Anteprima testo
The Prey (2013) di Andrew Fukuda
1
Pensavamo di esserci finalmente liberati di Loro, ma ci sbagliavamo. Quella stessa notte, ci attaccano.
Sentiamo il branco dei cacciatori appena qualche istante prima che raggiunga la sponda del fiume: grida roche si scagliano nel cielo notturno, stridule e taglienti come schegge di vetro frantumate sotto i piedi. Il cavallo, le narici allargate e gli occhi rovesciati, alza il muso di scatto. I muscoli fusi in un unico fascio, parte al galoppo con le orecchie appiattite all’indietro, gli occhi come due folli lune bianche che splendono nella buia immensità in cui si addentra.
Afferriamo tutti le nostre borse e fuggiamo verso la barca ormeggiata su gambe vacillanti. Le cime di ancoraggio sono tese e le nostre dita tremanti non riescono a scioglierle. Ben tenta di soffocare i suoi stessi singhiozzi, Epap è già in piedi sulla barca, la testa inclinata in direzione dei suoni prodotti dall’avvicinamento dei cacciatori. Ha ciocche di capelli sollevate come braccia che si arrendono, scompigliate da un sonno nel quale non sarebbe mai dovuto cadere.
Sissy taglia le cime. Dalla lama si levano scintille mentre i suoi colpi si fanno più rapidi, più incalzanti ogni secondo che passa. Si ferma all’improvviso, il coltello in aria. Ha lo sguardo fisso in lontananza. Li vede, dieci puntini d’argento che si precipitano verso di noi lungo un prato distante prima di scomparire dietro il rialzo di una collina più vicina. Sento i peli del collo irrigidirsi come stalattiti di ghiaccio che si spezzano nel vento.
Riappaiono, dieci perline di mercurio che valicano la cima della collina con inflessibile determinazione. Puntini d’argento, perline di mercurio, termini strani, vano tentativo, da parte mia, di tramutare il terrificante in innocuo, in accessorio di gioielleria. Ma quelle sono creature. Sono cacciatori. Che vengono ad affondare le zanne nella mia carne, a farmi a pezzi, a divorarmi e saccheggiare i miei organi.
Afferro i più piccoli, li spingo a bordo. Sissy sta menando fendenti all’ultima cima, sforzandosi di ignorare gli ululati che giungono stridenti fino a noi, viscidi e bagnati di saliva. Agguanto un palo, pronto a spingere nel momento stesso in cui Sissy avrà tagliato la cima. Appena in tempo, lei sega la fune e io spingo la barca nella corrente. Sissy balza a bordo. Il fiume ci avvolge, ci trascina via dalla riva.
I cacciatori sono radunati sulla sponda, dieci grotteschi ammassi di carne liquefatta e capelli arruffati. Non ne riconosco nemmeno uno — nessuna traccia di Labbra Cremisi, Pancia Piatta, dello Smunto o del Direttore — ma la smania nei loro occhi mi è sin troppo familiare. È un impulso più potente del desiderio sessuale, è una brama divorante di straziare e bere carne e sangue di Eminide. Tre cacciatori si lanciano nel fiume che scorre veloce, nell’inutile sforzo di raggiungerci. Le loro teste ballonzolano nell’acqua una volta, due, poi sprofondano, inoffensive.
I cacciatori rimasti ci seguono per ore lungo le rive. Cerchiamo di non guardarli, teniamo gli occhi fissi sul fiume e sulle tavole di legno del ponte. Ma non c’è modo di sfuggire alle loro urla, colme di una voglia non corrisposta, di una lamentosa disperazione. I quattro ragazzi della Cupola — Ben, David, Jacob ed Epap — si rannicchiano nella cabina per gran parte della notte. Sissy e io restiamo a poppa, a guidare la barca con i lunghi pali, tenendola ben lontana dalla riva. Con l’avvicinarsi dell’alba, il cielo nuvoloso si fa a poco a poco più chiaro. Invece di indebolirsi di fronte al sorgere del sole incombente e all’inevitabilità della morte, i cacciatori rimasti non fanno che urlare più forte, in un parossismo di furore.
