrick: Inside a Film Artist Maze, di Allen Nelson (1982), l’autore spiega in modo molto convincente quelle che per altri sono semplici incoerenze, e le spiega in base al carattere orrorifico-fantastico del film. Comunque, il film sarebbe stato migliore se avesse tratteggiato meglio il personaggio di Wendy Torrance (interpretato da Shelley Duvall). Secondo me, la signora farfuglia un po’ troppo.
Fu una sorpresa scoprire che Stanley non aveva idee sul film che avrebbe dovuto girare dopo The Shining. Una volta mi chiese che tipo di film poteva realizzare per incassare quanto Guerre stellari, senza rovinare la sua reputazione di possedere una coscienza sociale.
Una volta, al mio arrivo a Castle Kubrick, lo trovai disposto a parlare unicamente di E.T., il film di Spielberg. Forse ammirava il modo in cui gran parte di E.T. era filmata dall’altezza di un metro, a imitazione della vista di un bambino. Anche parte di The Shining è girato con la Steadycam dal punto di vista del giovane Danny Torrance. Stanley amava i film di fantascienza. Insieme vedemmo gran parte del Blade Runner di Ridley Scott in disco laser.
Stanley era convinto che un giorno le intelligenze artificiali avrebbero preso il sopravvento e avrebbero sostituito l’umanità. Gli umani non erano abbastanza stabili, abbastanza intelligenti. Nel corso di uno dei nostri frequenti impasse, discutemmo la possibilità che l’Unione Sovietica crollasse e che l’Occidente mandasse carri armati robot e androidi per salvare il salvabile. Era un evento abbastanza drammatico da muovere la nostra immaginazione. Eravamo nel 1982. Pensavamo che in URSS ci potesse essere un collasso economico. Ma come poteva sopraggiungere? Quali potevano essere le circostanze?
Dopo un giorno o due lasciammo perdere l’idea. Ma immaginate se avessimo esaminato la questione in modo approfondito, e se fossimo riusciti a presentare i veri eventi del 1989, a solo sette anni nel futuro. Immaginate se avessimo creato una figura presidenziale come Gorbacev, avessimo mostrato che l’Ungheria apriva le porte ai tedeschi dell’Est per entrare in Occidente. La distruzione del muro di Berlino, i governi comunisti che abdicavano, l’arresto dei dittatori, la fine della guerra fredda: il più grande avvenimento che fosse mai successo in un sol giorno ai popoli europei. In effetti qualcosa di unico nella storia del mondo.
E se noi l’avessimo messo tutto sullo schermo nel 1982? Nessuno ne avrebbe creduto una parola. Anche la fantascienza è l’arte del plausibile. Questa, potrebbero dire i suoi critici, è la debolezza della fantascienza: è la vita reale a praticare l’arte dell’incredibile, come alla fine degli anni Ottanta, e come continua a fare con l’affermazione dell’Unione Europea.
Gli anni si trascinavano e noi non approdavamo a niente. Stanley diventava sempre più impaziente e la Fata dai Capelli Turchini continuava a risorgere. Avevo l’impressione di venire inghiottito pur continuando a rimanere vivo.
Stanley sentiva che uno dei grossi problemi del film era David, il bambino androide. Poteva essere presentato con un costume indossato da un attore, ma il perfezionismo di Stanley gli suggeriva di costruire un vero androide. Esaminammo nei dettagli la possibilità. Il primo ostacolo tecnologico da superare consisteva nel farlo camminare in modo da assomigliare a un bambino piccolo: girarsi, sedersi, alzarsi e così via.
Da allora la tecnologia cinematografica è progredita. Oggi la simulazione al computer permetterebbe di farlo.
Nel 1987 venne distribuito Full Metal Jacket. Quest’ultima ripresa della guerra del Vietnam ebbe un enorme successo in Giappone e altrove, ma meno in America e in Inghilterra. Con l’aiuto di trentasei alberi di palma importati dalla Spagna, Kubrick creò il Vietnam nelle rovine di un vecchio edificio dell’East End londinese (prima che vi fosse costruito il Canary Wharf). “È quasi impossibile ricostruire rovine plausibili” spiegò Stanley. “E i tramonti invernali dell’Inghilterra assomigliano a quelli del Vietnam.”
Gli attori a torso nudo vennero filmati col freddo dell’inverno, e appena fuori del campo di ripresa c’erano apparecchi che soffiavano aria calda perché non si vedesse la pelle d’oca. Ah, la magia del cinematografo!
Nel 1990 sorsero le prime difficoltà. Agenti e avvocati si scambiavano lettere. Io e Stanley avevamo inondato New York, ma solo per veder affiorare la Fata dai Capelli Turchini. Io cercai di convincere Stanley a creare un nuovo mito moderno che rivaleggiasse con Stranamore e 2001, e di lasciar perdere le favole.
