The Day After - Il Giorno Dopo

The Day After – Il Giorno Dopo

Stati Uniti, anno 1983. Nella cittadina di Lawrence la vita scorre tranquilla, sebbene la situazione politica mondiale sia preoccupante. Il dottor Russell Oakes della vicina Kansas City programma le sue lezioni all’università; la famiglia Dahlberg è alle prese con le piccole difficoltà quotidiane; gli Hendry hanno una fattoria e due graziosi bambini. Nessuno sembra pensare troppo alla guerra sempre più calda in corso tra forze Nato e Patto di Varsavia: l’Europa è lontana anni luce e sicuramente un altro presidente Kennedy scongiurerà il pericolo come ai tempi di Cuba.

Tutti continuano la vita consueta: lavorano, litigano, fanno l’amore, mentre gli indizi della nube che si va addensando sono sempre più evidenti. Sapienti ombre d’inquietudine permeano infatti gli scenari volutamente idilliaci di un’America dove il “sogno” sembra ancora intatto: l’aviere scelto Billy McCoy viene improvvisamente mandato in missione presso una delle tante rampe missilistiche sotto i verdi pascoli del Kansas, e le notizie della televisione si fanno sempre più concitate e allarmanti.

Poi, quello che non sarebbe mai dovuto succedere – perché “gli uomini sono pazzi ma non così pazzi”– accade: la crisi tra i due blocchi giunge a un punto critico, il fatidico bottone viene premuto e la Bomba esplode, ovunque e senza distinzioni.

Il “giorno dopo” arriva con una pioggia di cenere su scenari stravolti e alieni, tra le rovine dei quali i sopravvissuti vagano come zombie o restano barricati sottoterra per scampare alle radiazioni. Orrore e violenza dilagano, mentre gli effetti letali del fall-out iniziano a mietere un numero sempre maggiore di vittime.

L’unico luogo ancora in grado di offrire assistenza è l’ospedale universitario di Lawrence, dove medici, infermieri e volontari condividono la sorte dell’interminabile processione umana che giunge a chiedere soccorso. Mentre tante vite si interrompono – alcune in un pietoso istante, altre in una lenta e consapevole agonia – nasce un bambino: la sola fragile speranza per un possibile futuro.

The Day After – Il Giorno Dopo, di Nicholas Meyer, è un film per la tv che rientra nella produzione tipica del periodo “guerra fredda”, iniziata con pellicole quali Il Giorno dopo la Fine del Mondo (Panic in Year Zero!, 1962), Il Dottor Stranamore (Dr. Strangelove…, 1964), A Prova di Errore (Fail Safe, 1964) e proseguita in coincidenza con la corsa agli armamenti tra URSS e USA vent’anni dopo. Nel 1983, oltre a The Day After, escono Testament, Special Bulletin, WarGames – Giochi di Guerra (WarGames), seguiti da Ipotesi Sopravvivenza (Threads, 1984), When the Wind Blows (1986), e dalla miniserie televisiva Rules of Engagement (1989).

Tutta questa cinematografia ha un denominatore comune: la paura della fine del mondo intesa come un’agonia che inizia con l’atomica e si prolunga attraverso sofferenze al di là di ogni immaginazione. Eppure questo stato d’animo – presente anche in molta produzione letteraria, basti pensare ad autori come Philip K. Dick o romanzi come Un Cantico per Leibowitz di Walter M. Miller – in ambito cinematografico è stato affrontato da punti di vista se vogliamo “laterali”: Il Dottor Stranamore ridimensiona la tragedia utilizzando la satira, WarGames utilizza un piano prevalentemente fantascientifico, Ipotesi Sopravvivenza si concentra sul dramma vissuto nelle alte sfere, Testament offre una visione contenuta e tristissima del “giorno dopo” attraverso la psicologia sofferta dei sopravvissuti.

Nicholas Meyer cerca invece qualcosa di diverso.