Il sole sorge adagio e brilla fioco da dietro le nuvole nere. Una fiamma filtrata, diffusa. E i cacciatori muoiono di una morte lenta, interminabile, orrenda. Ci vuole almeno un’ora prima che l’ultimo grido ribollente si spenga in un gorgoglio, e a quel punto di loro non rimane più niente che abbia una forma, o una voce, o un odore.
Sissy parla per la prima volta dopo ore. «Credevo che ci fossimo spinti abbastanza lontano. Credevo che avessimo visto l’ultimo di Loro.» È solo mattina, e la sua voce è già esausta.
«C’è stato il sole», dico. «Fino alla tempesta di ieri.» La pioggia e le nuvole avevano reso il giorno buio quanto la notte e permesso ai cacciatori di mettersi in marcia ore prima del crepuscolo e raggiungerci.
Sissy sporge la mascella. «Allora sarà meglio che oggi non piova», dice, poi entra in cabina a controllare i ragazzi.
Il fiume fluisce con una spinta incessante. Fisso lo sguardo avanti finché non lo vedo svanire nel buio, in lontananza. Non so cosa ci aspetti, e quell’incertezza mi intontisce di paura. Una goccia di pioggia mi cade sulla fronte, poi un’altra, e un’altra, e di lì a poco l’acqua mi riga il collo e la pelle d’oca delle braccia come un reticolo di vene sporgenti. Alzo gli occhi. Le nubi cupe e gonfie si spostano, poi si squarciano. La pioggia scende a dirotto, a nastri scuri e obliqui. Il cielo è nero come uno stormo di corvi a mezzanotte.
La caccia è appena cominciata. La caccia non finirà mai.
2
Sediamo nella cabina, stretti l’uno all’altro, cercando di ripararci dalla pioggia. I nostri vestiti inzuppati si incollano ai corpi esili e agli stomaci incavati come cuoio screziato. Di tanto in tanto, qualcuno — spinto dall’irrazionalità della fame — apre la borsa delle provviste e la trova (ancora una volta) vuota. Le bacche e la carne di coniglio che avevamo arrostito sono state divorate da tempo.
Con quella pioggia fitta, la corrente del fiume acquista velocità. Facciamo turni più brevi per governare la barca, le nostre forze si esauriscono in fretta, ormai. Nel primo pomeriggio, Sissy e io lavoriamo insieme. Due ore dopo, siamo sfiniti. Crolliamo nella cabina, rimpiazzati da Epap e Jacob.
Sono esausto, ma non riesco a dormire. Raffiche di vento attraversano il fiume, increspandone la superficie già maculata dalla pioggia battente. Mi strofino la faccia, nel tentativo di riscaldarmi le guance. Dall’altra parte della cabina, Sissy è raggomitolata su un fianco, la testa appoggiata sulle mani giunte. Rilassato nel sonno, il suo viso è morbido, i contorni modellati.
«Non hai fatto che fissarmi, negli ultimi minuti», bisbiglia, gli occhi ancora chiusi. Sobbalzo. Le sue labbra si incurvano verso l’alto in un debole sorriso. «La prossima volta, svegliami e basta. Potresti trapassare dei muri d’acciaio, con lo sguardo che hai.»
Mi gratto i polsi.
Apre gli occhi lentamente, si mette seduta. I folti capelli castani le ricadono sul viso, in disordine come la coperta che ora stende con dolcezza su Ben che russa al suo fianco. Sbadiglia, tende le braccia alte sopra la testa, inarcando la schiena. Si alza e mi viene vicino, aggirando una scorta di legnetti che abbiamo portato a bordo, poi si lascia cadere accanto a me.
«La corrente è forte», dico. «Forse troppo forte. Sono preoccupato.»
«No, è un bene, invece. Significa più strada tra noi e Loro.»
