The Time Machine (movie)

The Time Machine

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IL DESTINO È QUEL CHE È – NON C’È SCAMPO PIÙ PER ME!

Alexander Hartdegen è uno scienziato ed inventore di fine ‘800. La vita pare sorridergli: è bello, giovane. Vive in una casa lussuosa a New York, indossa abiti eleganti e frequenta gente colta. Dalle maniere raffinate, si capisce che è un rampollo di buona famiglia, non deve preoccuparsi del proprio sostentamento e può dedicarsi indisturbato a ogni genere di attività.

Invece che emulare Edison ovvero procurarsi fama e tanti dollari sonanti grazie a brevetti d’ogni genere, insegna all’Università è un gran sognatore. È convinto di poter inventare un mezzo per viaggiare a suo piacimento nel tempo, al fine di modificare il corso degli eventi a proprio vantaggio. Qualcuno lo considera un eccentrico, e a lui non importa, poiché ha la sua cerchia di amicizie e ha trovato l’anima gemella. A differenza del grosso dei “colleghi” inventori misogini che la letteratura di fantascienza ci ha fatto conoscere, Hartdegen ha una vita sentimentale invidiabile. Sta per fidanzarsi ufficialmente con Emma, una delle rare persone che lo capiscono e lo apprezzano per quello che é. La giovane condivide i suoi interessi per la scienza, e dimostra interesse autentico per lui, non solo per il presumibilmente lungo conto in banca. Cosa che mai guasta: è una ragazza di bell’aspetto. Purtroppo per il nostro protagonista, il destino è in agguato, e non è benevolo. Emma viene uccisa da un rapinatore la sera stessa in cui Alexander si è deciso a chiederne la mano. Hartdegen si chiude nel suo laboratorio e abbandona il mondo, anche quello accademico, liquidando con un “Ho dovuto lavorare” i sempre più rari amici che lo vengono a trovare.

Nei quattro anni seguenti si dedica alla costruzione della fatidica macchina del tempo. Il marchingegno che all’inizio pareva una fantasia irrealizzabile si concretizza in una struttura che assomiglia a una scultura di gusto post moderno. L’inventore impiega la macchina del tempo per tornare alla sera della disgrazia, cercare d’impedire che accada il peggio e vivere felice con la sua anima gemella. Purtroppo il tentativo di modificare la realtà fallisce ad ogni prova. La ragazza muore in modo diverso, stavolta non più per una pallottola, ma investita da una carrozza trainata da cavalli imbizzarriti, o per altri motivi banali, senza che l’inventore possa fare niente per salvarla. Hartdegen comprende allora come sia impossibile cambiare il passato, e sconvolto si getta verso il futuro. Prima si ferma agli albori del terzo millennio…

In questa età inizia la colonizzazione della Luna. La cultura è affidata alle enciclopedie virtuali, e ci sono biblioteche multimediali con bibliotecari olografici pronti a soddisfare le richieste dei visitatori. Ad uno di essi il nostro eroe pone domande sulla sua macchina del tempo, ma nessuna notizia gli viene comunicata, tranne qualche riferimento letterario sugli autori che hanno trattato l’argomento nei libri di fantascienza o nei film. La sua invenzione ufficialmente non esiste, tanto che viene scambiata per un distributore automatico di cappuccini e lui stesso viene minacciato di subire un ritocco del Dna, appena la gente si accorge che ha qualcosa di strano.

Assai frustrato, riparte e approda nell’apocalittico 2037.

L’umanità va verso l’autodistruzione, e la Luna si sta sgretolando proprio a causa dei troppi insediamenti umani sulla sua superficie. L’inventore fa del suo meglio per trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato: finisce in mezzo a una pioggia di detriti lunari, il satellite sta cadendo sulla Terra. Ferito, riattiva la macchina del tempo e sviene, cavalcando così senza controllo verso al futuro, addirittura fino a ottocentomila anni dopo. Scopre di trovarsi nella Terra del domani, un pianeta verde immaginato secondo il gusto New Age e popolato da gente primitiva ma assai libera: gli Eloi. Queste persone vivono a contatto con la natura ed in armonia perfetta con essa, in villaggi costruiti sugli alberi o abbarbicati a rocce a strapiombo su canyon. Hanno una tecnologia primitiva e venerano le Rocce (i resti della “nostra” New York), con quelle scritte che magari nemmeno sanno decifrare ma rappresentano, per loro, la magia e il sovrannaturale.

