Il Tempo della Terra (Stepsons of Terra | 1958 | aka Shadow on the Stars) di Robert Silverberg

Il Tempo della Terra

,

Il Tempo della Terra (Stepsons of Terra | 1958 | aka Shadow on the Stars) di Robert Silverberg

Introduzione

A meno che io non abbia perso il conto, cosa del tutto possibile, Stepsons of Terra è il mio sesto romanzo; cioè un’opera molto giovanile in seno alle mie opere giovanili, perché nei lontani giorni degli anni Cinquanta scrivevo un romanzo ogni pochi mesi, e ne avevo già pubblicati un paio di dozzine prima che i miei capelli cominciassero a tingersi di grigio.

Senza dubbio il mio primo libro è stato un juvenile, Revolt on Alpha C

(Pattuglia dello spazio), che ho scritto nel 1954, quando anch’io ero praticamente un ragazzo. Poi è seguito un altro juvenile, Starman’s Quest (Le due facce del tempo), nel 1956, e sempre nello stesso anno il mio primo romanzo «adulto», The Thirteenth Immortal, e all’inizio del 1957 un romanzo tutt’altro che disprezzabile, Master of Life and Death (Signore della vita, signore della morte), che forse qui in America sarebbe ora di ristampare. Pochi mesi dopo scrissi Invaders from Earth, un altro dei miei primi libri che a tutt’oggi non mi procura il minimo imbarazzo. Col che siamo a cinque; quindi, Stepsons of Terra, scritto nell’ottobre del 1957, sarebbe il sesto.

Certo, ci sono stati anche i romanzi in collaborazione con Randall Garrett, apparsi sotto la firma «Robert Randall»: The Shrouded Planet (La grande luce) e The Dawning of Light, del 1955 e 1956, ma non si trattava di opere solo mie. E ci sono state un paio di cose uscite sotto pseudonimo, come Lest We Forget Thee, O Earth (1957) e Invisible Barriers (1957), ma si trattava di romanzi ricavati da racconti già editi su rivista, non nati come romanzi veri e propri; a me non va di metterli in conto, e spero che anche voi siate disposti a ignorarli. Per cui, il libro che avete in mano in questo momento è il mio sesto romanzo, salvo eventuali eccezioni o note a piè di pagina.

È stato scritto su richiesta di Larry T. Shaw, un signore con gli occhiali e la pipa che curava due riviste di fantascienza, «Infinity» e «Science Fiction Adventures». Shaw, appassionato di sf da tanti anni, avrebbe avuto una splendida carriera di curatore se fosse riuscito a trovare un grosso editore, perché era dotato di ottimo gusto e riusciva a costringere gli autori a fare del loro meglio senza avere l’aria di imporre le proprie idee; ma il destino lo ha spinto a lavorare sempre per piccole case editrici, in collane dalla vita breve. Oggi si è trasferito in California, come quasi tutti coloro che all’epoca conoscevo a New York, e a Los Angeles cura una collana Ai pa-perback che probabilmente nessuno ha mai sentito nominare. «Infinity»

era il suo orgoglio: una rivista con pochi fondi a disposizione che ospitava racconti di autori celeberrimi come Arthur C. Clarke, Isaac Asimov, James Blish, Damon Knight, C.M. Kornbluth e Algis Budrys. Ha pubblicato addirittura il primo racconto di fantascienza di Harlan Ellison. Io ero un collaboratore fisso di «Infinity», e molti dei miei racconti migliori sono usciti lì. L’altra rivista, «Science Fiction Adventures», era meno ambiziosa: una pubblicazione che aveva il solo scopo di divertire, con storie piene di azione, di intrighi interstellari e armi micidiali. Io collaboravo regolarmente anche a «SFA»; anzi, in pratica ne scrivevo numeri interi.

Controllando in archivio, scopro che ogni numero ospitava un mio racconto lungo o due, di solito sotto pseudonimo: Battle for the Thousand Suns, Slaves of the Star Giants, Spawn of the Deadly Sea eccetera. Io mi divertivo a scrivere questi melodrammi spaziali, ed evidentemente si divertivano anche i lettori, perché i miei racconti (a prescindere dallo pseudonimo) in genere erano quelli che piacevano di più.

