Un Americano alla Corte di Re Artù

Un Americano alla Corte di Re Artù

Nato in Florida nel novembre del 1835, Samuel Langhorne Clemens scelse lo pseudonimo con cui è noto al grande pubblico basandosi sull’esperienza quotidiana della propria vita lavorativa. “Mark twain”, letteralmente “segna doppio”, era l’espressione utilizzata sui battelli fluviali che discendevano il Mississippi, per indicare la profondità delle acque. Samuel, prima che uno scrittore, fu un pilota di battelli a vapore. Proprio quei battelli che, in un modo o nell’altro, hanno popolato i suoi capolavori più famosi (Le Avventure di Tom Sawyer, Le Avventure di Huckleberry Finn…).

Ed è stata proprio questa sua capacità di riversare direttamente nelle pagine del libro la vita provata sulla pelle che ha fatto di Twain il talento forse più autentico nel panorama letterario americano della seconda metà dell’Ottocento.

Così come la conoscenza puntuale degli ambienti rende le sue descrizioni asciutte e precise, in maniera analoga l’esperienza tecnica, che costituiva un bagaglio importante della sua formazione professionale, permea tutta la sua produzione, spiccando in modo particolare nel testo di Un Americano alla Corte di Re Artù (A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court) edito nel 1889.

In quest’opera, la scarsa conoscenza geografica dei luoghi narrati (soprattutto se paragonati alle sponde del Mississippi) lascia spazio a un’ampia serie di digressioni tecniche su telefono, elettricità, cannone, macchina a vapore, carta stampata e altri anacronismi che colorano l’immaginaria campagna inglese della Camelot medioevale.

Il romanzo racconta di un viaggio nel tempo. Utilizzando uno stratagemma simile a quello adottato da Manzoni ne I Promessi Sposi, Twain presenta al lettore ciò che definisce come l’adattamento di un diario donatogli da un certo signor Morgan, eccentrico vecchietto fantasticamente incontrato nei pressi del castello di Warwick (Inghilterra). La storia altro non sarebbe che la trascrizione della straordinaria esperienza accaduta “realmente” a costui.

A causa di una botta in testa rimediata durante una rissa, il protagonista Hank, ordinario cittadino del Connecticut, viene catapultato indietro nel tempo (nel 528 d.C.) presso la corte di Re Artù.

Catturato da un cavaliere e reso schiavo, riesce a riscattarsi grazie alle proprie cognizioni tecnico-scientifiche: in breve tempo spodesta il celeberrimo Merlino diventando il primo ministro del regno di Camelot e il “mago” più potente di tutta l’Inghilterra.

Facendo leva sulla posizione di potere e attraverso le conoscenze di metà Ottocento, Hank intende anticipare la storia e trasformare profondamente la vita sociale e politica dell’Inghilterra del VI secolo. I suoi ambiziosi obiettivi sono l’abolizione degli ordini cavallereschi e l’istituzione della repubblica.

Finirà male.

La storia non può essere riscritta, soprattutto da chi la conosce soltanto superficialmente. Questo almeno è quanto sembra volerci insegnare l’autore.

A dispetto dell’idea diffusa secondo la quale si tratterebbe di una lettura per ragazzi, Un Americano alla Corte di Re Artù costituisce uno degli esempi di miglior satira sociale della letteratura americana.

Collocando la vicenda in un luogo e in un tempo alternativi, Twain riesce a far risaltare, in contrasto stridente con questo improbabile sfondo, il vero protagonista del suo romanzo: l’“homo americanus”. L’ambientazione stessa, quell’Inghilterra medioevale, origine ancestrale della storia americana ma in aperto contrasto con l’idea che l’America del XIX secolo ha e dà di sé, è tutt’altro che una scelta casuale. Se il Medioevo è infatti generalmente considerato l’epoca in cui dominano disuguaglianza sociale, ignoranza e superstizione, il contesto americano da cui proviene il protagonista sembra incarnare (ma solo formalmente) tutti i benefici derivati dalle conquiste politiche e tecnologiche dei secoli successivi.

Al di là delle illusioni, invece, quello di Hank − e dell’autore − è un presente fatto ancora di disparità, insipienza, povertà e ingiustizia. Il termine dispregiativo yankee, ancora utilizzato ai tempi di Twain per stigmatizzare il “nordista”, definisce qui una persona forte d’ingegno ma priva di una reale conoscenza del passato, e di conseguenza mancante degli strumenti intellettuali per poter analizzare in profondità le contraddizioni del proprio tempo.

Spinto dal proprio senso pratico e da un superficiale ottimismo, Hank s’imbarca nell’impresa di trasformare una nazione e un popolo in fondo a lui sconosciuti, convinto che gli “oggetti moderni” quali il telefono, l’elettricità, il vapore, spogliati della storia che li ha prodotti, possano condurre Camelot verso “l’idea di Progresso” partorita nell’età dei Lumi e successivamente declinata nei diversi contesti storici e sociali del mondo del XIX secolo.

Il tentativo di cambiare il passato porta Hank a mettere in atto le strategie disoneste e perpetrare le stesse ingiustizie ancora radicate nel progredito mondo del futuro. Se da un lato denigra la superstizione e la credulità della gente, dall’altro se ne serve per raggiungere i propri scopi; se da una parte aspira alla democrazia, dall’altra non esita a eliminare qualunque avversario la pensi diversamente da lui. Inneggia infine al Progresso foriero di pace, ma utilizza le proprie conoscenze per forgiare armi da guerra; le stesse armi che lo distruggeranno.

Ecco quindi che anche in questo romanzo, come nei suoi più famosi capolavori, Twain mette a fuoco il tema che più gli sta a cuore: l’America nel passaggio fra il XIX e il XX secolo, presuntuosa nel pretendere di poter condizionare positivamente il corso del presente ignorando gli insegnamenti del passato. Uno spicchio di umanità con una scarsa cultura e una comprensione approssimativa della storia, che sembra incapace di costruire un futuro migliore senza incorrere nei medesimi errori già commessi da chi l’ha preceduta.