Fu un’assurdità da parte mia. Venni estromesso dal film.
Non mi disse mai addio né pronunciò una parola di ringraziamento che non sentiva. Invece, si accese un’altra sigaretta e mi voltò la schiena. E Supertoys venne ribattezzato Intelligenza artificiale, destinato a non essere mai girato da lui.
Stanley era un genio sotto due aspetti. Oltre ai suoi film, con la loro grande varietà, aveva la dote di riuscire a tenere il mondo all’esterno della sua creatività, e di coltivare la propria leggenda di eremita. Come se si aspettasse di avere poco tempo.
I geni non si preoccupano della normale buona educazione. Hanno altre cose per la mente, perciò non bisogna prendersela quando ci si imbatte in qualche loro aspetto negativo. E neppure Arthur C. Clarke, compagno di Stanley in 2001, riuscì a prendere il mio racconto e a farne un film. In questo si dovrebbe poter vedere una lezione per tutti noi, anche se confesso di non saper dire quale.
Fu un sollievo tornare alla mia autonomia. Per qualche anno ero stato solo uno dei tentacoli di Kubrick, che ne aveva moltissimi. Una volta esaminammo la possibilità di usare un vero bambino androide. Sarebbe stato il primo del suo genere. Secondo Stanley, gli americani vedevano i robot solo come minaccia. Erano i giapponesi ad amarli davvero, e perciò era più facile trovare laggiù i maghi dell’elettronica capaci di costruire i primi androidi genuini.
Chiamò Tony Frewin, il suo fedele braccio destro.
“Chiamami la Mitsubishi.” (Diciamo che era la Mitsubishi, dato che mi sono scordato che compagnia fosse realmente.)
“Con chi vuoi parlare alla Mitsubishi, Stanley?”
“Fatti passare il signor Mitsubishi.”
Poco dopo, squillò il telefono. Stanley sollevò la cornetta.
Dall’altro capo della comunicazione, una voce chiese: “Oh, il signor Stanley Kubrick? Sono il signor Mitsubishi. Come posso aiutarla?”.
Su questo pianeta, tutti conoscevano il nome di Stanley Kubrick. C’è quindi da aspettarsi che un simile uomo sia diverso da noialtri.
Allora, perché non è stato girato il film Supertoys? Le persone che vennero dopo di me e cercarono inutilmente di far funzionare la storia erano costrette a viaggiare lungo le linee stabilite da Stanley Kubrick.
La mia convinzione è che avesse commesso un errore fondamentale. Ossessionato dai grossi calibri della fantascienza cinematografica di quegli anni, voleva portare nella Galassia la mia commovente scenetta domestica. Dopotutto, aveva fatto così, e con grande successo, nel caso della storia di Clarke.
Ma La sentinella guarda all’esterno fin dall’inizio. Parla di un mistero nascosto altrove, mentre Supertoys parla di un mistero dentro il protagonista. David soffre perché non sa di essere una macchina. Questo è il vero dramma, e, come disse Mary Shelley del suo Frankenstein, “parla ai misteriosi timori della nostra natura”.
Una possibilità era quella di mostrare David che affronta la sua vera natura. La comprensione di essere una macchina giunge a lui come uno shock. Comincia a funzionare male. Magari il padre lo porta in una fabbrica dove mille androidi uguali a lui escono dalla catena di montaggio. E allora, si autodistrugge? Il pubblico dovrebbe sperimentare a questo punto un teso, inquietante dramma della claustrofobia, per poi rimanere con la domanda finale: “Ha importanza che David sia una macchina? E a chi importa? E fino a che punto anche noi siamo macchine?”
Dietro questi enigmi metafisici rimase la semplice storia che è piaciuta a Stanley Kubrick: la storia di un bambino che non riusciva ad accontentare la madre. Una storia di amore rifiutato.
Stanley Kubrick morì nel 1999. Le abitudini dell’uomo del mistero richiamarono l’attenzione di tutti i giornalisti. Io finii per stancarmi di dare interviste alla TV. Avevo un romanzo da scrivere. Mi capitò di rileggere la mia storia dei Supertoys. E poi mi scoprii a raccontarmene mentalmente il seguito. Trent’anni dopo la prima puntata, scrissi una seconda storia in cui proseguivano le avventure di David e di Teddy.
Poi venne a trovarmi una persona. Un visitatore molto simpatico, Jan Harlan, cognato di Stanley e suo socio. Jan voleva che apparissi in un suo documentario sulla vita di Kubrick. Alla fine del pomeriggio gli diedi la nuova storia, I Supertoys quando arriva l’inverno.
Jan mandò la storia a Steven Spielberg, che pareva avere ereditato le opere incomplete di Kubrick.
