Romanzo dal ritmo incalzante, The Heroes catapulta il lettore con efficacia, senza artificiosi indugi e appesantite introduzioni, in un mondo che, apertamente debitore del medioevo europeo, appare straordinariamente concreto e realistico.
All’effetto concorrono evidentemente due precise scelte di campo: da una parte, la magia – intesa in senso lato – viene confinata nella sfera della mera superstizione; dall’altra, la trama, ben più complessa delle iniziali apparenze, emerge spontaneamente dalla descrizione degli eventi e dai dialoghi dei personaggi, senza digressioni o flashback.
Refrattaria alle facili ‘derive’ della magia, altrove troppo spesso risolutrice di trame divenute macchinose e soffocanti, la scena risulta così avere come unici e indiscussi protagonisti gli uomini, non chiamati da alcun misterioso destino al raggiungimento di alti e salvifici traguardi, ma semmai ritratti, con caustica, impietosa e pressante ironia, nelle mutevoli forme delle loro debolezze e incapacità. Appare infatti evidente che il cuore nevralgico del romanzo, rappresentato dalla battaglia tra le due opposte fazioni degli Uomini del Nord e dell’Alleanza, vive dei tragici errori, dei tradimenti, degli atti vili e meschini dei suoi protagonisti, ben più che delle loro gesta ‘eroiche’, poche, per lo più prive di significato ed effettiva incidenza, e mai frutto di slancio patriottico o altruistico sacrificio quanto piuttosto di insaziabile ed egoistico desiderio di rivalsa, o addirittura dichiaratamente di opportunismo e casualità.
In netta antitesi rispetto al titolo, nel romanzo di Abercrombie, privo di ogni tediosa retorica, non vi è traccia di alcun eroe. Quantomeno non nell’accezione che il lettore, abituato a una certa e semplicistica (ri)lettura dell’epica tradizionale, ha in mente. È arduo per esempio considerare un eroe Beck, il giovane sbruffone che non ha resistito al richiamo della battaglia (così come descritto in leggende e miti) e che, lasciata la famiglia, si arruola volontario nell’esercito del Nord, evidentemente sopravvalutando le proprie capacità e attitudini; altrettanto difficilmente catalogabili come eroi sono gli incapaci generali dell’Alleanza, caratterizzati da perniciose invidie o grossolane miopie.
Ma è con tre personaggi in particolare che il distacco con la tradizionale immagine dell’eroe si avverte con maggior impatto ed efficacia. Spicca fra questi il principe Calder, da subito descritto come un vigliacco, un opportunista, un traditore, dedito all’intrigo e preoccupato più di se stesso e della propria posizione che del destino degli uomini dei quali dovrebbe sentirsi responsabile. Il metro esclusivo dell’operare del principe consiste nella mera convenienza: ogni volta incapace di compiere la scelta eticamente corretta – benché non gli faccia difetto la comprensione delle altrui necessità e propensioni – le sue remore morali sono sempre subordinate al perseguimento del tornaconto personale. E quando questo tornaconto mancherà o non sarà facilmente individuabile, Calder perderà ogni vigore e forza, quali che siano i valori in gioco, incapace di determinarsi all’azione. La totale sua inettitudine nell’impugnare l’arma in battaglia pare significativamente il riflesso della sterilità dei rari suoi slanci di umanità. Nulla di più lontano dall’immagine romanzata del cavaliere puro di cuore, osannato dalle folle e adorato dai propri uomini.
Ben più rassicurante è l’immagine di Curden lo Strozzato, descritto da tutti i personaggi, alleati e avversari, come tutto d’un pezzo, onesto e ossequioso dei vecchi codici del combattimento: l’uomo che, all’opposto di Calder, compie le proprie scelte e le proprie azioni sempre ‘nel modo giusto’. Eppure tale contegno non assume alcun valore salvifico: il rispetto delle ‘regole non scritte’ non lenisce il disincanto attraverso il quale lo stanco guerriero legge tutti gli eventi che vengono a coinvolgere lui e la sua ‘dozzina’; non pone al riparo dal dolore così come non assicura alcuna futura ricompensa.