Il problema di questo mondo idilliaco è che gli Eloi non sono soli: sotto la superficie vivono i mostruosi Morlock. Si cibano di carne umana, sono fortissimi e ciascuno di essi è esperto in una sua specifica competenza – come le catene di montaggio? I Morlock sono guidati da un intelligentissimo telepate albino, che li controlla con poteri extrasensoriali. Prima di mostrarci il pericolo che incombe sugli Eloi, la sceneggiatura sviluppa un attimo il rapporto tra essi e lo scienziato. Hartdegen viene trovato da questi buoni selvaggi, si fa amico la giovane e bella Mara e il fratellino Kalen, vive con loro mesi e mesi, scoprendo a poco a poco l’esistenza dei cacciatori Morlock. Un giorno Mara viene catturata e a quel punto il nostro scienziato si decide a scendere nel sottosuolo. Dopo ovvi combattimenti riesce a salvare la ragazza, sconfiggendo l’albino e usando l’energia della macchina per uccidere i pericolosi Morlock, sacrificando però l’invenzione.

Hartdegen perde il suo mezzo di trasporto e non potrà più tornare indietro, ma si consolerà nel mondo idilliaco, tra gli Eloi, con la sua aborigena.

OTTIME LETTURE, BUON CINEMA E INTRATTENIMENTO CONTEMPORANEO

Si tratta dell’ennesimo remake di una pellicola di fantascienza che ebbe successo molti anni fa. È tratto dall’omonimo romanzo di H.G.WELLS e non per caso è stato diretto da SIMON WELLS, parente del grande scrittore di fantascienza. Il film è stato però completato con l’aiuto di GORE VERBINSKY, che ha sostituito Simon Wells a metà dell’opera e forse ha ritoccato a modo suo la vicenda, sfumandone le riflessioni politiche e sociali ed esasperando la pura spettacolarità. Rispetto al romanzo, e alla sua più famosa versione cinematografica, ovvero “L’uomo che visse nel futuro”, le modifiche sono tantissime. Alcune di esse attualizzano il film senza niente aggiungere o togliere; altre sono assai funzionali alla resa degli effetti speciali, altre infine stravolgono la vicenda, non sempre migliorando la forza espressiva delle pagine.

Gli adattamenti mirano a fornire occasioni agli strabilianti effetti speciali. E tendono a rassicurare lo spettatore. O a irritarlo. Il protagonista risente in pieno della trasformazione. Esiste un abisso tra il misogino eccentrico vittoriano del romanzo – lo strambo e aristocratico George – e l’atletico Hartdegen. Nelle pagine c’è un avventuroso esploratore a metà tra Gulliver e Richard Burton – il viaggiatore che esplorò l’Africa e tradusse il Kamasutra. Nel primo film troviamo un uomo insoddisfatto dalla propria epoca, anche se non sappiamo la motivazione precisa della sua frustrazione.

Nella pellicola del 2002, invece, il protagonista è perfettamente a suo agio nel mondo che lo circonda. Ciò che lo spinge a partire è il dolore per la perdita dell’amata, non la curiosità che anima il buon George. Il viaggio nel tempo, preceduto dall’evento drammatico, assume tutt’altro valore: il protagonista non è un novello Marco Polo né un Odisseo che vuole oltrepassare le Colonne d’Ercole, è solo un povero Romeo che ha perso la sua Giulietta, e senza il dramma probabilmente non si sarebbe mosso dalla sua cittadina, dal suo comodo laboratorio, dalla sua cattedra universitaria.

Emma è un personaggio creato per il film più recente, non esiste nel romanzo e nemmeno nella versione cinematografica anni ‘60. Se non fosse per la splendida fotografia, le sue morti sarebbero ridicole, verrebbe da pensare a Fantozzi o a Kenny, personaggio della sboccata serie a cartoni animati South Park – il bambino povero che muore in ogni puntata, per il divertimento degli spettatori. Se conoscete la serie, guardate pure le sequenze ripetendo a voi stessi: “Oh, God, they’ve killed Ken… ops, Emma! You bastards!”

La scelta di riproporre alcune delle stesse immagini della sequenza iniziale non pesa molto sulla narrazione grazie all’estrema eleganza formale, i colori della neve e del sangue e dell’abito compongono una scena che mantiene realismo senza scadere nello splatter. Il futuro più vicino a noi ha in serbo qualche buona trovata, i dialoghi in biblioteca ci ricordano Star Trek e i computer del mondo dell’Enterprise, mentre le disavventure della Luna possono ammiccare a Spazio 1999. Sono episodi inventati di sana pianta, che attualizzano le altrettanto apocrife due fermate già previste nel vecchio film.