Intanto io avevo scritto a Spielberg. In una lettera gli suggerivo che David poteva incontrare un altro migliaio di copie identiche a lui.
A Spielberg piacque l’idea, e Jan si offerse di comprare la frase in cui era contenuta. Naturalmente, è affascinante e divertente l’idea di vendere una frase, una sola frase. Ma a quel punto avevo ormai capito come doveva finire il ciclo di David, e avevo scritto una terza storia. Le tre storie contenevano l’intero soggetto che occorreva per un film. Non comprendeva né l’inondazione della città di New York, né la Fata dai Capelli Turchini. Solo un intenso e forte dramma del potere e dell’intelligenza.
La storia I Supertoys in un’altra stagione venne mandata da Jan a Spielberg. In essa è contenuta la frase magica.
Con un accordo amichevole con la Warner Brothers, Spielberg ha ora acquistato tutti i racconti di Supertoys.
Felice di essere l’unica persona ad aver venduto proprie storie a due maestri del cinema come Kubrick e Spielberg, sono sicuro che Spielberg abbia girato A.I. secondo gli intendimenti di Kubrick.
Le riprese sono cominciate a Long Island nel giugno 2000, mentre il film uscirà il 27 giugno negli Stati Uniti.
Anteprima Testo
Nel giardino della signora Swinton era sempre estate. I delicati alberi di mandorlo che gli facevano ombra erano sempre in fiore. Monica Swinton staccò una rosa color dello zafferano e la mostrò a David.
— Non è incantevole? — gli chiese.
David la guardò e sorrise senza rispondere. Afferrò il fiore e corse lungo il prato, per scomparire dietro il canile, dove era in attesa il tosaerba-coltivatore, pronto a potare, spazzare e accorrere dove era necessario. La signora Swinton rimase sola sull’impeccabile sentiero coperto di ghiaia di plastica.
“Eppure, ho sempre cercato di volergli bene” pensò.
Quando si decise a seguire il bambino, lo trovò in cortile, intento a spingere la rosa sull’acqua della piscina, come se fosse una barca. Era rosso in faccia, stava in mezzo all’acqua, e non s’era tolto i sandali.
— David, caro, devi sempre essere così insopportabile? Vieni subito dentro a cambiarti le calze e le scarpe.
Il bambino la seguì fino in casa, senza protestare, con i capelli neri che sobbalzavano all’altezza del suo fianco. A tre anni d’età, non aveva più paura dell’asciugatore ultrasonico in cucina. Ma prima che la madre potesse portargli un paio di pantofole, si divincolò e sparì nel silenzio della casa.
Probabilmente era andato a cercare Teddy.
Monica Swinton, ventinovenne, figura aggraziata e occhi tristi, andò a sedere in soggiorno, accomodando con eleganza le gambe. All’inizio sedeva e pensava, presto si limitò a sedere. Il tempo era in agguato alle sue spalle con il sorriso maniaco che riservava ai bambini, ai pazzi e alle mogli i cui mariti sono fuori, a cambiare il mondo in meglio.
Quasi per riflesso, allungò la mano e cambiò la lunghezza d’onda della finestra. Il giardino svanì; al suo posto comparve un pezzo del mondo esterno, pieno di gente che l’affollava, di cartelloni e edifici, ma lei tenne il rumore al minimo. Era sola come prima. Un mondo sovraffollato è il posto ideale per essere soli.
I direttori della Synthank consumavano una pantagruelica colazione per festeggiare il varo del loro nuovo prodotto. Alcuni di loro portavano sulla faccia le maschere di plastica popolari in quel momento. Tutti erano elegantemente sottili, nonostante il ricco cibo e le bevande che ingurgitavano. Anche le loro mogli erano elegantemente sottili, nonostante il cibo e le bevande che consumavano. Una generazione più vecchia e meno sofisticata li avrebbe etichettati come i VIP, a parte gli occhi. Occhi freddi, calcolatori.
Henry Swinton, direttore generale della Synthank, si guardò attorno prima di iniziare il discorso.
— Mi dispiace che tua moglie non sia con noi ad ascoltarti — disse il suo vicino.
— Monica preferisce stare a casa, a pensare alle cose belle — rispose Swinton, senza perdere il sorriso.
— Una così bella donna non può che pensare alle cose belle — continuò il vicino.
“Togliti dalla testa mia moglie, porco” pensò Swinton, anche ora senza smettere di sorridere.
Si alzò tra gli applausi, per tenere il discorso.
Dopo un paio di battute scherzose, venne alla parte importante: — La giornata di oggi segna un vero passo in avanti per la compagnia. Sono passati quasi dieci anni da quando abbiamo messo sul mercato mondiale le nostre forme di vita sintetiche. Tutti sapete che sono state un enorme successo, soprattutto i dinosauri in miniatura. Ma nessuna di esse era intelligente.