All’inizio, «Science Fiction Adventures» offriva in ogni numero «tre romanzi completi» (in realtà, racconti lunghi tra le 15.000 e le 20.000 parole), più qualche raccontino e un po’ d’articoli. Ma col settimo numero (ottobre 1957) Shaw decise di variare lo schema, offrendo solo due «romanzi», uno lungo e uno breve. Io ero il suo collaboratore più fidato, per cui mi chiese di scrivere il romanzo lungo che doveva uscire in quel numero. Gli mandai un’opera intitolata Thunder over Starhaven, che uscì sotto pseudonimo e che in seguito ampliai a romanzo vero e proprio (Il pianeta dei fuorilegge) . L’idea ebbe successo, perché ben presto Shaw tentò un altro esperimento: pubblicare in ogni fascicolo un solo romanzo.

Interpellò di nuovo me. Questa volta decidemmo che l’opera sarebbe uscita col mio vero nome, dato che ormai «Robert Silverberg» era la firma più famosa tra quelle che avevo usato sulla rivista; e siccome avrei firmato col mio vero nome, non avevo troppa voglia di usare tutti i luoghi comuni tipici dei pulp. In questo romanzo non ci sarebbero stati cattivi repellenti e principesse con occhi da basilisco, o disperati duelli di cappa e spada, o signorotti feudali con imperi stellari. Avrei scritto un buon romanzo di fantascienza, con una trama robusta ma senza la necessità impellente di continue avventure mozzafiato.

Lo chiamai Shadow on the Stars, e con questo titolo apparve sul fascicolo dell’aprile 1958 di «Science Fiction Adventures». La copertina, a caratteri cubitali gialli, annunciava: «UN NUOVO ROMANZO PER 35

CENTS»; e in effetti il mio libro occupava quasi tutto il fascicolo (112 pagine su 130; restò spazio solo per due raccontini e per qualche rubrica).

Sostanzialmente si trattava di un romanzo sul paradosso temporale, un tema che mi ha sempre affascinato; ma conteneva come minimo una concessione alla linea tradizionale della rivista, e cioè una gigantesca battaglia spaziale contro una «invincibile armada» di «settecentosettantacinque corazzate». Comunque, come vedrete, decisi di descrivere la grande scena di battaglia in un modo del tutto insolito; e mi divertii anche a imbrogliare le carte del finale, per cui esistono due capitoli venti.

I lettori ne furono deliziati. Il numero successivo rigurgitava di lettere di elogio, tra cui una che diceva: «Silverberg sta diventando un artista molto cosciente», e asseriva che Shadow on the Stars era la sintesi di tradizioni del tutto divergenti, cioè di Robert A. Heinlein e E.E. Smith (secondo me, il romanzo doveva di più a A.E. Van Vogt). Poi «Science Fiction Adventures» sospese le pubblicazioni, per motivi indipendenti dalla qualità delle opere che io scrivevo. Nel 1958 chiusero moltissime riviste, tra cui diverse che non avevano mai pubblicato ciò che io scrivevo.

La destinazione successiva di Shadow on the Stars fu la casa editrice Ace Books. Il curatore Donald A. Wollheim acquistò il romanzo, lo intitolò Stepsons of Terra, e lo pubblicò alla fine del 1958 nella serie di «romanzi doppi» della Ace Books, accoppiato a un libro dello scrittore inglese Lan Wright.

Non ho idea di quel che faccia oggi Lan Wright. Però voi oggi tenete in mano, a diciotto o diciannove anni dalla prima edizione, il mio romanzo Stepsons of Terra, che spero vi possa ancora divertire.

Robert Silverberg

Anteprima testo

1

Ewing si risvegliò lentamente, avvolto in una coltre di freddo. Il gelo stava abbandonando gradualmente il suo corpo; testa e spalle ne erano già fuori, il resto del corpo si stava liberando. Si mosse per quanto gli era possibile, facendo tremolare la delicata ragnatela di schiuma che lo aveva avvolto durante il viaggio.

