Unfacebook è l’ultima fatica di Stefano Simone, già regista di un’interessante pellicola dedicata alla fede in Padre Pio, dal titolo Una vita nel mistero. Il giovane autore si cimenta stavolta con un thriller soprannaturale, ispirato al racconto Il prete di Gordiano Lupi.
Ne è protagonista un sacerdote che si confronta con la difficile realtà della costa pugliese: tossicodipendenze, criminalità, pedofilia, ma anche banali storie di truffe, di tradimenti familiari, di esistenze allo sbando. Stanco di perdonare i peccatori recidivi, il prete non esita a trasformarsi in un vero e proprio giustiziere, convinto in tal modo di realizzare il volere divino.
Per dispensare le sue ‘punizioni’, sfrutta i mezzi offerti dalla tecnologia: studia l’ipnosi e con essa plagia i parrocchiani, avvicinando le pecorelle smarrite durante le confessioni e poi, grazie a telefonate e messaggi sui cellulari, spingendone alcune al suicidio; si avventura nel web, facendosi conoscere sulla popolare chat ‘Unfacebook’ con il nickname ‘Cavaliere Templare’, e lì raduna giovani seguaci, li condiziona, finge di appagare il loro bisogno di protagonismo… fino a trasformarli in un esercito di fanatici pronti a eliminare i malfattori.
I delitti e i numerosi casi di suicidio vengono però notati dal Questore, che incarica un Commissario di svolgere indagini…
Commento
Unfacebook è una pellicola che molto deve all’esperienza dell’horror indipendente degli anni Settanta, quello di John Carpenter e George Andrew Romero, basato su una grande creatività e su mezzi contenuti, animato da un forte impegno civile e sorretto da sceneggiature solide.
Sostenuto dal Comune di Manfredonia, Stefano Simone attualizza il linguaggio del cinema di genere e fonde intrattenimento e riflessione. Sfrutta una trama poliziesca ricca di scene forti e sequenze degne di un videoclip per esporre una disincantata critica sui malesseri della società. Il tema principale di Unfacebook è l’analisi dei rapporti umani trasformati e distorti dalla diffusione di Internet. Per molte persone la realtà virtuale rappresenta un modo per compensare le frustrazioni dispensate dalla normale quotidianità. Delusi da rapporti superficiali, da sconfitte e rinunce, in molti si rifugiano nel ‘paradiso’ dei social network, regni dove la rivincita sembra essere a portata di mouse. Ma lì, a poco a poco, alcuni di costoro finiscono per preferire il mondo al di là del monitor e sostituire la finzione alla realtà… a quel punto, Internet diviene una sorta di droga.
Davanti all’alienazione dei cittadini, le istituzioni mostrano i loro limiti: il disagio sfugge agli stereotipi, ai legami con la povertà materiale, la mancanza di istruzione, l’illegalità o le devianze. E anche la Chiesa appare spesso inadeguata a combattere i nuovi malesseri, con la sua difficoltà di ascoltare e perdonare, l’incapacità di contrapporre alternative e offrire risposte concrete alle esigenze dei fedeli. Le parrocchie vengono dirette come grandi imprese e offrono attività edificanti, utili ma difficilmente in grado di appagare certe ambizioni; la vita comunitaria, quindi, non sempre riesce a contrapporsi con efficacia al fascino del mondo virtuale.
Ovviamente i personaggi di Unfacebook sono estremi, creati con l’intenzione rendere evidenti i pericoli del web; il regista sceglie un sacerdote qualunque, ce lo fa conoscere, è uno dei tanti anonimi preti che convivono con l’indifferenza dei parrocchiani, con i peccatori incalliti e le debolezze umane. Davanti al monitor egli si sente davvero un crociato in battaglia, come il suo nickname dichiara apertamente, un invincibile giustiziere pronto a scatenare l’Armageddon; e forse cede lui stesso al fascino del mondo virtuale.
Viene da sospettare che tutti i personaggi principali del film siano vittime del paradiso artificiale creato nelle chat: il sacerdote che è carnefice e vittima, il poliziotto che indagando scopre a sua volta l’attrattiva del web, i giovani che vengono privati della volontà e mandati a massacrare i peccatori…
Quando la forma è sostanza
Oggi troppi registi di genere danno rilievo agli effetti speciali e mettono in secondo piano i contenuti; Stefano Simone compie scelte diametralmente opposte. Opta per un racconto horror ispirato all’attualità e ne estrapola una sceneggiatura solida e lineare. Realizza un film che concilia riflessione e fantasia, estetica e contenuti, senza troppi dolorosi compromessi.
Qualche minuto di proiezione è doverosamente impiegato per spiegare il fenomeno dei social network, e facilitarne la comprensione a quanti abbiano poca familiarità con Internet ed il suo slang. Ne risente il ritmo della pellicola, in qualche momento appesantito da dialoghi che possono suonare didascalici e ben figurerebbero in un copione teatrale. A parte questa pecca, probabilmente inevitabile, la pellicola decolla, omaggia i Grandi del passato e ben rappresenta la rinascita di un genere.
