Talento e Disciplina
Riguardo ai corsi di scrittura creativa, voglio aprire il primo articolo di questa rubrica riportando l’opinione di Vladimir Nabokov (autore di Lolita) in Lezioni di letteratura (opera postuma in cui vengono raccolti saggi su scrittori europei del 1800 e 1900).
“[…] Uno scrittore privo di talento non può evolvere uno stile letterario di qualche merito. […] Non credo che si possa insegnare a scrivere a chi già non possiede talento letterario. Solo in quest’ultimo caso un giovane autore può essere aiutato a trovare se stesso, a liberare il proprio linguaggio dai cliché, a eliminare le goffaggini, ad abituarsi a cercare con risoluta pazienza la parola giusta, la sola che potrà trasmettere con la massima precisione l’esatta sfumatura e intensità del suo pensiero.”
Raymond Carver ne Il mestiere di scrivere, dice così: “Nessun insegnante, nessuna mole di studi, può trasformare in scrittore qualcuno che è costituzionalmente inadatto a fare lo scrittore.”
Si nasce, insomma, con un talento. Nella sua Introduzione alle opere di Guy de Maupassant Lev Tolstoj scrisse che il talento è “la capacità di prestare un’attenzione intensa e concentrata sull’argomento […] il dono di vedere quello che gli altri non vedono”. Aggiungo che a mio avviso il talento non è ancora sufficiente. Come in tutte le arti, ci vogliono passione, impegno, disciplina e determinazione. La capacità di raccontare bene una storia non è cosa da poco.
La maggior parte delle volte si comincia a scrivere per gioco, poi diventa una mania. Chi ha l’inchiostro al posto del sangue non riuscirà più a fermarsi. Cercherà di rendere sempre più espressivo il testo per trasmettere nel modo più efficace possibile ciò che la mente vede. Quello sarà il momento in cui si porrà delle domande e andrà in cerca del confronto.
Spulciando tra i testi a disposizione nelle librerie, notiamo che molti autori hanno voluto tramandare la propria esperienza. Per esempio Primo Levi ne L’altrui mestiere scrive così:
“Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all’inizio e alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché, dunque, si scrive?…”
Lo scrittore elenca nove punti ben argomentati che consiglio caldamente di andare a leggere. Non perché contengano delle verità assolute, ma perché condensano in poche parole ciò che Levi vuole trasmettere della propria esperienza nella misura sopra enunciata da Nabokov.
Sotto un certo punto di vista, tutti siamo ‘autori’. Tutti abbiamo qualcosa da raccontare. Normalmente utilizziamo il parlato, comunichiamo fatti e sentimenti al nostro prossimo, scegliendo cosa raccontare a chi e come. Sussiste anche un ‘non detto’ che possiamo serbare nella mente o confidare a un diario. In pratica filtriamo la nostra storia e selezioniamo le scene considerando l’interesse che abbiamo in comune col nostro interlocutore. Infine le raccontiamo a seconda dell’effetto che intendiamo ottenere, tenendo conto anche del destinatario (amico, conoscente, folla, uomo o donna, vecchio o bambino).
Sto naturalmente alludendo al modo in cui ciascuno di noi si propone alla società nel corso di normalissime relazioni umane. Ma i meccanismi che animano la parola scritta, sono gli stessi.
Due scienziati americani, John Hayes e Linda Flower, esperti in psicologia cognitiva, negli anni Ottanta hanno compiuto degli studi sui processi della scrittura, giungendo all’elaborazione di un grafico.
Le fasi della scrittura qui rappresentate, sono state elaborate con un metodo semplice ma efficace.
Alla consegna di un compito di scrittura – di solito dire la propria su argomenti del tipo “Ragazzi e ragazze devono partecipare assieme a gare sportive?” – chiedevano agli scrittori di svolgere il compito “pensando ad alta voce” e dicendo esattamente tutto quanto passava loro per la testa […] Dopo aver esaminato un folto numero di protocolli del genere, Hayes e Flower hanno generalizzato le risposte individuando alcune fasi comuni a tutti nel pensare e scrivere un testo. (Dario Corno in Scrivere e comunicare)
Analizzando l’esito della ricerca dei due scienziati, possiamo riconoscere tre dei cinque punti della retorica classica (che trattava però dell’orazione o discorso), e cioè: inventio, ossia la ricerca e la raccolta degli argomenti su cui basare il proprio testo; dispositio, la disposizione degli argomenti, secondo un certo ordine e un’opportuna reciproca proporzione; elocutio, la scelta delle parole e degli artifici retorici che possano valorizzare al meglio gli argomenti trovati nella fase dell’inventio e organizzati nella fase di dispositio.