Bremer dan Gorst apparteneva alla guardia personale del re. Caduto in disgrazia, cerca ossessivamente nella battaglia il proprio riscatto. Le sue impareggiabili doti di guerriero gli consentono di distinguersi più volte e di fare la differenza sul campo. Per abilità e spregio del pericolo, affrontato senza tema della morte, si avvicina all’idea dell’eroe che il lettore ha ben coltivato nel proprio immaginario; lo allontanano tuttavia definitivamente da tale modello l’assenza di ideali, l’amore ossessivo e malato per una donna che non lo ricambia, la rancorosa invidia per l’altrui successo e il piacere morboso per la battaglia fine a se stessa, l’unico ambito nel quale davvero si sente realizzato.
La battaglia di Abercrombie è quindi principalmente tra anti-eroi, in una dimensione corale che non ha precedenti.
Il Fantasy ha in effetti già conosciuto figure mesmericamente complesse, malate e controverse quali in primo luogo il lebbroso protagonista della saga de ‘Le Cronache di Thomas Covenant l’Incredulo’ di Donaldson, ed è stato quasi soffocato da una sovrabbondante schiera di assassini o assassine più o meno ricostruita o abbozzata intorno a usurati modelli di legalità alternativa e giustizia superiore. L’Epic Fantasy poi, in particolare, si è nutrito a lungo delle figure tormentate sapientemente create dalla penna di Gemmel: dai protagonisti de La Perla Nera a quelli di Eco del Grande Canto, difficilmente si riuscirebbe a tener il conto delle figure strutturate sulla continua giustapposizione di chiaro-scuri. I vari Sirano e Viruk hanno lasciato segni indelebili nei lettori che hanno avuto la fortuna di incontrarli in quelle pagine letteralmente divorate.
Ma in Gemmel, come pure in Donaldson, la gloria attende oltre la tenebra: gli eroi caduti in disgrazia, trasformati, sconfitti, invecchiati, possono sperare nel riscatto, mentre coloro che si sono macchiati dei peggiori crimini – e che eroi non sono mai stati – possono trasformare se stessi ed eroi diventarlo. Ne I Cavalieri dei Gabala di Gemmel, ad esempio, il più grande fra gli eroi di un mitico passato è tormentato dall’onta di non aver seguito, per vigliaccheria, i compagni nell’ultima grande campagna, ma, quando le tenebre sembrano essere divenute oramai assolute dominatrici, ecco finalmente apparirgli l’opportunità di sconfiggere uno dei più oscuri nemici e dare così rinnovata prova del suo coraggio. Per un manigoldo che ha creato la propria fortuna con furti e rapine, l’occasione del riscatto verrà fornita invece da un bardo, che, rielaborando i fatti dei quali è testimone e accentuando le ricadute positive di gesti nati da mero egoismo, ne trasformerà dapprima l’immagine e poi addirittura l’animo. Una metamorfosi reale dettata dall’apparenza: il finto eroe diverrà eroe reale, pronto al sommo sacrificio. In Donaldson, l’antieroe per eccellenza appare scostante all’inverosimile: cinico, malato nell’animo non meno che nel corpo, arriverà persino a violentare una ingenua ragazza. Eppure sarà lui a salvare la Landa. I personaggi, in tali opere, sono dunque complessi, spesso spiriti tormentati, ma le loro gesta li possono redimere, e trasformare, agli occhi propri e altrui, in eroi.
In Abercrombie, al contrario, gli eroi non esistono e non sono nemmeno mai esistiti: sono fantasmi attorno ai quali sono stati costruiti miti nutriti di esagerazioni per chiamare al sacrificio giovani sognatori, e i cui nomi possono all’occorrenza essere utilizzati al più come spauracchi per creare scompiglio nelle fila nemiche.
Significativamente, il centro nevralgico della battaglia è costituito da una collina sulla quale sono stati elevati monumenti sepolcrali denominati ‘gli eroi’, in onore di coloro che vi sarebbero sepolti e dei quali dovrebbe celebrarsi la memoria; in realtà, come si comprende presto, nessuno sa chi effettivamente vi sia sepolto, né pare, per il vero, che nessuno nutra al riguardo particolare interesse.