Sono passati solo alcuni giorni da quando siamo scappati dall’Istituto di Eminidologia. Siamo stati inseguiti da una folla inferocita, affamata del nostro sangue e della nostra carne. Dalle centinaia di esseri che si sono riversati fuori dall’Istituto, invitati al banchetto spinti dalla brama di sangue. Contro un’orda simile, noi sei non avevamo praticamente nessuna possibilità di sopravvivere. La nostra unica, debole speranza era riposta esclusivamente nel diario dello Scienziato, un oscuro quaderno che suggeriva una fuga in barca lungo questo fiume. Il fiume l’abbiamo trovato, per fortuna. E per un miracolo ancora più grande abbiamo trovato anche la barca. Ma la ragione per cui lo Scienziato ci abbia condotti su queste acque, quella ancora non l’abbiamo trovata.
«Significa anche meno distanza tra noi e lui», aggiunge, come se leggesse nei miei pensieri. Mi osserva con un’espressione sicura che racchiude dolcezza e saggezza. Distolgo lo sguardo.
Ieri, quando mi sono imbattuto nel ritratto di mio padre fatto da Epap, ho rivisto quel viso per la prima volta dopo anni: gli occhi infossati, la linea della mascella forte e ben disegnata, le labbra sottili, l’aria glaciale che, persino in un disegno, allude a una sensibilità e a una malinconia più profonde.
Ora penso ai segreti che devono aver conservato quegli occhi, ai propositi mai rivelati da quelle labbra. L’ultimo giorno, mio padre si era precipitato in casa nostra tutto sudato, pallido come un cadavere. Gli avevo visto i segni gemelli sul collo. Si era spinto fino a quel punto per simulare la sua mutazione. Quando era corso fuori, poco prima del sorgere del sole, avevo pensato che corresse incontro alla morte per salvarmi.
E invece correva incontro alla sua libertà e al mio massacro.
Raccolgo due rametti dal mucchio e comincio a strofinarli l’uno contro l’altro come se stessi affilando dei coltelli. «Credi che abbia lasciato questa barca per voi, non è vero?», dico. «Che abbia pianificato questa fuga così complessa per voi. Ti interessa la mia modesta opinione? La barca non era destinata a voi. Era destinata a lui, e a lui solo. Era il suo mezzo di fuga. Solo che non è stato abbastanza in gamba da trovarla. O forse l’ha costruita lui stesso, ma lo hanno trovato prima che riuscisse a scappare.»
Lei fissa i bastoncini, poi me. «Ti sbagli. Lo Scienziato ci prometteva continuamente che un giorno ci avrebbe fatto uscire dalla Cupola. Parlava di un luogo meraviglioso in cui non esistevano pericoli né paure, in cui avremmo trovato salvezza e calore e un’infinità di altri umani. La terra dove scorrono latte e miele, dove abbondano frutti e sole. È così che la chiamava. O Terra Promessa. E ogni volta che parlava di fuga, ne parlava come della nostra fuga.»
«Una grossa promessa.»
Stringe le labbra. «Infatti. Ma era quello che ci serviva. Devi capire… Tutti noi siamo nati nella Cupola. E pensavamo davvero che avremmo finito per morirci, dopo una vita lunga e difficile in cattività. Era un esistenza miserabile. Lo Scienziato… be’, lui è sbucato dal nulla. E con quell’unica promessa, ha cambiato le nostre prospettive, le nostre vite. Ci ha dato speranza. I ragazzi — soprattutto Jacob — si sono trasformati. La speranza fa questo effetto.» Sorride. «Non sappiamo nemmeno che aspetto o che sapore abbiano, il latte e il miele.»
«Riponete molta fiducia nella promessa di un solo uomo.»
Mi guarda. «Tu non lo conosci come lo conosciamo noi.»
Per poco non sobbalzo, tanto mi feriscono le sue parole. Ma riesco a controllarmi. Una vita di addestramento ti rende maestro nel nascondere le emozioni.
«Non vorresti trovarlo?», chiede lei. «Non hai la minima curiosità di scoprire dove potrebbe essere andato?»
I bastoncini nelle mie mani smettono di muoversi. La verità è che ho pensato quasi solamente a questo.
La luce lunare riflessa dal’ fiume le disegna dei puntini sul viso. «Dimmi, Gene», sussurra, guardandomi negli occhi.
