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Parte Prima – Osservare. Socializzare. Integrarsi.
1. Ember
«Ember, quando sono morti i tuoi genitori? E in che modo?»
Soffocai un borbottio e staccai lo sguardo dal finestrino, mentre la vivace e assolata cittadina di Crescent Beach brillava oltre il vetro fumé. L’aria nella berlina nera era fredda e stantia e, cosa irritante, l’autista aveva attivato il blocco di sicurezza per i bambini, quindi non potevo abbassare il finestrino. Eravamo chiusi in macchina da ore ed ero ansiosa di trovarmi alla luce del sole, fuori da quella prigione ambulante. Al di là del vetro la strada era fiancheggiata dalle palme e lungo il marciapiede si alternavano graziose villette e malconci chioschi grigi che offrivano cibo, magliette, cera per tavole da surf e altro. Subito dopo il manto stradale, oltre una striscia di sabbia bianca scintillante, l’oceano Pacifico risplendeva come un enorme turchese, allettandomi con le sue onde spumose e la miriade di bagnanti che sguazzavano nelle sue acque lucenti.
«Ember? Mi hai sentito? Rispondi, per favore.»
Sospirai e appoggiai la schiena alla pelle fredda del sedile. «Joseph e Kate Hill sono rimasti uccisi in un incidente d’auto quando noi avevamo sette anni» recitai a pappagallo, e notai gli occhi impassibili dell’autista che mi fissavano dallo specchietto retrovisore. Accanto a lui, il signor Ramsey annuiva soddisfatto con la sua testa scura.
«Continua.»
Mi dimenai sotto la cintura di sicurezza. «Erano andati a vedere un musical a Broadway, West Side Story» ripresi «e sono stati travolti da un ubriaco al volante mentre tornavano a casa. Io e mio fratello siamo andati a vivere con i nostri nonni, finché a nonno Bill non è venuto il cancro ai polmoni e non si è più potuto occupare di noi. Così ci siamo trasferiti qui con gli zii.» Sbirciai di nuovo smaniosa fuori dal finestrino e vidi due umani scivolare sulle onde con le tavole da surf. La mia curiosità salì alle stelle. Non avevo mai fatto surf in vita mia, impossibile nel polveroso angolino di deserto da cui provenivo. Sembrava divertente quasi quanto volare, anche se dubitavo che al mondo esistesse qualcosa di paragonabile al librarsi fra le correnti d’aria con il vento che ti sferzava la faccia e le ali. Chissà come avrei fatto a superare l’estate da comune mortale. Mentre l’auto procedeva spedita e i surfisti scomparivano dalla mia vista, pensai che gli umani erano fortunati. Non avevano idea di cosa si perdevano.
«Bene» borbottò il signor Ramsey in tono distratto. Di sicuro stava dando un’occhiata ai nostri dossier e ai nostri profili sul suo onnipresente tablet. «Dante, qual è il vostro vero obiettivo qui a Crescent Beach?»
Il mio gemello si tolse gli auricolari con calma e premette il tasto Pausa dell’iPhone. Aveva la straordinaria capacità di estraniarsi del tutto quando ascoltava la musica o guardava la televisione ma di sapere sempre esattamente cosa succedeva intorno a lui. Io non
possedevo quel talento. I professori dovevano prendermi a scapaccioni per richiamare la mia attenzione se nei paraggi c’era qualcosa che poteva anche vagamente distrarmi. «Osservare e socializzare» rispose con la solita voce fredda e pacata. «Imparare a relazionarci con gli umani, a essere umani. Integrarci nel loro tessuto sociale e convincerli che siamo come loro.»
Alzai gli occhi al cielo. Lui incrociò il mio sguardo e fece spallucce. Io e Dante non eravamo realmente gemelli, non nel vero senso della parola. Certo, avevamo la stessa età. Ci assomigliavamo anche molto; avevamo entrambi gli occhi verdi e i capelli di un rosso assurdo. E, da che avevo memoria, eravamo sempre stati insieme. Ma non venivamo dallo stesso utero. In realtà non venivamo affatto da un utero. Io e Dante appartenevamo alla stessa covata, il che era comunque insolito dal momento che la nostra specie di norma non depositava più di un uovo alla volta. Questo ci rendeva strani, persino fra i nostri simili. Ma io e Dante eravamo venuti al mondo insieme ed eravamo stati allevati insieme, per tutti lui era il mio fratello gemello e il mio unico amico.
«Mmm.» Soddisfatto che non avessimo dimenticato la versione dei fatti concordata, così impressa nella mia mente che avrei potuto recitarla anche nel sonno, il signor Ramsey riprese a consultare il suo tablet e io tornai a guardare fuori dal finestrino.
L’oceano si allontanò, l’orizzonte scintillante sparì dalla vista quando lasciammo la via principale ed entrammo in un complesso residenziale con le strade fiancheggiate da imponenti ville bianche e rosa, circondate da prati curatissimi e palme. Alcune erano davvero enormi, e mi lasciarono a bocca aperta. Non avevo mai visto case tanto grandi se non in televisione o nei documentari che gli insegnanti ci avevano mostrato anni prima, quando avevamo iniziato a studiare gli esseri umani. Dove vivevano, cosa facevano, come si comportavano, com’erano composte le loro famiglie e che lingua parlavano… avevamo studiato tutto.
Ora saremmo vissuti in mezzo a loro.