The Day After non è un film che si possa definire di effettiva qualità: la psicologia grezza, le grandi gesta e i luoghi comuni sono quelli di molti action movie d’oltreoceano. L’America “prima e dopo la bomba” viene raccontata mediante stereotipi scelti con cura: la middle class è un insieme di tante famiglie Ingalls (La Casa nella Prateria) che abitano ridenti cittadine e campagne piene di sole, i militari delle basi missilistiche sono presenze amichevoli come i vicini di casa e la colonna sonora esegue una classica musica country da telefilm. Contrapposta a questo scenario di spaziosa serenità, in cui tutti sembrano non vedere, non sentire e non capire, la frenetica attività delle alte sfere: telefonate tra vertici politici e militari, stanze blindate piene di bottoni, soldati in stato di allerta negli aerei da guerra. Il messaggio è chiaro: la cosa più lontana dai vostri pensieri sta accadendo ora.

I personaggi sono quelli di una soap opera, e come tali parlano e agiscono. Il medico stimato, padre e marito affettuoso, si getta anima e corpo nella missione che la professione richiede; il capofamiglia rurale – perfetto erede del tradizionale cowboy – è il primo ad avvertire l’imminenza del pericolo e a volgere lo sguardo al cielo grazie alla saggezza di un popolo rude e legato alla terra; la ragazza ribelle scende nel rifugio improvvisato stringendo un orsacchiotto e l’abito da sposa; il docente di scienze, l’unico informato dei fatti, organizza i propri studenti per gestire l’emergenza.

The Day After ha vinto due Emmy, scatenato infiniti dibattiti, polemiche, ovazioni, petizioni, l’intervento di scienziati come Carl Sagan (in questa occasione fu enunciata la teoria dell’inverno nucleare) e politici come Kissinger, il commento di capi di stato quali Reagan. Ma perché, al di là del sensazionalismo, questo tv-movie ha colpito così tanto l’opinione pubblica mondiale? Meyer stesso offre una possibile risposta: “Come regista, mi sono trovato impegnato nell’esercizio continuativo di non fare un buon film. Non volevo che il pubblico parlasse di Jason Robards o della colonna sonora. Ho voluto che il mio ruolo non fosse fare un film, ma un pubblico annuncio: se ci sarà una guerra nucleare, ecco quello che probabilmente accadrà, magari anche peggio.”

Questa affermazione può far pensare a un atteggiamento difensivo, eppure la struttura stessa del film, così eccessivamente prevedibile nella trama, nella recitazione e nella psicologia dei personaggi, sembra confermarne la sincerità. Nonostante le scene a volte risibili da un punto di vista scientifico (Robards-Oakes si salva da una vicinissima esplosione chinandosi tra i sedili della sua auto), o gli effetti speciali che oggi fanno sorridere (gli scheletri ai raggi X di animali e persone vaporizzate, i funghi atomici identici a grossi porcini), The Day After obbliga lo spettatore a guardare l’olocausto nucleare negli occhi, senza sconti o possibili distrazioni. In un momento storico in cui la minaccia di un conflitto atomico – le cui reali conseguenze sono ancora ignote, a parte Hiroshima – era assai tangibile, il film di Meyer ha raccontato quello che potrebbe succedere alla gente comune: la perdita di affetti, radici e dignità, ovvero quelle componenti di vita considerate scontate. Non a caso la vicenda si svolge in un tempo e in uno spazio che sono quelli dello spettatore: il 1983 è sia l’anno di uscita del film sia quello in cui si svolgono i fatti narrati, e la maggior parte delle riprese è stata fatta nella cittadina di Lawrence, nel campus universitario e nelle zone limitrofe, utilizzando come comparse i residenti.

Paura ed eroismo, morte e sopravvivenza, sangue e scomparsa della civiltà vengono quindi rappresentati non tanto con la finzione scenica, quanto con il realismo di uno show postapocalittico ambientato in diretta fra le pareti di casa nostra. Ed è questo il suo indiscutibile merito: costringe a non voltare la testa e a pensare.

Il film, pur mostrando le cause e l’evolversi di una situazione verso il limite estremo, non offre soluzioni e, nonostante ammetta una possibile sopravvivenza della razza umana, non ha un finale consolante: davanti alla distruzione, l’ultima reazione dei migliori eroi è ancora un urlo rabbioso che rivendica ciò che non esiste più, senza rassegnazione o consapevolezza, con il solo conforto di un pietoso abbraccio.