Del resto, in entrambi gli schieramenti, non sono pochi coloro che hanno ben nota la reale natura della guerra e la rilevante differenza che corre tra mito e realtà: l’eroe è il semplice soldato che perde la propria vita in una battaglia che non è la sua, contro nemici che non sono i suoi. Nessun gesto sovrumano o epica impresa: è il mettere a repentaglio la propria vita l’unico segno distintivo.
Una simile ‘morale’ conclusiva cederebbe tuttavia alla facile retorica, e stonerebbe rispetto al tono che si percepisce chiaramente nell’opera di Abercrombie. Il mettere la propria vita a repentaglio è infatti nel romanzo sempre frutto di una scelta, di volta in volta compiuta per spudorata avventatezza, noia o incapacità assoluta di fare altro nella vita, mai per il perseguimento di alti ideali. Di questi ultimi, in The Heroes, non si avverte traccia: la stessa battaglia che costituisce il cuore del romanzo non è il confronto tra Bene e Male, tra Giustizia ed Ingiustizia, dal momento che le connotazione negative sono presenti in entrambi gli schieramenti ed equamente divise tra ufficiali e subalterni. Addirittura, nel finale, dopo una nutrita serie di colpi di scena che una volta di più sorprendono il lettore ponendolo di fronte a una trama ben più complessa dell’iniziale percezione, e che sottolineano l’assoluta inutilità del massacro compiutosi, ecco comparire il termine ‘eroe’ caricato di assoluto disvalore: quale profondo astio nell’amara constatazione espressa nei riguardi di quel Bremer dan Gorst che, quantomeno sul campo di battaglia, si è davvero distinto per le proprie impareggiabili gesta! L’essere un eroe appare una colpa, non una virtù.
L’azione, nell’opera, appare dunque depurata da ogni retorica di maniera ed esaltata nel proprio dinamismo da scelte opportune, nelle descrizioni e nella costruzione delle scene. Particolarmente azzeccata, e di effetto, è la scelta di seguire l’evoluzione degli eventi tramite continui cambi di prospettiva che pure non appaiono mai eccessivi né disorientanti e il cui filo logico il lettore non ha difficoltà a ricostruire. Le descrizioni sono brevi, concrete, incisive; l’atmosfera è costruita con capacità e sicurezza; le scene si susseguono senza pesanti artifici; perfettamente riconoscibili i vari personaggi pur nel tumulto della battaglia.
Chiare anche le mappe poste all’inizio di ogni capitolo, nelle quali è facile riconoscere gli schieramenti delle truppe e la posizione dei vari personaggi durante la battaglia.
Una nota negativa va segnalata per quanto riguarda talune confusioni terminologiche, probabilmente dovute a ‘sviste’ nella traduzione, e la scelta da parte dell’autore di usare nomi tra loro fin troppo simili per alcuni personaggi. Disorienta ad esempio l’utilizzo dei termini ‘arco’ e ‘freccia’ laddove il contesto rende chiaro che i soldati stiano facendo uso di ‘balestre’ e ‘dardi’ (da pag. 211 a pag. 213 i protagonisti della scena tendono l’arco ma poi premono il grilletto); e si dubita dell’opportunità di scegliere ‘Calder’ e ‘Curden’ come nomi per due tra i maggiori protagonisti del romanzo, peraltro schierati dalla stessa parte, come pure riservare al misterioso servitore del Nero, Caul il Brivido, il medesimo nome del suocero di Calder (Caul Reachey), scelta vieppiù discutibile allorquando in una delle ultime e risolutive scene entrambi i personaggi risultano presenti e vengono indicati con il solo primo nome.
Sarebbe forse stato opportuno anche limare, specie all’inizio del romanzo, la teatralità dell’ingresso in scena di alcuni personaggi, eco quantomeno apparente di vecchi film di avventura, che pare una concessione fin troppo chiara alle prospettive di una eventuale trasposizione cinematografica o televisiva del romanzo (Abercrombie ha contribuito, con Michael Moorcock, Terry Pratchett e China Miéville, alla realizzazione della serie televisiva Worlds of Fantasy).
Questi rilievi finali non sminuiscono però un romanzo perfettamente equilibrato, coinvolgente e, sotto molti profili, innovativo.