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Il grembo
Era viva.
Era ancora viva.
Viva… di nuovo.
Come sempre, il Risveglio fu difficile. Il massimo del disappunto. Era una lotta, inspirare abbastanza aria per scacciare l’incubo del soffocamento. Lilith Iyapo restò distesa sul letto, boccheggiando, scossa dalla violenza dello sforzo. Il cuore le batteva troppo in fretta, troppo forte. Si rannicchiò in posizione fetale, inerme. Sentì tornare nelle gambe e nelle braccia il flusso della circolazione, in ondate di sottile e squisito dolore.
Quando il suo corpo si calmò, ormai rassegnato ad accettare di rivivere, Lilith si guardò attorno. La stanza le sembrò debolmente illuminata, ma prima di allora non si era mai Risvegliata nella penombra. Si corresse.
Questa penombra non era una semplice sensazione, era reale. Durante un precedente Risveglio aveva deciso di considerare reale ogni avvenimento, ogni percezione. Aveva pensato — quante volte? — che forse era impazzita o drogata, ammalata o ferita. Non aveva importanza. Non poteva avere importanza, finché era segregata a quel modo, finché veniva tenuta nell’impotenza, isolata, all’oscuro di tutto.
Si alzò a sedere, con un senso di vertigine; poi esaminò il resto della stanza.
Le pareti erano chiare… Bianche, o forse grigie. Il letto era quello di sempre: una solida piattaforma, morbida al tocco, che sembrava crescere dal pavimento. Dall’altra parte della stanza c’era una porta, che dava probabilmente nel bagno. Di solito aveva sempre avuto un bagno. Tranne due volte: e allora, nel suo cubicolo privo di porte e finestre, era stata costretta a usare semplicemente un angolo.
Andò alla porta, scrutò nella penombra uniforme, e si assicurò di avere davvero il bagno. Questa volta non c’erano solo water e lavandino, c’era anche la doccia. Un lusso.
Cos’altro aveva a disposizione?
Ben poco. C’era un’altra piattaforma, alta forse una spanna più del letto.
Forse serviva da tavolo, anche se mancavano le sedie. E sopra c’erano degli oggetti. Per prima cosa vide il cibo. La solita minestra o polentina tutta grumi, dal gusto incerto, in una ciotola commestibile che si disintegrava se una volta vuota non la mangiava.
E qualcos’altro, accanto alla ciotola. Non riuscendo a scorgerla con chiarezza, la toccò.
Stoffa! Un mucchietto di abiti piegati. Li afferrò, se li lasciò sfuggire di mano per la troppa impazienza, li raccolse e cominciò a indossarli. Una blusa chiara lunga fino alla coscia e un paio di calzoni larghi, di un materiale fresco e piacevolmente liscio che le ricordava la seta, anche se, per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi, non credeva fosse seta. La blusa aveva lembi adesivi che si chiudevano per sovrapposizione e si aprivano con un semplice strappo, come le chiusure Velcro, anche se erano diverse. I calzoni si chiudevano allo stesso modo. Da quando aveva cominciato a Risvegliarsi, era la prima volta che le permettevano di indossare vestiti. Aveva supplicato, per averli; ma quelli che l’avevano catturata non le avevano badato. Adesso, completamente vestita, provava un senso di sicurezza senza precedenti nonostante la prigionia. Sapeva benissimo che era un’impressione ingannevole, ma aveva imparato ad assaporare ogni piacere, ogni sensazione gratificante che poteva spigolare.
Mentre apriva e chiudeva la blusa sfiorò la lunga cicatrice sull’addome.
Se l’era procurata, non sapeva come, nel periodo compreso fra il secondo e il terzo Risveglio; l’aveva esaminata con timore, chiedendosi cosa le avevano fatto. Cosa aveva perso, o guadagnato? E perché? Quali altre possibilità c’erano? Ormai non apparteneva più a se stessa. Potevano tagliarla e ricucirla a sua insaputa e senza il suo consenso.
Nei Risvegli successivi aveva avuto momenti di autentico furore, perché aveva provato addirittura una reale gratitudine verso chi l’aveva mutilata, solo perché le aveva permesso di dormire durante l’operazione… ed essere stato tanto abile da risparmiarle dolore o danni permanenti.
Si lisciò la cicatrice, seguendone i contorni con il dito. Alla fine si sedette sul letto e consumò il pasto insipido, mangiando anche la ciotola, più per variare il sapore che per vero appetito. Poi si dedicò alla più vecchia e più futile delle sue attività: la ricerca di una fessura, di un suono vuoto, di qualche indicazione di una via d’uscita dalla sua prigione.
L’aveva fatto a ogni Risveglio. Durante il primo aveva lanciato grida di sfida, continuando a cercare. Non ricevendo risposta, aveva urlato, e poi pianto, e poi imprecato, fino a perdere la voce. Aveva colpito con i pugni le pareti, finché le mani le si erano grottescamente gonfiate e avevano cominciato a sanguinare.
