Circa un secolo fa, transfuga dal remoto pianeta Biar distrutto dalle forze di un essere chiamato Gaizok, un pacifico gruppo di alieni raggiunse la Terra e vi si stabilì con l’intenzione di costruirsi una nuova vita. Oggi Gaizok ha incrociato il nostro mondo, e le tre famiglie discese da quegli extraterrestri (i Jin, i Kamikita e i Kamie) sono costrette a riprendere le armi per proteggere l’Umanità. La lotta, senza quartiere, sarà resa ancor più tormentata dal pregiudizio dei Terrestri verso coloro che li stanno difendendo.
Zambot 3 (Muteki Choujin Zambot 3), trasmesso per la prima volta in Giappone nell’ottobre del 1977, rappresenta un prodotto atipico e, sotto vari aspetti, innovativo del genere robotico, del quale riprende sì l’ultima tendenza (quella del robot componibile) ma calandosi in uno scenario sociale che, se non si può ancora definire realistico, è certamente molto meno infantile rispetto a quanto s’era visto fino ad allora.
I precedenti (dal ‘72, anno d’uscita di Mazinga Z) avevano abituato il pubblico ad aspettarsi, dalle serie sui robot giganti, un schema narrativo costituito da certi precisi elementi, e non da altri: in ogni episodio c’era, in varia misura, l’approfondimento dei protagonisti (e di volta in volta di qualche personaggio secondario), quasi sempre lo sviluppo di sottotrame autoconclusive, e naturalmente l’immancabile scontro tra il gigante d’acciaio (o di qualche superlega particolare) e il mostro nemico. La progressione della trama, di puntata in puntata, riguardava in genere solo questi fattori, e per dare vivacità si giocava tutt’al più sulle variazioni nel rapporto di forze tra i buoni e i cattivi, con l’introduzione di nuove armi o nuovi personaggi. Molto raramente si prestava interesse allo scenario. Nei combattimenti, per esempio, l’attenzione era focalizzata sui robot, e le distruzioni (le città teatro degli scontri di solito venivano letteralmente rase al suolo) avevano una funzione puramente coreografica; terminata la battaglia, i luoghi distrutti venivano semplicemente dimenticati. È in quest’ultima caratteristica che Zambot 3 differisce dai predecessori: i “danni collaterali” prodotti dalle battaglie – ivi comprese quelle vinte – giocano un ruolo fondamentale, in funzione sia scenica che narrativa. Per la prima volta si assiste all’esodo della gente costretta ad abbandonare i centri urbani, si vedono i campi profughi, i disagi, la carenza di viveri, di mezzi, di materiali… Viene mostrato un volto un po’ meno edulcorato della guerra, di fronte ai cui orrori la reazione più verosimile della popolazione è il risentimento indistinto verso i combattenti, aggressori o difensori che siano. Prima ancora che col nemico, è con questo sentimento di profonda ostilità nei loro riguardi, proprio da parte di chi stanno proteggendo, che gli eroi dovranno confrontarsi.
L’ambientazione acquista importanza e maggior coerenza; e, trovandosi in un contesto che narra di una guerra, la coerenza non può che tradursi in drammaticità. In Zambot 3, il senso del dramma non è vincolato alle sottotrame dei singoli episodi, come avveniva nelle precedenti serie robotiche, ma è un elemento essenziale dell’impianto scenico.
Nel rispetto della cornice bellica si vedono “finalmente” invasori che, dichiarato l’intento di sterminare gli esseri umani, agiscono appunto secondo questa logica, ossia finalizzando i loro sforzi non alla semplice sconfitta del robot buono ma… all’uccisione di persone, e quante più possibili!
Il riferimento è al tema che ha reso celebre Zambot 3, quello delle bombe-uomo. In un certo momento della serie, che coincide con l’episodio numero 16, e fino all’episodio 19 compreso, gli autori concentrano il tiro sulla nuova strategia terroristica adottata da Killer the Butcher (il pittoresco capo degli invasori, anch’esso componente piuttosto originale rispetto ai soliti cattivi), quella d’impiantare delle bombe a tempo nel corpo dei prigionieri umani, e poi lasciarli liberi, rendendoli inconsapevoli portatori di morte.