Protese la mano e spinse in giù la leva che si trovava a quindici centimetri dal suo polso. Un getto di liquido uscì dai beccucci sopra di lui, sciogliendo la ragnatela di schiuma. Il gelo abbandonò le sue gambe. Si alzò rigidamente, come se fosse vecchissimo, e si stiracchiò pigramente.

Aveva dormito undici mesi, quattordici giorni e sei ore circa, stando al pannello posto sopra la sonnovasca. Il pannello registrava il tempo in base alle unità galattiche assolute; e il secondo, l’unità galattica assoluta di tempo, era una base di misura del tutto arbitraria, accettata dalla galassia solo perché ideata dal pianeta madre.

Ewing toccò un perno smaltato e una parte della superficie interna della parete dell’astronave scivolò di lato, scoprendo uno schermo visivo dai colori morbidi. Al centro delle profondità verdi dello schermo c’era un pianeta, un pianeta verde a sua volta, con grandi mari che delimitavano i continenti.

La Terra.

Ewing sapeva quale compito lo attendeva subito. Si mosse in fretta, perché ormai la circolazione del sangue nei suoi arti stava tornando normale.

Raggiunse la forma massiccia del generatore subeterico installato sulla parete di fronte e premette il pulsante di contatto. Si accese una luce blu.

«Parla Baird Ewing», disse alla griglia registratrice. «Desidero segnalare che mi sono inserito in orbita attorno alla Terra dopo un viaggio perfettamente riuscito. Per ora va tutto bene. Fra poco scenderò sulla Terra.

Seguiranno ulteriori rapporti».

Interruppe il contatto. In quel momento le sue parole stavano già percorrendo la galassia, dirette al suo pianeta sull’onda portante subeterica. Sarebbero trascorsi quindici giorni prima che il messaggio raggiungesse Corwin.

Ewing avrebbe voluto restare sveglio, nei lunghi mesi del suo viaggio solitario. Voleva leggere tante cose, ascoltare dischi. L’idea di dormire per quasi un anno lo sgomentava: quanto tempo perso!

Ma loro avevano deciso il contrario. «Devi superare sedici parsec di spazio da solo», gli avevano detto. «Nessuno può restare sveglio tutto quel tempo senza impazzire, Ewing. E tu ci servi sano di mente».

Aveva cercato di protestare, ma non era servito. La gente di Corwin affrontava una spesa enorme nell’inviarlo sulla Terra per una missione d’importanza vitale; e se non potevano essere assolutamente sicuri che sarebbe arrivato in forma perfetta, avrebbero mandato qualcun altro. Seppure con riluttanza, aveva accettato. Lo avevano immerso nel bagno nutritivo, gli avevano insegnato a manovrare coi piedi il comando che dava il via all’animazione sospesa e con le mani il comando che, giunto il momento, lo avrebbe liberato dalla schiuma. Avevano sigillato l’astronave e l’avevano lanciata nel buio, minuscola imbarcazione su un mare sterminato, navicella poco più grande d’una bara costruita per un solo passeggero…

Trascorsero almeno dieci minuti prima che tutte le sue funzioni fisiologiche tornassero normali. Ewing fissò nello specchio la strana barba, corta e ispida, che gli era spuntata in viso. Il suo aspetto era bizzarramente emaciato. Non era mai stato troppo in carne, ma adesso era addirittura scheletrico, con le guance incavate, la pelle tesa sulle ossa sporgenti del viso.

Anche i capelli avevano subito una metamorfosi. Quel giorno del 3805

quando era partito da Corwin per la missione d’emergenza sulla Terra erano di un ricco color castano, e ora sembravano molto più smorti, di un marrone spento. Ewing aveva un fisico robusto, coi muscoli estremamente sviluppati e un’espressione fiera attenuata dagli occhi dolci, vivaci.

Aveva lo stomaco vuoto, le gambe molli; si sentiva svuotato d’ogni energia.

Ma lo attendeva un compito importante.