Continuò: — È paradossale che oggigiorno possiamo creare la vita ma non l’intelligenza. Il nostro primo prodotto, il Solitario di Cresswell, è quello che vende di più, ed è anche il più stupido.
Tutti risero.
— Anche se i tre quarti del nostro mondo sovraffollato soffrono la fame, noi qui abbiamo la fortuna di avere a disposizione più del necessario, grazie al controllo della popolazione. Il nostro problema è oggi l’obesità, non la denutrizione. Penso che a questo tavolo non ci sia nessuno che non abbia il suo Solitario che lavora per lui nell’intestino tenue, un parassita perfettamente sicuro che permette al portatore di mangiare fino al doppio senza dover rinunciare alla propria figura. Vero?
Tutti mossero la testa in segno affermativo.
— I nostri dinosauri in miniatura sono quasi altrettanto stupidi. Ma oggi lanciamo una forma di vita sintetica intelligente: un cameriere formato naturale. Non solo possiede l’intelligenza, ma ne possiede una quantità controllata. Pensiamo che la gente avrebbe paura di una creatura con un cervello umano. Il nostro servitore ha un piccolo computer nel cranio.
Continuò: — Nel mercato ci sono già meccanismi con mini computer per cervello, cose di plastica senza vita, Supertoys, superbalocchi, ma finalmente abbiamo trovato il modo di collegare i circuiti del computer con la carne sintetica.
David sedeva accanto alla lunga finestra della stanza dei bambini, e lottava con carta e penna. Alla fine terminò di scrivere e cominciò a far rotolare la penna lungo lo scrittoio inclinato.
— Teddy! — esclamò.
L’orsacchiotto era sul letto accanto alla parete, sotto un libro con le figure mobili e un grosso soldatino di plastica. La voce del padrone lo attivò, e l’orsacchiotto si levò a sedere.
— Teddy, non riesco a pensare quello che devo scrivere!
L’orso scese dal letto, camminò rigidamente fino a lui e gli abbracciò la gamba. David lo prese e lo mise a sedere sullo scrittoio.
— Che cosa hai detto, finora?
— Ho detto… — Sollevò la lettera e la fissò con grande attenzione. — Ho detto: “Cara Mamma, spero che adesso tu stai bene. Ti voglio bene…”.
Scese il silenzio, e infine l’orso disse: — Mi sembra che vada bene. Va’ sotto a dargliela.
Scese di nuovo il silenzio.
— Non va bene. Lei non capirà.
All’interno dell’orso, un piccolo computer esaminò il programma delle possibili risposte. — Perché non lo riscrivi con i colori?
David era andato a fissare fuori della finestra. — Teddy, sai cosa mi chiedevo? Come puoi distinguere le cose vere da quelle che non lo sono?
L’orso esaminò le alternative. Infine disse: — Le cose vere sono buone.
— Mi chiedo se il tempo è buono. Non credo che mamma gli voglia bene. L’altro giorno, un mucchio di giorni fa, ha detto che il tempo se la lasciava alle spalle. Il tempo è vero, Teddy?
— Il tempo lo misurano gli orologi. Gli orologi sono veri. La mamma ne ha, perciò deve volergli bene. Ha anche un orologio al polso, insieme al telefono.
David aveva cominciato a disegnare un Jumbo jet sul fondo della lettera. — Tu e io siamo veri, Teddy, giusto?
L’orsacchiotto di peluche lo guardò senza battere ciglio.
— Tu e io siamo veri, David — asserì. Era specializzato in consolazioni…
Tit. originale: Supertoys Last All Summer Long and Other Stories of Future Time
Anno: 2001
Autore: Brian W. Aldiss
Edizione: Mondadori (anno 2015 ebook) collana “Urania” #1615
Traduzione: Riccardo Valla
ISBN-13: 9788852045943
Dalla copertina. David ha dodici anni, pesa trenta chili, è alto un metro e mezzo. E comincia a farsi domande importanti: per chi lavora suo padre? A cosa servono i suoi giocattoli? E, soprattutto, cosa vogliono fare di lui? “Urania” ripresenta il racconto che è servito da spunto per l’ambizioso progetto cinematografico di Stanley Kubrick realizzato da Steven Spielberg nel 2001: A.I. Intelligenza artificiale, titolo con il quale era uscita anche la precedente edizione del presente volume (n. 1415). Insieme a Supertoys Last All Summer Long vengono tradotti i due episodi che Brian W. Aldiss ha voluto apporvi come seguito e che, insieme ad altri sedici racconti, formano un vero e proprio romanzo sull’intelligenza nel futuro, ovvero la sorte di un mondo…