Wolfhound è un barbaro del clan dei Cani Grigi; era solo un bambino quando un manipolo di guerrieri, dopo aver fatto irruzione nel suo villaggio massacrando tutti, compresa la sua famiglia, lo prese come schiavo gettandolo poi a lavorare in miniera. Sono passati molti anni da quel funesto evento e, un giorno, il prigioniero trova finalmente modo di uccidere un sorvegliante e scappar via. Il suo primo pensiero è quello di vendicare il suo popolo, così si mette alla ricerca di Zhadoba, il responsabile dell’eccidio. Strada facendo incontrerà diversi personaggi straordinari che si uniranno a lui: una schiava, un guaritore e veggente cieco, un’amazzone, un druido…
Per perseguire il suo scopo, Wolfhound si fa assumere come guardia del corpo della principessa Elen di Galirad, promessa sposa del signore di Vinitar ma anche oggetto delle attenzioni proprio di Zhadoba. Il sangue magico che scorre nelle vene della giovane è infatti l’ingrediente necessario a un terribile incantesimo attraverso cui Zhadoba intende risvegliare una divinità malvagia. Per realizzare le sue mire, lo spietato individuo si avvale di una spia all’interno della corte di Galirad, oltre che dell’appoggio dei suoi biechi accoliti, i thug, riconoscibili per un tatuaggio a forma di testa di lupo che tutti portano al polso. Il piano è quello di rapire la principessa durante il viaggio (condotto attraverso una terra selvaggia) che ella dovrà affrontare per raggiungere il regno del futuro marito… Zhadoba dovrà però vedersela con Wolfhound e compagni, e questi ultimi a loro volta col traditore che si annida in mezzo a loro.
La resa dei conti si terrà presso un tempio tra le montagne, ai Cancelli di Morana…
CONAN REMIX
Girata nel 2007 da Nikolay Lebedev, Wolfhound (Volkodav iz roda Serykh Psov) è una pellicola fantasy russa che, a una prima occhiata, sembra ricalcare Conan il barbaro. I trascorsi del protagonista assomigliano a quelli del più celebre forzuto, e anche la sua avventura ricorda per certi versi quella immortalata nel film di John Milius. Le sequenze della forgiatura della spada magica, per esempio, o l’attacco al villaggio, e lo stesso aspetto del nemico, sono elementi praticamente identici tra i due film. Se tuttavia la giovinezza dell’eroe in Conan era stata narrata seguendo un ordine cronologico, in Wolfhound il passato affiora tramite diversi flashback, distribuiti nel corso della narrazione, e lascia maggiore spazio all’immaginazione dello spettatore. Ignoriamo infatti come, da comune schiavo ‘armato’ di piccone, il barbaro abbia potuto imparare a utilizzare una spada, e dobbiamo dunque supporre precedenti e taciute avventure.
Wolfhound non è comunque il parente povero, sfregiato e deperito dell’eroe di Howard; piuttosto ne è una versione rivisitata e attualizzata. Meno forte, non invincibile, usa i muscoli quando l’intelligenza non basta a risolvere i problemi. Inoltre la spiritualità del mondo che gli fa da sfondo è radicalmente diversa da quella che anima le avventure del Cimmero. Gli dei di Conan sono invenzioni degli uomini, strumenti in mano ai potenti che sfruttano la credulità del popolo per imporre il proprio volere, o in certi casi sono creature concrete, malevole e tutt’altro che divine, un po’ come i Grandi Antichi descritti da H.P. Lovecraft. Conan teme la magia e diffida della religione, crede solo nell’acciaio, e il suo universo è cupo, ateo e spesso corrotto. Le forze sovrannaturali che aleggiano nel mondo di Wolfhound sono invece divinità vere e proprie, guidano il fato dei mortali e possono manifestarsi per distruggere o salvare chi ha fede in loro. Il senso del sacro permea ogni creatura: la gente cede fermamente negli dei, sono comuni le figure dei druidi, dei veggenti, dei guaritori, esistono magiche reliquie in grado di influenzare i destini di uomini ed immortali… Lo stesso eroe viene rianimato numerose volte dall’intervento di magie benefiche, e durante lo scontro decisivo invoca l’aiuto del dio del tuono, protettore della sua stirpe. Si può semmai obiettare che il destino dei personaggi sia troppo spesso affidato al deus ex machina, con le divinità che guariscono, intervengono, risolvono situazioni difficili, a volte in maniera spudorata.
Il misticismo pagano è ad ogni modo l’elemento più notevole del film: esso sostiene una trama non particolarmente originale e crea un’atmosfera suggestiva. Wolfhoud poteva essere un B-movie a tutti gli effetti, una rivisitazione scialba di Conan con un protagonista meno palestrato, ma se si salva è proprio grazie alla buona ambientazione offerta dal suo mondo ancestrale.
TOLKIEN & COMPANY
Nella pellicola di Lebedev non mancano echi dalla trilogia de Il Signore degli Anelli, anche se si limitano ad alcune soluzioni visive come la partenza dal villaggio della principessa, le panoramiche sulle splendide montagne o la mano coperta dal guanto armato. Il viaggio di un involontario eroe destinato a salvare il mondo e protetto da un manipolo di eroi, di per sé, rientra negli stereotipi di genere, ma il canovaccio specifico di Tolkien presto si smorza, sopraffatto dai toni della fantasy eroica.
