L’astronave terrestre USS Palomino, in missione ricognitiva nello spazio per cercare nuove forme di vita, s’imbatte nella USS Cygnus, enorme stazione spaziale data per dispersa e ora alla deriva, apparentemente senza persone a bordo, attratta da un minaccioso buco nero. In realtà, all’interno della ciclopica struttura è ancora vivo e vegeto il famoso dottor Hans Reinhardt (Maximilian Schell), assistito da silenziosi androidi e da un’armata di robot da combattimento tra cui spicca il granitico Maximilian.
Salito a bordo sotto il comando del capitano Dan Holland (Robert Forster), l’equipaggio della Palomino apprenderà ben presto l’azzardata intenzione di Reinhardt: attraversare il buco nero, con o – preferibilmente – senza i suoi nuovi ospiti.
Il proposito incontra l’approvazione del solo dottor Alex Durant (Anthony Perkins), che si lascia plagiare dal genio del collega; il resto della squadra inizia invece a nutrire sospetti su Reinhardt e sul fatto che, come lui sostiene, sia l’unico supersite a bordo. I dubbi nascono in seguito al succedersi di alcuni fatti inquietanti: si scopre che uno degli ufficiali della Cygnus era il padre della scienziata e sensitiva Kate McCrae (Yvette Mimieux); Holland assiste a una contraddittoria cerimonia funebre tenuta dagli androidi; il giornalista Harry Booth (Ernest Borgnine) nota che uno degli stessi androidi zoppica, e lo vede accudire una serra in grado di fornire cibo a diverse decine di persone.
A rivelare infine la verità è il maltrattato robot B.O.B., il quale narra di un ammutinamento contro Reinhardt, verificatosi vent’anni prima e risoltosi tragicamente: l’intero equipaggio della stazione venne lobotomizzato dal professore con l’aiuto di Maximilian.
Il personale della Palomino si rende allora conto di essere capitato in balia di un folle…
Commento
The Black Hole – Il Buco Nero è come una pentola a pressione che minaccia di esplodere da un momento all’altro nel suo potenziale fanta-horror, una carica “sovversiva” tenuta deliberatamente a freno da un regista mestierante (Gary Nelson). Ci troviamo infatti in un territorio protetto, off-limits, dove di un’epica potentemente lovecraftiana sono permessi solo gli echi: come la storia insegna, la Walt Disney Productions crea pellicole “per bambini”, in apparenza “innocue”. Eppure tante sue favole, a partire da Biancaneve e i Sette Nani, sono in realtà percorse da pulsioni che ramificano nell’inconscio, abilmente travestite con bellissimi disegni e contesti quotidiani dove l’irruzione improvvisa del desiderio, della paura, dell’irrazionale viene metaforizzata con immagini simboliche in grado comunque di far rabbrividire.
Fin quando Walt Disney visse, le opere prodotte dalla sua celebre major mantennero un equilibrio impeccabile fra questa profondità “scura” e una confezione elegante, tecnicamente perfetta e “commestibile”. Dopo di lui, la favolosa ricetta in qualche modo perse il tocco magico, pur continuando ugualmente a fornire risultati nient’affatto disprezzabili (almeno nel campo dei cartoni animati).
Trovandosi a dirigere un film Disney “live”, realistico e quindi potenzialmente più “pericoloso”, Gary Nelson era forse ben consapevole di aver tra le mani qualcosa da maneggiare con estrema cautela: in questo caso la morte, la vita oltre la morte, Dio e il diavolo.
Senza più Disney, il rischio di sbagliare prodotto in rapporto al tipo pubblico cui si mirava era alto: si è pensato quindi di infarcirlo di effetti speciali alla moda (il successo di Guerre Stellari era ancora fresco), efficaci attori di stampo teatral-televisivo, un cattivo non troppo cattivo (quasi simpatico), i robot buffi e così via.
La musica, altro punto debole, ricorda a tratti più un film di 007 che uno di fantascienza, prestandosi occasionalmente a una bassa imitazione ancora una volta di Guerre Stellari, per esempio durante le battaglie al laser coi robot.
Si avverte insomma, nella confezione generale, l’ombra di produttori accomodanti e bolsi, poco avvezzi alla psicologia e alla creatività, preoccupati di accontentare la famigliola desiderosa di passare lietamente un paio d’ore. È in fondo il clima tipico dei tardi anni Settanta, dove la televisione e i telefilm “riverberano” quasi tutto il cinema fantasy con una piattezza piacevole e calda che solo l’imminente Alien cancellerà, tra l’altro definitivamente e con violenza inaudita.
Ma, se lasciamo che le immagini fluiscano senza eccessivo cinismo, ci accorgiamo che anche The Black Hole è a suo modo affascinante, ammaliante; con tutti i suoi difetti (naturali e “indotti”) può essere considerato un capolavoro mancato, imitato da titoli più recenti come in particolare – abbastanza spudoratamente – Punto di non ritorno (Event Horizon, 1997).
Tra tutti i film non animati immessi sul mercato dalla Disney, The Black Hole è forse l’unico che, sebbene di poco, rompe gli argini previsti, proponendo fin dall’inizio e in trasparenza un racconto nero dall’estrema potenza visionaria e dal décor affascinante e azzeccato.
La Cygnus, enorme stazione spaziale alla deriva – la cui sagoma spettrale può aver ispirato l’Olandese Volante della saga de “I Pirati dei Caraibi” (ancora Disney) – appare nelle prime sequenze al buio e controluce rispetto al vortice spaziale che minaccia di inghiottirla da un attimo all’altro. L’accensione improvvisa delle luci mentre l’astronave Palomino la sorvola, oltre a un’efficace effetto drammatico, stabilisce fin dapprincipio il tono lugubre e romantico del film, e insieme il carattere imprevedibile e insano del comandante Reinhardt, sorta di incrocio tra Mosè e Achab, la cui Balena da inseguire è appunto il misterioso, esoterico e onirico Buco Nero, un’apertura inquietante sul nostro inconscio collettivo, sede di imponenti e pericolose forze primigenie.
Il regista decide di giocare la carta vincente della suggestione visiva: suggerendo – come insegna Disney – e divertendo, tramite scenografie e coreografie estremamente visionarie ed evocative. Nel corso della narrazione troviamo tutti gli elementi del romanzo gotico: il castello maledetto, lo scienziato pazzo e le sue ossessioni filosofiche, il mostro (il robot Maximilian), lo scienziato buono che si lascia incantare ma poi soccomberà, i servitori-schiavi, e, alla fine, inaspettatamente, un’incredibile e lisergico viaggio “dentro, attraverso e oltre” il buco nero, sorta di dantesca rivelazione di noi stessi nel nostro rapporto con l’inconoscibile (inteso e rappresentato appunto come paradiso e inferno); e Dante è spesso evocato e presentito, a parole e nella continua “presenza” del buco nero fuori dagli oblò della stazione, come un occhio quasi divino.
E… al di là del Black Hole? I nostri sono già arrivati in prossimità della Terra; immagini e musica eroiche ci informano di due cose: che la traversata è andata a buon fine, e che il finale è appiccicato con lo sputo.
L’ultima sequenza del film ottiene in realtà lo scopo opposto all’happy-end previsto, risultando ancora più inquietante nella sua pomposa e trionfale falsità.