Mi esaltai e divenni sempre più insofferente. Volevo uscire. Volevo toccare, sentire e vedere le cose che si trovavano al di là del vetro, per sperimentarle finalmente di persona. Fino a quel momento, il mio mondo era stato prima una grande struttura sotterranea, di cui avevo visto sempre solo l’interno, e poi una scuola privata nel cuore del Gran Bacino, circondata per chilometri dal deserto, dove potevo contare unicamente sulla compagnia di mio fratello e dei miei insegnanti. Quella scuola era sicura, protetta, lontana dagli occhi indiscreti degli umani… e forse il posto più noioso del pianeta. Ricominciai a dimenarmi e urtai per sbaglio lo schienale del sedile anteriore.
«Ember» disse il signor Ramsey con una punta di irritazione nella voce, «stai ferma.»
Mi rimisi composta e incrociai le braccia con lo sguardo torvo. Stai ferma, stai calma, stai zitta. Le frasi che, in vita mia, avevo sentito pronunciare più spesso. Non ero mai stata capace di restare
ferma in un posto per molto tempo, nonostante i miei insegnanti avessero provato in tutti i modi a instillarmi “un po’ di pazienza”. La pazienza, mi aveva detto più di una volta quel palloso del professor Smith, è una virtù che si addice particolarmente alla tua specie. I progetti migliori non vengono mai concepiti in un giorno. Puoi concederti il lusso del tempo… tempo per riflettere, per progettare, per calcolare e per vedere le cose andare a buon fine. Talon sopravvive da secoli, e continuerà a sopravvivere, perché conosce il valore della pazienza. Come mai tu hai questa fretta tremenda, piccoletta?
Alzai gli occhi al cielo. La “fretta tremenda” era dovuta al fatto che raramente avevo del tempo che fosse davvero mio. Loro volevano che stessi seduta, ascoltassi, imparassi, tacessi quando invece volevo solo correre, gridare, saltare, volare. Nella mia vita esistevano solo regole: non fare questo, non fare quello, arriva a quest’ora, segui le istruzioni alla lettera. E con il passare degli anni le cose erano andate sempre peggio, ogni minimo dettaglio della mia vita era regolato e stabilito da altri, tanto che ero sul punto di esplodere. A non farmi uscire di testa era stata solo la smania di arrivare al mio sedicesimo compleanno. Quel giorno, se fossi stata giudicata pronta, sarei stata “promossa” e congedata da quel buco dimenticato da tutti e avrei cominciato la fase successiva dell’addestramento. Ce l’avevo messa tutta per risultare pronta e dovevo esserci riuscita, visto che eravamo lì. Osservare, socializzare e integrarsi, quella era la nostra missione ufficiale, ma a me interessava solo essere fuori da quella scuola e lontana da Talon. Avrei finalmente visto il mondo che avevo studiato per tutta la vita.
La berlina imboccò una stradina a fondo cieco piena di ville, più piccole ma non meno eleganti, e si fermò davanti a un vialetto d’accesso situato proprio al centro. Sbirciai dal finestrino e sogghignai, entusiasta di quella che per un periodo di tempo imprecisato sarebbe stata la mia casa.
L’edificio sorgeva al di là di un minuscolo prato con l’erba rasata, qualche arbusto e una sola palma racchiusa in un’aiuola di mattoni. I muri erano di un allegro giallo burro, il tetto di tegole era rosso cupo. L’ultimo piano aveva enormi finestre che catturavano la luce pomeridiana e la porta d’ingresso era sovrastata da un arco, come l’entrata di un castello, pensai. Ma la cosa più bella era che, nello spazio tra quella casa e la villa adiacente, si riusciva a scorgere il luccichio argenteo dell’acqua, e il cuore mi balzò in gola al pensiero di avere l’oceano proprio lì nel cortile sul retro.
Non desideravo altro che spalancare la portiera, saltare giù e schizzare sulle dune di sabbia fino al mare, che mi aspettava in lontananza. Ma il signor Ramsey, il nostro accompagnatore ufficiale per quel giorno, si voltò a guardare me e mio fratello, soprattutto me, come se sapesse cosa mi passava per la testa. «Aspettate qui» ordinò, allargando le grosse narici. «Vado a informare i vostri tutori che…
Tit. originale: Talon
Anno: 2014
Autore: Julie Kagawa
Ciclo: Talon #1
Edizione: Harlequin Mondadori (anno 2015 )
Traduttore: Roberta Maresca
ISBN-13: 9788869050503
Dalla copertina | Ci fu un tempo in cui i draghi furono cacciati fino quasi all’estinzione dai cavalieri dell’Ordine di San Giorgio. Da allora, nascosti sotto sembianze umane, i draghi di Talon sopravvissuti al massacro si sono moltiplicati e hanno acquisito maggiore forza e astuzia nel corso dei secoli: non manca molto a quando saranno pronti a diventare i padroni del mondo, senza che gli esseri umani nemmeno se lo immaginino. Ember e Dante Hill sono gli unici esemplari di draghi fratello e sorella, addestrati per infiltrarsi nella società degli uomini. Ember non vede l’ora di vivere come una teenager qualunque e godersi fino in fondo quell’unica estate di libertà che le sarà concessa, prima di ricoprire il ruolo a lei destinato dentro il regno di Talon. Ma l’Ordine è sulle loro tracce per terminare quanto non era stato fatto nel passato: annientarli tutti. Il cacciatore di draghi Garret Xavier Sebastian, però, non può uccidere, a meno che non sia sicuro di aver trovato la propria preda. E niente è certo quando si tratta di Ember Hill.