Nonostante la singolare presenza di un pipistrello che lo accompagna, e l’estetica più verosimile, Wolfhound è l’ennesimo vendicatore destinato a cambiare il proprio destino a suon di fendenti. Meno scontata appare la principessa, un personaggio femminile più approfondito rispetto alle consuete bellezze discinte, che di solito rappresentano una sorta di premio partita per i protagonisti. Elen è nobile, e consapevole delle responsabilità e dei doveri connessi alla sua condizione. È attratta da Wolfhound e certamente preferirebbe concepire un erede con lui piuttosto che con lo sconosciuto sire che si appresta a sposare per esigenze politiche, ma rimane fedele alla ragione di stato anteponendola a quella dell’amore… anche se poi il lieto fine ridimensione il suo ruolo, riconducendolo agli stereotipi della narrazione di genere, purtroppo. Un malinconico addio in luogo del facile ‘e vissero felici e contenti’ avrebbe svilito meno il personaggio.
Per quanto riguarda i comprimari, si limitano a offrire spunti per avventure o a ricoprire ruoli necessari al dipanarsi della vicenda: il guaritore cura l’eroe con incantesimi potenti, la guerriera rivela in punto di morte il luogo dove avverrà l’evocazione… e così via. Spesso il nostro eroe li salva da terribili destini, guadagnandosi così la loro fedeltà.
La trama viaggia su varie ingenuità più o meno dissimulate, come le prevedibili imboscate, i salvataggi, le favorevoli ‘coincidenze’, le magie usate ad hoc… Indovinare l’identità del traditore è poi un gioco da ragazzi.
ETNOFANTASY
Wolfhound è un film heroic fantasy che si concede momenti di lirismo inaspettato. Intere sequenze immortalano i paesaggi del Massiccio del Tarta, i laghi con le alghe mosse dall’andare della zattera, le vette innevate o ricoperte di impenetrabili foreste… La fotografia è curata fino al virtuosismo, e regala momenti di autentica commozione. Il montaggio lento valorizza le splendide location e bene contrasta con le più movimentate sequenze di combattimento. La violenza c’è, ma il regista imbastisce un ottimo compromesso tra verosimiglianza e buon gusto. I soldati saccheggiano, uccidono e stuprano, ma le nefandezze sono inscenate senza indulgere in immagini splatter o esplicite. Perfino il sangue che spruzza dalla mano mozzata del druido non è fine a se stesso ma sottolinea una natura sovrannaturale.
La grafica digitale fonde scenografie realizzate in studio con immagini inserite mediante la tecnica del blue screen. Lo stesso pipistrello, Ala Spezzata, è costruito in 3D. Gli effetti speciali danno vita anche al castello del Cannibale, allestito in un set e ritoccato al computer, e a Galigrav, città costruita nello storico Mosfilm e alterata in modo da celare i grattacieli in lontananza. Le animazioni digitali intervengono quando davvero occorre, e soprattutto nell’ultimo quarto d’ora si rivelano indispensabili. Lo scontro finale abbonda di portenti computerizzati: la montagna prende vita, la spada si trasforma in un fascio luminoso grazie all’intervento del dio del tuono, la parete si anima e ne scaturisce un gufo di pietra, il tempio crolla e i detriti vorticano formando una colonna di lava e roccia. Tanti prodigi sono necessari per ottenere quella giusta spettacolarità che oggi si esige da una pellicola fantasy.
Wolfhound emula eroi e situazioni rese popolari da letteratura e cinematografia di genere, ma rispetto alle ennesime imitazioni di titoli famosi, i luoghi comuni sono reinterpretati in versione folcloristica. Viene valorizzata la tradizione fiabesca russa, che porta una ventata di sana innovazione.
I costumi sono una vera festa per l’occhio; realizzati a basso costo, con pelli e pellicce di scarto, riflettono usi di etnie diverse e mostrano colorazioni differenti a seconda delle ambientazioni: tenui per il villaggio, accesi per Galirad. I guerrieri girano con armature a scaglie di cuoio, mentre gli elmi sono una rarità; Zhadoba ne indossa uno che in una metà raffigura una maschera e nell’altra un teschio: un privilegio da capo, o un mezzo per nascondere il volto devastato dagli effetti delle sue oscure stregonerie.
I paesi sono piccoli, e quelli che si definiscono ‘regni’ consistono in poche vie sterrate con palazzi fatti di legno, sovrastati da tetti tipici dell’Est Europa. Si rifanno al folclore anche i riti di nozze che prevedono che la sposa vesta in rosso e usi scialli, e le figure degli sciamani che vivono nel villaggio della cacciatrice di orsi. Visivamente suggestivi sono i fantasmi che infestano le paludi sotto forma di nebbia risucchiando i malcapitati viaggiatori, mentre gli spiriti benevoli dei trapassati appaiono vestiti di bianco, nella luce.
Anche la colonna sonora è ispirata alla tradizione: anziché temi epici sulla falsariga di Hanz Zimmer, troviamo delicate partiture che ammiccano a gruppi quali Ivan Kupala o Meltisna.
Il folclore insomma rivitalizza la pellicola e la sottrae alla mediocrità dei B-movie… Nonostante i limiti, Wolfhound ha vari pregi: è un fantasy russo e dimostra che nel Vecchio Mondo è possibile sfruttare e rielaborare l’esperienza di Hollywood, producendo opere valide.