Accanto al generatore subeterico si trovava un apparecchio per comunicazioni all’interno di un sistema solare. Lo accese, fissando la sfera pallida della Terra sullo schermo. Udì una serie di scariche. Trattenne il fiato, nell’attesa ansiosa delle prime parole che avrebbe sentito in terrestre puro. Si chiese se avrebbero capito il suo Anglo-Corwin.

Dopo tutto, erano passati quasi mille anni dalla fondazione della colonia, e quasi cinquecento dall’ultima volta che la gente di Corwin era entrata in contatto con la Terra. Le lingue mutano, in cinquecento anni.

Una voce disse: «Stazione terrestre A Due. Chi chiama? Rispondete. Rispondete, per favore».

Ewing sorrise. Capiva perfettamente!

«Qui è un’astronave proveniente dal mondo libero di Corwin con un solo uomo a bordo», disse. «Mi trovo in orbita a cinquantamila chilometri al di sopra del livello del suolo terrestre. Chiedo il permesso di atterrare su coordinate di vostra scelta».

Ci fu un lungo silenzio, troppo lungo perché dipendesse solo dal tempo necessario per la ricezione. Ewing si chiese se avesse parlato troppo in fretta, o se le sue parole avessero perso di significato sulla Terra.

Alla fine gli risposero: «Il mondo libero di cosa, ha detto?».

«Corwin. Epsilon Ursae Majoris XII. È un’ex colonia terrestre».

Ci fu un’altra pausa inquietante. «Corwin… Corwin. Oh, be’, credo che lei possa atterrare. Ha un’astronave a distorsione spaziale?».

«Sì», disse Ewing. «Naturalmente con correttori fotonici e raggi ionici per l’attraversamento dell’atmosfera».

Il terrestre gli chiese: «I correttori fotonici sono radioattivi?».

Ewing, per un attimo, fu colto di sorpresa. Fissò accigliato la griglia di comunicazione. «Se lei intende radioattivi nel senso di emettere particelle radioattive, no. Il correttore fotonico non fa altro che convertire…». S’interruppe. «Ma devo spiegarle proprio tutto?».

«No, a meno che lei non voglia restare in orbita per tutto il giorno, Corwin. Se la nave non è contaminata, scenda pure. Seguono le coordinate d’atterraggio».

Ewing annotò con estrema cura le coordinate, le rilesse per avere conferma, ringraziò il terrestre e chiuse la comunicazione. Integrò i dati e li programmò nel computer della nave.

Aveva la gola secca. Nel tono di voce del terrestre c’era qualcosa che lo preoccupava. E poi l’altro si era dimostrato troppo vago, distratto, impaziente.

Forse mi aspettavo troppo, pensò Ewing. Dopo tutto, stava solo eseguendo un lavoro di routine.

Ad ogni modo, un inizio del genere era sconcertante. Ewing sapeva di possedere, come tutti i corwiniti, un’immagine mentale estremamente idealizzata dei terrestri: li vedeva come esseri saggi e comprensivi, superbi nel fisico, insomma superuomini veri e propri. Sarebbe stato deludente scoprire che i mitici abitanti del leggendario pianeta madre erano solo esseri umani, simili ai loro remoti discendenti delle colonie.

Ewing allacciò la cintura per il balzo nella cortina dell’atmosfera terrestre e abbassò il comando che azionava l’autopilota. Era iniziata l’ultima parte del viaggio. Entro un’ora si sarebbe trovato sul suolo della Terra.

Spero che potranno aiutarci, pensò. Nella sua mente brillava un’immagine molto vivida: quella delle orde terribili dei barbari Klodni che apparivano da Andromeda e si lanciavano sulla galassia, divorando mondo su mondo nella loro inarrestabile corsa verso il cuore della civiltà.

Da che gli alieni avevano iniziato la campagna di conquista, già quattro pianeti erano caduti. Le previsioni dicevano che sarebbero giunti a Corwin entro un decennio.