Alcuni degli attori provengono dal palcoscenico, come il bravo Tonino Pesante (già protagonista di Una vita nel mistero) nei panni del questore; il commissario è interpretato da Paolo Carati, e Giuseppe La Torre recita il ruolo del sacerdote.
Dal punto di vista formale, il film funziona grazie a un’idea azzeccata, mezzi adeguati per trasporla, attori capaci, e una pregevole confezione. Il montaggio è perfetto, la colonna sonora evoca le belle musiche degli horror italiani, e tutti i virtuosismi sono ben inseriti nella vicenda, a stimolare la riflessione. La macchina da presa vaga in ambienti degradati, ritrae macerie e vicoli degni di una borgata pasoliniana, oppure inquadra centri urbani dove il benessere c’è ma mancano rapporti umani autentici e soddisfacenti.
L’ambientazione sarebbe solare, Manfredonia è una deliziosa cittadina sul mare, ricca di storia e di bellezze paesaggistiche, eppure le vie popolate da auto in sosta, percorse da rari passanti, oppure trasfigurate in un minimale cartoon rendono l’atmosfera claustrofobica. Le inquadrature eludono sempre qualche particolare delle figure umane, quasi a sottolinearne l’incompiutezza e la conseguente insoddisfazione. Nelle sequenze che mostrano le persone davanti al computer, ci sono piani americani che escludono parte della testa, primi piani che tagliano il volto, mettendo in rilievo la profonda scissione che la realtà parallela del web genera negli individui.
Altrettanta importanza ha l’intervento del computer sulle immagini, visto che la fotografia ne viene alterata, viene resa assai contrastata e satura del colore azzurro. Bianco e azzurro sono colori che alludono a quelli del più famoso social network. Gli effetti speciali sono quindi davvero minimali, viene dato risalto al montaggio e alla fotografia.
Le scene dei suicidi sono un gioiellino, in particolare la morte del pedofilo: il regista lascia immaginare l’estrema violenza, mentre le immagini crude si limitano a pochi fotogrammi, mostrati brevemente e resi incisivi dal montaggio. Il vero orrore è subliminale, come i messaggi, racchiuso in quei fotogrammi che vediamo un attimo, o non vediamo affatto e immaginiamo di vedere.
Il Veglio del Web
Unfacebook è un film in apparenza anticlericale; lo spettatore si rende conto dei molti problemi della Chiesa e delle tante difficoltà incontrate quotidianamente dai sacerdoti. Le ombre della pedofilia gravano su indegni ministri, gli oratori sono trasformati in parcheggi per adolescenti oppure offrono a grandi e piccini un ambiente lontano dalle mode e forse per questo inappagante.
La Chiesa ha come sua colpa la diminuita capacità di relazionarsi con le richieste della società, con le aspirazioni dei singoli. Ma questo è un tema secondario, in Unfacebook il sacerdote più che rappresentare una confessione incarna un leader carismatico. La sua vicenda ricorda per molti versi la leggenda del Veglio della Montagna, diffusa in Occidente da Marco Polo. Nel Milione si narra di un capo che ha allestito un giardino analogo a quello paradisiaco promesso da Allah ai fedeli. Vi fa entrare ingenui giovani; con trucchi, droghe e messinscene fa credere loro di trovarsi davvero in Paradiso; se vogliono restare a vivere lì, devono però obbedire ciecamente al Veglio, compiendo missioni pericolose, spesso mortali.
È più o meno quanto accade nel film, che ripropone la leggenda in chiave moderna e denuncia i pericoli di un uso malsano delle chat e dei social network in particolare. Schiave della dipendenza da Internet, le persone perdono a poco a poco il proprio libero arbitrio preparandosi a diventare succubi di qualsiasi leader prometta loro il rinnovarsi del piacere virtuale. Nel caso specifico, questo leader è un sacerdote, ma avrebbe potuto essere una qualsiasi altra figura di riferimento, come uno psicologo, un santone, un insegnante, un politico…
La critica rivolta a Internet è abbastanza obiettiva, poiché il regista ne riconosce sia i rischi sia la grande utilità, della rete in generale quanto dei social network in particolare. Sono strumenti validi nel momento in cui promuovono, assecondano o consolidano sentimenti vissuti nel reale, quando muovono popoli verso la conquista della democrazia, sbugiardano le malefatte dei tiranni, svelano il prezzo dei conflitti, quando avvicinano la gente alla cultura oppure aiutano gli autori a far conoscere le loro opere.
Lo stesso film è una produzione indipendente, e in quanto tale ringrazia il web! E, attraverso questo stesso strumento, lo raccomandiamo.