Gli abitanti della Terra futura sono quanto di più distante dai personaggi del romanzo fosse possibile mettere in scena. Non troviamo più la minuscola popolazione di creature messe all’ingrasso, né il gruppo di prosperosi giovani apatici del primo film: troviamo al loro posto esseri umani per nulla cambiati da secoli di evoluzione! E sì che con le conquiste della grafica digitale e i miracoli delle protesi si sarebbero potuti creare esseri mutanti verosimili! Invece, immaginate di vedere una folla multirazziale con tratti – Celtici? Afro? Orientali? – non chiaramente riconducibili a etnie distinte. Pensate alle foto di Oliviero Toscani per Benetton, provvedete solo a vestire i modelli di abiti in pelle tagliati sulla falsariga degli abiti trendy di oggi. Va la New Age con tanto di sedicenti sciamani indiani d’America nati anche loro per caso in via Gluck?

Allora ecco case su piattaforme in un canyon, e tende per pareti: avrete gli Eloi versione 2002. Parlano un Inglese degno di una matricola di Cambridge quando a noi sono bastati 2000 anni per dimenticare il Latino. Eloi, brava gente che di quella animalità voluta da H.G.Wells ha ben pochi tratti, cittadini del futuro che né sono passivi e inetti come quelli voluti dalla prima versione cinematografica. Sono paragonabili a persone dell’età del bronzo, epoca in cui la tecnologia era agli albori ma avvennero grandi scoperte decisive per il progresso, chiaro segno che i cervelli di un tempo non erano meno brillanti di quelli di oggi, nonostante alle spalle avessero tecnologie più elementari. Che dire di Mara? Bene, benissimo, se vogliamo parlare di belle ragazze poco vestite. Ma se vogliamo dire qualcosa del suo personaggio o dell’interpretazione…

Wells probabilmente ancora si rivolta nella tomba al pensiero della procace bellezza aborigena, con tanto di fratellino e legami di clan, che sostituisce l’infantile creatura nata dalla sua penna (Weena). Mara non è affatto impacciata, e sa esprimersi con sentimenti adulti e compiuti, e così tutto il suo variopinto villaggio. Inoltre la storia d’amore è un ricamo che lo scrittore aveva voluto esplicitamente evitare! Per scelta dell’Autore, Weena si affeziona allo scienziato con i modi e la maturità di un animaletto domestico; serve per mettere in discussione il mito del buon selvaggio. Ve lo figurate un fior di professore universitario, che fino a qualche anno prima desiderava una donna intellettuale, a sbavare come un brufoloso nerd dietro a una simile creatura? Cambiata di aspetto, di ruolo, di nome, Mara è qualcosa di opposto a quanto Wells aveva immaginato. O piuttosto, è la solita bellezza discinta da andare a salvare, come la troviamo nei videogiochi degli anni ‘80! Se mai c’è stato, si conclude presto l’omaggio al Wells politico e utopista. Spunta un’americanata più imperdonabile di altre, ovvero arrivano i Morlock.

La produzione sceglie di creare un “cattivo” di eccezione, un leader albino dal fascino letale e dai terribili poteri telepatici. JEREMY IRONS è attore meraviglioso, affascinante in maniera anticonvenzionale, ed è un professionista bravissimo. Il suo personaggio, anche se recitato al meglio, mi pare tuttavia un regresso rispetto alle astrazioni del film precedente. In quest’ultimo non esisteva un capo dei carnivori del sottosuolo; c’erano invece parecchie creature simili tra loro. Alexander scende giù, e di tante specie che potevano essersi evolute nel corso dei secoli, trova immediatamente i Morlock e addirittura il loro capo, che prima di lottare si premura di fargli da guida turistica, come facevano i “cattivi” dei film sull’Agente 007, negli anni ‘60. Si cerca di rendere plausibile l’incontro spiegando che è l’albino stesso a “organizzarlo”, dopo aver percepito telepaticamente l’arrivo della macchina del tempo e del suo occupante. Il risultato è naif, un po’ come se si dovesse narrare la storia di un soldato delle truppe napoleoniche che va in guerra: forse andrà in Egitto e in Russia, potrebbe anche darsi che non veda mai Napoleone, ma se si narra la storia a un bambino o a un pubblico ingenuo, chi ascolta o legge vorrà per forza vedere il condottiero!