Non c’era stato nemmeno un mormorio di risposta. Coloro che l’avevano catturata parlavano quando decidevano loro, non prima. Non si erano mai fatti vedere. Lei restava chiusa nel suo cubicolo, e le loro voci le giungevano dall’alto, come la luce. Non si vedevano altoparlanti, né l’origine della luce. Come se il soffitto intero fosse un altoparlante e una fonte luminosa…
e forse anche un ventilatore, perché l’aria non era mai viziata. Si era fatta l’idea di trovarsi dentro uno scatolone, come un topo in gabbia. Forse più in alto c’era gente che l’osservava, attraverso un vetro unidirezionale o una specie di apparecchiatura video.
Perché?
Non c’era risposta. Lo aveva chiesto ai suoi carcerieri, quando finalmente si erano decisi a parlarle. Ma loro si erano rifiutati di dirglielo. Le avevano rivolto delle domande. Domande semplici, all’inizio.
Quanti anni aveva?
Ventisei, aveva risposto dentro di sé. Aveva ancora solo ventisei anni?
Da quanto tempo la tenevano prigioniera?
Era stata sposata?
Sì, ma lui era morto, da molto, molto tempo, ed era fuori dalla loro portata, fuori dalla loro prigione.
Aveva avuto figli?
Oddio. Un figlio, morto da tempo, insieme al padre. Un solo figlio. Morto. Se esisteva l’oltretomba, chissà adesso com’era affollato.
Aveva avuto affini? Era proprio questa la parola che avevano usato. Affini.
Due fratelli e una sorella, probabilmente morti anche loro come il resto della sua famiglia. La madre, morta da tempo; il padre, probabilmente morto; e varie zie, zii, cugini, nipotine e nipotini… probabilmente morti.
Che lavoro aveva svolto?
Nessuno. Figlio e marito l’avevano tenuta occupata per quei pochi anni volati via. Dopo l’incidente stradale che li aveva uccisi lei era tornata all’università, in attesa di decidere cos’altro poteva fare nella vita.
Si ricordava della guerra?
Domanda idiota. Chi aveva provato la guerra poteva forse dimenticarla?
Un piccolo gruppo di persone aveva tentato di sterminare l’umanità. E a momenti ci riusciva. Lei, per pura fortuna, era sopravvissuta… solo per cadere prigioniera di Dio sa chi. Si era offerta di rispondere alle loro domande, se la facevano uscire da quel cubicolo. Avevano rifiutato.
Aveva proposto uno scambio di domande. Chi erano? Perché la tenevano prigioniera? Dove si trovava? Risposta per risposta. Di nuovo, avevano rifiutato.
Allora anche lei si era rifiutata di rispondere, e aveva ignorato i test fisici e psicologici ai quali avevano tentato di sottoporla. Non sapeva cosa le avrebbero fatto. Aveva il terrore che le facessero male, che la punissero, ma sentiva che doveva correre il rischio di scendere a patti, nel tentativo di guadagnare qualcosa, e l’unica moneta di scambio in suo possesso era la disponibilità a collaborare.
Loro non la punirono, né scesero a patti. Smisero semplicemente di parlarle.
Il cibo continuava misteriosamente a comparire, quando lei dormiva.
L’acqua continuava a scorrere nei rubinetti del bagno. La luce continuava a splendere. Ma oltre questo, non c’era nulla, nessuno, nessun suono che non fosse provocato da lei stessa, nessun oggetto con cui passare il tempo. C’erano solo le piattaforme che fungevano da letto e da tavolo. E che restavano fissate al pavimento, per quanto si affannasse a smuoverle. Dalla loro superficie le macchie sparivano in fretta. Aveva passato inutili ore a cercare di risolvere il problema di come danneggiarle. Era una delle attività che contribuivano a mantenerla relativamente sana di mente. Un’altra era il tentativo di raggiungere il soffitto. Non c’era nulla su cui salire, per poi arrivare con un balzo al soffitto. Come esperimento, aveva scagliato in alto una ciotola di cibo, l’arma migliore di cui disponeva. Il cibo si era appiccicato al…
Tit. originale: Dawn
Anno: 1987
Autore: Octavia Estelle Butler
Ciclo: Ciclo della Xenogenesi (Xenogenesis Trilogy) #1
Edizione: Mondadori (anno 1987), collana “Urania (speciale)” #1058
Traduttore: Gaetano Staffilano
Pagine: 192
Dalla copertina | Non sempre il Primo Contatto è destinato ad avere una soluzione escapista o pseudolirica come quella di Incontri ravvicinati del terzo tipo. La forza autenticamente innovatrice della fantascienza narrativa può superare di gran lunga la suggestione degli effetti speciali, come dimostra la storia di una superstite dell’olocausto nucleare che ha distrutto la Terra, Lilith Iyapo. Al suo risveglio a bordo di un’astronave aliena duecentocinquant’anni dopo il suicidio collettivo del genere umano, Lilith scopre che gli enigmatici Oankali l’hanno curata da un cancro insanabile per offrirle una sfida incredibile: l’inizio della Xenogenesi, ovvero la fusione fra i superstiti dell’umanità e una razza aliena che da millenni vaga nel cosmo alla ricerca di nuovi ceppi genetici. Il ritorno sulla Terra parzialmente rigenerata è possibile, ma solo per coloro che accetteranno una nuova strada evolutiva aperta all’Homo Sapiens… e per i loro figli che non potranno più essere soltanto umani.