Città distrutte, donne e bambini ridotti in schiavitù, le spirali armoniose dell’Edificio Mondiale distrutte, l’Università annientata, i fertili campi bruciati dalle tattiche spietate dei Klodni…

Mentre la nave scendeva verso la Terra, scossa dal contatto con gli strati sempre più densi dell’atmosfera, Ewing rabbrividì. La Terra ci aiuterà, si disse per calmarsi. La Terra salverà le sue colonie dalla conquista.

Sentì i capillari che bruciavano sotto la spinta della decelerazione. Afferrò il corrimano e urlò per diminuire la tensione che gli squarciava i timpani, ma era impossibile calmare la tensione che si portava dentro. Il tuono dei razzi scosse lo scafo della nave, e il pianeta verde diventò paurosamente grande sullo schermo nitido del visore…

Qualche minuto dopo, la nave arrivò al di sopra di una grossa piastra d’atterraggio in ferrocemento. Restò sospesa per un attimo sul getto dei razzi, poi si posò dolcemente a terra. Ewing slacciò la cintura con dita appesantite dalla gravità. Lo schermo inquadrò piccoli automezzi simili a scarafaggi che correvano sul campo verso la nave. La squadra di decontaminazione, senza dubbio, formata di robot.

Aspettò che avessero terminato il loro lavoro, poi spalancò il portello e scese. L’aria aveva un buon odore (strano, dato che il suo pianeta d’origine aveva un’atmosfera composta d’ossigeno al ventitré per cento, cioè il due per cento in più di quella terrestre) e la giornata era calda. Ewing vide la struttura a cupola di un terminal e vi si diresse.

Un robot massiccio, senza viso, lo esaminò con fotoraggi quando lui oltrepassò le porte girevoli. All’interno, il terminal era un labirinto di luci accecanti, rosse e verdi, accese e spente, alte e basse. Ewing restò stupefatto.

Esseri di ogni tipo si affollavano nell’edificio. Vide quattro creature semi-umanoidi, con teste a bulbo, perse in un’accesa discussione lì vicino.

Più lontano, si muovevano sciami di esseri più simili ai terrestri. Ewing era perplesso dal loro aspetto.

Alcuni erano «normali», stranamente muscolosi e d’aspetto rozzo, ma insomma su Corwin non avrebbero certo suscitato esclamazioni di sorpresa. Gli altri, invece!

Vestiti in maniera sgargiante, con tuniche color turchese e nero, grigio e oro, costituivano uno spettacolo bizzarro. Uno non aveva orecchie; il suo cranio era nudo, decorato esclusivamente da collane di gioielli che sembravano inserite nella pelle della testa. Un altro aveva una gamba sola e si sorreggeva su una stampella luminosa. Un terzo portava al naso un anello d’oro con smeraldi.

Non se ne vedevano nemmeno due uguali. Da studioso di strutture culturali qual era, Ewing capì subito il motivo del fenomeno: l’ipersviluppo delle decorazioni era un gradino evolutivo comune fra le…

Il tempo della Terra - Copertina

Tit. originale: Stepsons of Terra

Anno: 1958

Autore: Robert Silverberg

Edizione: Mondadori (anno 1992), collana “Classici Urania” #184

Traduttore: Vittorio Curtoni

Pagine: 160

Dalla copertina | Il tempo della Terra è una storia avventurosa che risale al periodo formativo di Silverberg, quello dei suoi famosi romanzi d’azione. Ma anche in una storia rutilante come questa (apparsa originariamente col titolo Shadow on the Stars sulla rivista “Science Fiction Adventures”) si riconosce il talento dello scrittore di razza. Il tema è uno dei più classici della fantascienza: l’invasione dallo spazio, qui presentato con una dose di intrigo in più. C’è un avamposto sperduto nella galassia che sta per essere invaso dalle forze ostili di Andromeda; per questo lembo d’universo minacciato la Terra potrebbe rappresentare una speranza, ma anche il nostro mondo è sotto il giogo dei coloni di un’altra stella, Sirio. Si apre una lotta a tutto campo per sconfiggere un pericolo che si annida non solo nelle profondità del cosmo, ma anche in mezzo agli uomini.