La “trovata” non è del tutto inedita (era presente, per esempio, anche in un episodio di Guyslugger, altra serie del ‘77, trasmessa qualche mese prima) ma viene qui sviluppata con un tale senso della tragicità abbinata a intento didascalico, da mettere in secondo piano ogni considerazione sul buono o cattivo gusto dell’usare certi eccessi al fine prevalente di stupire, anzi di scioccare. Quello delle bombe-uomo diventa l’elemento cardine su cui si costruisce la trama e si impostano i significati. Ricorre così l’inquietante analogia tra lo sterminio comandato da Butcher e quello metodico perpetrato dai nazisti, con i campi profughi trasformati in campi di concentramento, i mezzi di assistenza divenuti mezzi di rastrellamento, e, nei corridoi delle camere operatorie, le file dei terrestri ignari… simili ad altre penose colonne di prigionieri, in attesa davanti all’ingresso di altri famigerati locali.
Nell’episodio numero 17 si assiste al volontario allontanamento delle persone trasformate in bombe: avvisate della loro condizione senza che nulla però si possa fare per mutarla, non resta loro altro da fare che raggiungere luoghi isolati in attesa della fine; c’è chi affronta questo destino con dignitosa rassegnazione, e chi invece cede allo sconforto, e vorrebbe scappare, ma viene trattenuto dagli stessi compagni di sventura. Nell’episodio numero 18, la sorte delle bombe-uomo tocca anche ad Aki, la migliore amica del protagonista Kappei; qui la condannata è del tutto inconsapevole, e la morte la coglie in un momento di quiete e felicità, lasciando ancor più sconcertato lo spettatore. Sono due scene che, per impatto espressivo, non sarebbe esagerato definire liriche.
Il dramma raggiunge però il suo culmine nel finale, col sacrificio di quasi tutti i personaggi principali, e il confronto tra Kappei e Gaizok in cui si svela la natura di quest’ultimo: non un semplice demone assetato di sangue, ma un freddo supercomputer programmato per mondare la Galassia dalle specie che dimostrano di possedere una malvagità congenita in grado d’inquinarla. Il genere umano è considerato una di tali specie, e l’ingrato atteggiamento con cui esso ha, fino a quel momento, ripagato il sacrificio dei Jin sembrerebbe accreditare questo giudizio.
Eppure… il tripudio con cui Kappei, unico eroe superstite, viene accolto al suo rientro sulla Terra ribalta in un istante ogni prospettiva, e trasforma la tragedia appena consumata in un trionfo della speranza: i Terrestri si sono infine ravveduti, e le vite perse per loro dai Jin non sono state spese invano.
I toni narrativi di questa serie sono dunque decisamente “forti”, considerando il target di bambini a cui dovevano rivolgersi, ma evidentemente si adeguavano alla maturità del pubblico e ad una naturale evoluzione legata al genere; in nessun momento prevale comunque l’impressione che la violenza proposta sia gratuita, o priva del suo corretto insegnamento morale. Nonostante lo scopo di certe scelte debba considerarsi – almeno in parte – commerciale (allora come ora, fare sensazione significava fare ascolto), quest’opera è stata diretta con sufficiente sensibilità da renderne valido il messaggio educativo: Zambot 3 è un cartone contro i pregiudizi.
Dal punto di vista tecnico, occorre rilevare che si tratta del primo anime interamente prodotto dalla SUNRISE; da un’opera prima non ci si poteva quindi che aspettare questi elementi d’innovazione e sperimentazione, che renderanno peraltro famosissimi i nomi degli autori…
Tra coloro che si occuparono dell’animazione, va citato YOSHINORI KANADA – fino ad allora sconosciuto – con le sue originali soluzioni grafiche utilizzate per rappresentare raggi dei laser e giochi di luce (che poi faranno epoca), o le sue – un po’ anarchiche – variazioni nel design, riconoscibili in certe scene dove i tratti dei personaggi, disegnati da YOSHIKAZU YASUHIKO, divengono più graffianti, deformati, ripresi da prospettive eccentriche… Tutti caratteri identificativi che si ritroveranno assai più espliciti l’anno successivo in Daitarn III.
Gli ideatori del soggetto di Zambot 3 sono YOSHITAKE SUZUKI e YOSHIYUKI TOMINO, quest’ultimo curatore anche della sceneggiatura e della regia.
Menzionato Tomino, è quasi superfluo ricordare che proprio con Zambot 3 nel 1977 inizia quella rivoluzione che, proseguendo con Daitarn III nel ‘78, arriverà nel ‘79 a partorire il meka forse più famoso e venduto di tutti i tempi, quel Gundam che cambiò per sempre il concetto di realismo applicato agli anime robotici.
Oggi di Zambot, dell’attenzione prestata al tema dell’integrazione, della tolleranza, dell’apertura sociale verso chi proviene – essendovi costretto – da altri “mondi”, non possiamo che constatare la grande attualità, e apprendere un insegnamento: la diversità è un bene prezioso, che ci ha già salvati in passato, e continuerà a farlo in futuro… se noi gliene lasceremo la possibilità.