La battaglia risolutiva accontenta forse ragazzini di città, pantofolai, che mai hanno giocato a “indiani contro cowboy”. Tra Morlock ed Eloi volano dardi, ci si scambiano colpi e la gente non si fa nulla, anzi continua a girare in tondo come se le comparse non sapessero più che fare dopo aver recitato la loro parte. Il finale purtroppo conferma il tono scontato della la vicenda, che presenta cedimenti già a partire dal primo incontro del protagonista con gli Eloi. In particolare, gli ultimi cinque minuti sono strazianti per quanti amano l’avventura. Il crollo del pathos è colpa della sceneggiatura, che tende a semplificare le scelte narrative e a rassicurare ad ogni costo lo spettatore.

FUGA DEL PRIGIONIERO O DEL DISERTORE?

Ci sono persone che cercano nel cinema un paio d’ore di svago, altre preferiscono film artistici o di attualità, e altre vorrebbero trovare sullo schermo sogni intelligenti, per liberarsi per un poco dalla quotidianità apprezzandone una rilettura in chiave fantastica, pur evitando pellicole angoscianti o di difficile comprensione. Un film fatto bene dovrebbe poter accontentare a pieno almeno una di queste tipologie di fruitori, e rivolgersi ad essa in modo chiaro, senza indecisioni, così che ciascuno possa trovare la pellicola più adatta a sé e all’umore del momento.

Voler divertire – ed essere divertiti – senza pretese, non è certo un delitto: tutti abbiamo bisogno di alternare momenti impegnati ad altri di relax. Non è facile trovare un compromesso tra svago e riflessione, e spesso occorre rinunciare a uno dei due, ben venga quindi anche il cinema di solo intrattenimento, purché il medesimo tono pervada dal primo all’ultimo fotogramma, e il fine di svago non rappresenti una scialba rinuncia al poter approfondire migliori potenzialità di un’opera.

Per dare vita a un blockbuster avventuroso o fantastico occorre scegliere un testo che sia adatto allo scopo, leggero e ben congegnato, di buon ritmo, con personaggi collaudati, meglio se famoso, e con diritti d’autore scaduti da qualche anno. Forse Simon Wells ha diretto la sua pellicola seguendo criteri analoghi, tuttavia ha ottenuto un semplice remake del celebre film L’uomo che visse nel futuro ispirato al romanzo breve The Time Machine, anziché una propria personale interpretazione dell’opera dell’antenato.

Il libro unisce azione e ideologia. Wells e Verbinsky pare che nemmeno siano stati accarezzati dall’idea di rendere con fedeltà il difficile e scomodo capolavoro. Ne hanno saccheggiato qualche idea fondendola con elementi importati direttamente dal repertorio del cinema di avventura e del fantastico. Le varie modifiche semplificano il testo scritto e lo propongono in formato “per famiglie e giovani”, purgandolo da gran parte delle teorie politiche. Purtroppo per gli sceneggiatori, H.G. Wells voleva far riflettere sulla società, non gli interessava far sognare una serie di improbabili mondi futuri. Nelle sue pagine ci sono moltissimi riferimenti alle idee socialiste che sosteneva, e sono così radicati che non è possibile estirparli del tutto.

Quanto resta è solo qualche piccolo spunto di riflessione, che lieve affiora, e quando riemerge crea disagio, restando un accenno e mai sviluppato fino in fondo. Ne nasce un rifacimento che, pur garantendo due ore spensierate e intrattenimento di buona qualità, forse non accontenterà a pieno nessuno. Gli sforzi produttivi sono diretti più alla forma (è impeccabile) che alla sostanza (è assai scontata).

La trama, notissima, si avvia con un tono che poteva far sperare in un remake interessante, e invece finisce per arrancare tra i luoghi comuni del cinema di genere: l’eroe stazzonato e malconcio ma sempre bello, la procace ragazza che lo soccorre, la bella rapita dai mostri, la catastrofe, l’inseguimento nella giungla, i combattimenti impacciati e tanto prevedibili.