Esito, le parole Tu non lo conosci come lo conosciamo noi che ancora mi risuonano nelle orecchie. Se solo sapesse cosa potrei dirle. Che l’uomo che loro conoscono come lo Scienziato è lo stesso uomo che io chiamavo padre. Che ho vissuto con lui, giocato con lui, conversato con lui, esplorato la città con lui, ascoltato storie raccontate da lui. Io so che, quando dormiva, la durezza dei suoi lineamenti scompariva svelando il volto di un ragazzino, che il suo russare era sempre sommesso, l’ampio torace si alzava e si abbassava, si alzava e si abbassava, le mani giacevano molli lungo i fianchi. So che i miei anni insieme a lui sono stati più dei loro, e più intensi. Che sono stato amato da lui dell’amore di un padre, e che quel legame è più importante di qualsiasi altro.
Ma invece di parlare, sfrego più forte i bastoncini l’uno contro l’altro.
«Hai il peso del mondo sulle spalle, Gene», dice Sissy in tono calmo.
Incrocio le gambe senza aprire bocca.
«I segreti», bisbiglia, «ti divoreranno dentro». Si alza e va a raggiungere gli altri.
Più tardi, nel corso della giornata, la pioggia smette di scendere. La luce del sole filtra da uno squarcio tra le nuvole e i ragazzi lanciano grida di giubilo. Jacob dichiara che adesso è tutto perfetto: adesso hanno sole e velocità. «Beccatevi questa, cacciatori!», urla, sfacciato. L’ilarità degli altri Eminidi lo incoraggia. «Beccatevi questa! Mangiate la mia polvere!» Le loro risate si levano alte nel cielo azzurrognolo.
Ma io non condivido quella gioia. Perché ogni centimetro che guadagniamo sui cacciatori è un altro centimetro che allarga la voragine tra me e Ashley June.
In questi ultimi giorni è venuta da me senza preavviso, manifestandosi negli oggetti più disparati: la forma delle nuvole, il profilo sempre più vicino delle montagne a est. Per nostra scia, sento il cappio stringersi intorno al suo collo. Il senso di colpa mi divora. È rimasta sola nell’istituto di Eminidologia dopo essersi sacrificata per me. Resiste e mi aspetta, aspetta un aiuto che non sono riuscito a darle. Ormai deve aver capito che non tornerò. Che l’ho abbandonata.
I ragazzi gridano parole avvolte in un euforia luminosa, splendente. Urlano, inneggiando allo Scienziato, alla Terra Promessa.
Il suono di una corsa sulle assi. È Ben.
«Vieni con noi sul ponte, Gene!», esclama, i lineamenti illuminati da un sorriso. «Fa molto più caldo al sole che in cabina.»
Gli dico che devo stare lontano dal sole.
«Dai, su», insiste, tirandomi per le braccia.
Ma io mi divincolo di scatto. «Non posso. Io non sono abituato al sole. La mia pelle brucia già adesso. Non sono scuro come voi Em…» E riesco a fermarmi appena in tempo.
Sul suo viso si disegna la delusione. Poi scivola via, nel bagliore del sole, lasciandomi solo nell’ombra fredda della…
Tit. originale: The Prey
Anno: 2013
Autore: Andrew Fukuda
Ciclo: The Hunt #2
Edizione: Editrice Il Castoro (anno 2013)
Traduttore: Simona Brogli
Pagine: 368
ISBN-10: 888033767X
ISBN-13: 9788880337676
Dalla copertina | Gene è in fuga. Tutto il suo mondo è crollato. Con lui ci sono gli ultimi umani sfuggiti alla Caccia, dietro di lui un’orda famelica di predatori. Ashley June è lontana – sarà ancora viva? Al suo fianco c’è Sissy: coraggiosa, determinata, una vera leader. Quando la fuga li porta in un rifugio di umani sulle montagne, tirano un sospiro di sollievo. Ma non tutto è come sembra, e nel giro di poco tempo, Gene è costretto a domandarsi se il Nemico non sia molto più vicino di quanto pensasse. A poco a poco, si fa strada una sola certezza: Gene e Sissy dovranno contare solo su loro stessi. Se vorranno sopravvivere.