Il grafico sopra proposto non pone l’accento su altre questioni fondamentali, come ad esempio l’importanza della generazione delle idee, l’incidenza della cultura personale e della sensibilità dell’autore, e dice poco su come lo scrittore inesperto affronti i problemi legati alla stesura. Pur con i suoi limiti, tale studio ha avuto il merito di porre con forza l’accento non sul testo finito, ma su ciò che precede la stesura.
Partiamo da quella che gli antichi chiamavano inventio, riportando un capoverso della definizione data dalla Treccani.
Inventio. La prima delle cinque parti in cui la retorica divide tradizionalmente il discorso. È il reperimento delle idee, degli argomenti, veri o verosimili, utili ai fini del discorso stesso.
Possiamo anche determinarla come il momento in cui si opera l’invenire quid dicam. In parole povere, dobbiamo cercare in noi stessi qualcosa da raccontare. Chiedo ancora il supporto di Carver, che dice:
“Ogni grande scrittore e anche semplicemente ogni bravo scrittore ricrea il mondo secondo le proprie specificazioni. […] Perciò gli scrittori non dovrebbero sforzarsi di imitare il modo di guardare le cose di qualcun altro. Non funzionerebbe.”
Ecco spiegato il motivo per cui ho insistito sulla parola inventio. Lasciandola in latino ho reso meglio l’idea del primo compito di un autore. Cercare, trovare, inventare. L’autore esprime se stesso, trasmettendo qualcosa di unico.
Leggendo alcuni lavori di esordienti (ma anche di emergenti), mi sono spesso imbattuta in emulazioni di autori contemporanei al limite del plagio. Alle mie osservazioni fatte privatamente in merito, mi sono sentita rispondere che erano ‘omaggi’ alla celebrità del giorno. Credo di interpretare il pensiero di molti dicendo che l’unico omaggio gradito da un autore brillante è quello di fargli sapere che i suoi scritti sono apprezzati. Capita a volte di trovare, in un romanzo o in un racconto, l’inserimento di una frase significativa che riporta all’autore preferito, ma tutto il resto del contenitore è originale, non una smaccata imitazione. Diventare la brutta (se non pessima) copia di un autore famoso, non giova alla letteratura. E sicuramente non porta alcun beneficio di crescita personale a chi si presta ad essere la copia vivente di qualcuno. Personalmente ritengo che uno scrittore in grado di dare un’espressione artistica originale alle sue opere, con la giusta dose di fortuna (ahimè, ci vuole anche quella), è destinato alla grandezza.
Per quanto semplice, l’inventio non deve essere mai banale. Una volta un professore universitario mi disse “meglio uno scritto banale ma corretto che un’intuizione geniale scritta male”. Non sono d’accordo, nel senso che lo stile si può migliorare mentre la banalità rimane tale.
Chiarisco meglio il concetto. L’ispirazione può nascere da sogni stravaganti, dall’osservazione della natura, da una notizia alla televisione, dal titolo di un giornale o rivista, da una foto, da un fatto cui si è assistito, da un’emozione personale. A questo punto si mette in moto la creatività e prende forma il progetto che per essere portato a temine necessita della giusta competenza nello scrivere, altrimenti il progetto fallisce. L’autore inesperto può imparare a scrivere correttamente studiando le regole grammaticali e sintattiche. Con l’aumento della competenza, la creatività trova spazi più ampi e quindi matura.
La banalità invece, se portata avanti, conduce alla disfatta (o almeno così dovrebbe essere).
Ispirazione e creatività sono strettamente soggettive, dipendono dallo sviluppo della personalità, dagli interessi coltivati e dallo spazio che si è disposti a investire nei progetti. Tuttavia è importante sottolineare che senza un’adeguata competenza non si va da nessuna parte.
Mi preme porre l’accento su altre due cose importanti: portare a termine ciò che è stato iniziato e accettare le critiche costruttive usandole per migliorare.
Il mondo è pieno di romanzi incompiuti, ecco perché in apertura dell’articolo ho dichiarato che il talento da solo non basta. La determinazione gioca un ruolo molto importante unitamente a passione, impegno e disciplina. A queste caratteristiche, aggiungo ora l’umiltà. Che non significa sentirsi meno degli altri, anzi. Raggiungere la consapevolezza oggettiva del proprio valore è fondamentale. A quel punto l’impulso più forte sarà quello teso al miglioramento continuo. Nessuno è mai veramente ‘arrivato’. Sarebbe come decretare la fine di un viaggio in vista di nuovi orizzonti.