L’introspezione è quasi assente. Si fa presto a etichettare Alexander come “buono”: certo è animato dalle più nobili intenzioni, ma agisce senza minimanente riflettere sulle probabili implicazioni morali del correggere la realtà a suo vantaggio. Per quanto possiamo saperne, proprio mentre il protagonista evita il borseggio all’amata e la vede morire in altro modo, il delinquente può aver rapinato la banca, e ucciso due o tre persone! O, peggio, può aver innescato una serie di eventi destinati magari a scatenare una guerra con migliaia di morti. Dal punto di vista narrativo, è inverosimile che tornando indietro nel tempo non si possano modificare gli eventi passati creando un nuovo domani – e magari provocando danni assai più gravi di quelli sventati. Forse la legge che impone l’immutabilità degli eventi passati potrebbe rappresentare una motivazione più profonda alla scelta di spedire il nostro eroe solo avanti nel tempo, ma l’argomento viene appena accennato.

I registi evitano di far balenare anche questa possibilità di “effetto farfalla” allo spettatore, che invece si immedesima nel dolore dello scienziato e accetta ogni evento successivo, fosse anche degno del tema di ragazzino delle scuole elementari. Emma e Mara sono due pretesti, la prima un motivo posticcio per scatenare l’inventiva folle, la seconda, un “premio” per l’eroe, nel senso più stereotipato del termine. Mi trattengo a stento dall’insultare un finale conformista e cucito a misura di famiglia, un happy ending che dubito Wells scrittore avrebbe apprezzato. Gli attori se la cavano, chi meglio (Irons) chi alla meno peggio (l’aborigena, e il fratellino, che da solo farebbe venir voglia di innalzare un monumento a Erode.).

Forse è inutile pretendere performance artistiche quando esplicite pressioni commerciali esigono la presenza di un divo in un cameo di cinque minuti, di un attore protagonista celebre anche se non famoso quanto l’acclamato divo, di una o più belle ragazze, più qualche sfizioso comprimario… La colonna sonora è di routine, e se prendete i temi musicali di dieci film di avventura, otto avranno un sottofondo di questo genere, anche se stavolta è di qualità. Gli effetti speciali sono l’aspetto migliore del film: usati con mestiere vanno a valorizzare le inquadrature ogni volta nella maniera più adatta. Danno vita a mondi alieni, e almeno in casi come questo si rivelano ausili preziosi che niente tolgono alla sceneggiatura.

Se guardiamo in confronto la versione del film anni ‘60, che pure era realizzata con dispendio di mezzi, si sente che manca qualcosa (ma solo sotto questo unico punto di vista). Anche se ben fatto, il trucco artigianale non si fondeva con naturalezza con le altre sequenze, rimaneva un po’ freddo, o inserito in momenti meno felici. Nel remake il ritocco digitale, forse proprio perché assai sofisticato e usato con gran maestria, riesce a inserirsi e trasmettere senso di meraviglia. Fonde alla perfezione attori in carne e ossa e creazioni digitali, tanto che a stento si distingue il confine tra quanto è reale e quanto è postproduzione. La macchina da presa ha i movimenti rapidi delle produzioni contemporanee, anche se non si eccede con montaggi indiavolati.

C’è un insegnamento morale, un generico invito a godere la vita momento per momento, cogliendo a ogni stagione i suoi frutti, senza desiderio di primizie o appetito per piatti già assaporati. Un invito che per risultare efficace avrebbe dovuto svilupparsi durante l’intera pellicola, non con interventi sporadici così espliciti. Portato allo spettatore in questa forma, rischia di tradursi in leggerezza di sentimenti, in fatalismi o in scelte obbligate di valori che forse non sono quelli che ci esaltano, ma semmai quelli che possiamo realizzare con minore fatica. E allo stesso tempo la morale della favola vuole che si guardi sempre avanti, senza pretendere di riparare gli errori commessi in passato.

D’altra parte, gli stimoli della satira sociale vengono sopiti e restano in primo piano messaggi ambigui, indecisi tra il voler impartire una lezione etica secondo un galateo puritano, e il voler far da miccia per temi assai più universali – come quelli che sono presenti nel libro, socialista quasi bolscevico. Si sprecano preziose occasioni per riflettere sulla natura del destino del singolo e della società, sull’abbrutimento e sulla grazia, sulla purezza originaria e la forza della tecnica. Ma del resto, come si è detto, questa è una pellicola di puro svago e tale vuole rimanere, senza profondi intenti di riflessione.

“Tutti abbiamo le nostre macchine del tempo: i ricordi, che ci portano nel passato; i sogni, che ci spingono in avanti”: forse è questo l’unico dialogo da salvare, in un film piacevole e leggero, da guardare tutto di un fiato, in compagnia, con bibite e tanto pop corn.